Archive pour le 17 octobre, 2008

buona notte

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Cardinale John Henry Newman : San Luca, evangelista, « servo della Parola » (Lc 1,2)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&ordo=&localTime=10/18/2008#

Cardinale John Henry Newman (1801-1890), sacerdote, fondatore di una comunità religiosa, teologo
PPS, vol. 3 no. 22 : « The Good Part of Mary »,

San Luca, evangelista, « servo della Parola » (Lc 1,2)

Buona è ogni parola di Cristo, ha la sua missione e la sua meta, non non si disperde. È impossibile che il Verbo di Dio abbia mai pronunciato parole effimere, poiché Egli esprime, secondo il suo volere, i consigli profondi e la volontà santa del Dio invisibile. Ogni parola di Cristo è buona. Anche se le sue parole ci fossero state trasmesse da gente qualsiasi, possiamo essere sicuri che nulla di ciò che è arrivato fino a noi – che si tratti di parole a un discepolo o a un oppositore, di avvertimenti, avvisi, rimproveri, parole di conforto, di persuasione o di condanna – nulla di queste ha un significato meramente accidentale, una portata limitata o parziale…

Anzi, tutte le parole di Cristo, pur rivestite di una forma temporanea e ordinate a uno scopo immediato, e per questo difficili da estrapolare da ciò che in esse c’è di momentaneo o contingente, conservano tutta la loro forza in ogni secolo. Rimanendo nella Chiesa, sono destinate a durare per sempre nei cieli (cfr Mt 24,35); si prolungano fino nell’eternità. Sono la nostra regola santa, giusta e buona, «lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino» (Sal 118,105), così pienamente e intimamente adatte a nostro tempo come quando sono state pronunciate.

Questo sarebbe stato vero anche se la premura di un solo uomo avesse raccolto queste briciole dalla tavola di Cristo. Ma abbiamo una speranza molto più grande, perché le riceviamo non dagli uomini bensì da Dio (1 Tes 2,13). Lo Spirito Santo, che è venuto a glorificare Cristo e a dare agli evangelisti l’ispirazione per scrivere, non ha tracciato per noi un Vangelo sterile. Sia lodato di aver scelto e salvaguardato per noi le parole che sarebbero dovute essere particolarmente utili nei tempi a venire, le parole cioè che possono servire di legge alla Chiesa, per la fede, la morale e la disciplina. Non una legge scritta su delle tavole di pietre (Es 24,12), bensì una legge di fede e di amore, dello spirito non della lettera (Rm 7,6), una legge per dei cuori generosi, che accettano di «vivere di ogni parola – per quanto modesta e umile sia – che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,3; Mt 4,4).

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Sant’Ignazio d’Antiochia

Sant'Ignazio d'Antiochia dans immagini sacre

http://santiebeati.it/

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17 ottobre – Sant’ Ignazio di Antiochia Vescovo e martire

dal sito: 

http://www.santiebeati.it/dettaglio/24900

Sant’ Ignazio di Antiochia Vescovo e martire

17 ottobre

m. 107 circa

Fu il terzo vescovo di Antiochia, in Siria, terza metropoli del mondo antico dopo Roma e Alessandria d’Egitto e di cui san Pietro era stato il primo vescovo. Non era cittadino romano, e pare che non fosse nato cristiano, convertendosi in età non più giovanissima. Mentre era vescovo ad Antiochia, l’Imperatore Traiano dette inizio alla sua persecuzione. Arrestato e condannato, Ignazio fu condotto, in catene, da Antiochia a Roma dove si allestivano feste in onore dell’Imperatore e i cristiani dovevano servire da spettacolo, nel circo, sbranati dalle belve. Durante il viaggio da Antiochia a Roma, Ignazio scrisse sette lettere, in cui raccomandava di fuggire il peccato, di guardarsi dagli errori degli Gnostici, di mantenere l’unità della Chiesa. Di un’altra cosa poi si raccomandava, soprattutto ai cristiani di Roma: di non intervenire in suo favore e di non salvarlo dal martirio. Nell’anno 107 fu dunque sbranato dalle belve verso le quali dimostrò grande tenerezza. «Accarezzatele  » scriveva  » affinché siano la mia tomba e non faccian restare nulla del mio corpo, e i miei funerali non siano a carico di nessuno». (Avvenire)

Etimologia: Ignazio = di fuoco, igneo, dal latino

Emblema: Bastone pastorale, Palma

Martirologio Romano: Memoria di sant’Ignazio, vescovo e martire, che, discepolo di san Giovanni Apostolo, resse per secondo dopo san Pietro la Chiesa di Antiochia. Condannato alle fiere sotto l’imperatore Traiano, fu portato a Roma e qui coronato da un glorioso martirio: durante il viaggio, mentre sperimentava la ferocia delle guardie, simile a quella dei leopardi, scrisse sette lettere a Chiese diverse, nelle quali esortava i fratelli a servire Dio in comunione con i vescovi e a non impedire che egli fosse immolato come vittima per Cristo.

Dalla data del 1° febbraio, la memoria di Sant’Ignazio Martire è stata riportata ad oggi, data tradizionale del suo martirio, dal nuovo Calendario ecclesiastico, che la prescrive come obbligatoria per tutta la Chiesa.
Sant’Ignazio fu il terzo Vescovo di Antiochia, in Siria, cioè della terza metropoli del mondo antico dopo Roma e Alessandria d’Egitto.
Lo stesso San Pietro era stato primo Vescovo di Antiochia, e Ignazio fu suo degno successore: un pilastro della Chiesa primitiva così come Antiochia era uno dei pilastri del mondo antico.
Non era cittadino romano, e pare che non fosse nato cristiano, e che anzi si convertisse assai tardi. Ciò non toglie che egli sia stato uomo d’ingegno acutissimo e pastore ardente di zelo. I suoi discepoli dicevano di lui che era  » di fuoco « , e non soltanto per il nome, dato che ignis in latino vuol dire fuoco.
Mentre era Vescovo ad Antiochia, l’Imperatore Traiano dette inizio alla sua persecuzione, che privò la Chiesa degli uomini più in alto nella scala gerarchica e più chiari nella fama e nella santità.
Arrestato e condannato ad bestias, Ignazio fu condotto, in catene, con un lunghissimo e penoso viaggio, da Antiochia a Roma dove si allestivano feste in onore dell’Imperatore vittorioso nella Dacia e i Martiri cristiani dovevano servire da spettacolo, nel circo, sbranati e divorati dalle belve.
Durante il suo viaggio, da Antiochia a Roma, il Vescovo Ignazio scrisse sette lettere, che sono considerate non inferiori a quelle di San Paolo: ardenti di misticismo come quelle sono sfolgoranti di carità. In queste lettere, il Vescovo avviato alla morte raccomandava ai fedeli di fuggire il peccato; di guardarsi dagli errori degli Gnostici; soprattutto di mantenere l’unità della Chiesa.
D’un’altra cosa poi si raccomandava, scrivendo particolarmente ai cristiani di Roma: di non intervenire in suo favore e di non tentare neppure di salvarlo dal martirio.
 » lo guadagnerei un tanto – scriveva – se fossi in faccia alle belve, che mi aspettano. Spero di trovarle ben disposte. Le accarezzerei, anzi, perché mi divorassero d’un tratto, e non facessero come a certuni, che han timore di toccarli: se manifestassero queste intenzioni, io le forzerei « .
E a chi s’illudeva di poterlo liberare, implorava:  » Voi non perdete nulla, ed io perdo Iddio, se riesco a salvarmi. Mai più mi capiterà una simile ventura per riunirmi a Lui. Lasciatemi dunque immolare, ora che l’altare è pronto! Uniti tutti nel coro della carità, cantate: Dio s’è degnato di mandare dall’Oriente in Occidente il Vescovo di Siria! « .
Infine prorompeva in una di quelle immagini che sono rimaste famose nella storia dei Martiri:  » Lasciatemi essere il nutrimento delle belve, dalle quali mi sarà dato di godere Dio. lo sono frumento di Dio. Bisogna che sia macinato dai denti delle belve, affinché sia trovato puro pane di Cristo « .
E, giunto a Roma, nell’anno 107, il Vescovo di Antiochia fu veramente  » macinato  » dalle innocenti belve del Circo, per le quali il Martire trovò espressioni di una insolita tenerezza e poesia:  » Accarezzatele, scriveva infatti, affinché siano la mia tomba e non faccian restare nulla del mio corpo, e i miei funerali non siano a carico di nessuno « .

Fonte: Archivio Parrocchia

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di Sandro Magister : L’arte di leggere le Scritture. Una lezione per gli analfabeti d’oggi

dal sito: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/208629

L’arte di leggere le Scritture. Una lezione per gli analfabeti d’oggi

È la liturgia che deve tornare a plasmare la lettura e la comprensione della Bibbia. Come nel monachesimo medievale, creatore della moderna civiltà. Timothy Verdon spiega perché, in un sinodo dei vescovi giunto a metà strada

di Sandro Magister

ROMA, 16 ottobre 2008 A quasi metà del suo percorso, il sinodo dei vescovi dedicato a « La parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa » ha chiesto consulto anche alla sociologia.

Il consulto è avvenuto non nell’aula sinodale, ma poco lontano, nella sala stampa della Santa Sede. Lì, martedì 14 ottobre, il professor Luca Diotallevi, dell’Università di Roma Tre, ha presentato i risultati di una grande inchiesta condotta da GFK-Eurisko in dodici paesi del mondo: Stati Uniti, Regno Unito, Olanda, Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia, Russia, Hong Kong, Filippine, Argentina.

Il primo dato è che un’ampia maggioranza delle popolazioni adulte di questi paesi dichiara di aver fatto esperienza di Dio: un Dio che « veglia sulla propria vita e la protegge ».

Inoltre, una maggioranza altrettanto ampia dice di pregare. La credenza in Dio non risulta dunque in regresso. Anzi, in paesi come la Russia e Hong Kong appare in impetuosa ripresa.

A fronte di questa diffusa, persistente domanda di senso religioso, appare invece insufficiente la risposta che le Chiese e le comunità cristiane sanno dare ad essa. Assumendo infatti la Bibbia come misura di questa risposta, l’indagine mostra che sono pochi coloro che ne hanno letto almeno un brano negli ultimi dodici mesi.

Soprattutto in Europa, il contatto che si ha con la Bibbia è quasi soltanto quello che avviene in chiesa, con l’omelia. I soli paesi in cui la Bibbia è letta da un’ampia maggioranza della popolazione sono gli Stati Uniti e le Filippine.

Nonostante sia poco letta e conosciuta, la Bibbia gode comunque di una considerazione molto positiva. In larga maggioranza, gli intervistati giudicano il suo contenuto « reale », « interessante », « vero ». Ma nello stesso tempo « difficile »: il che chiama di nuovo in causa le responsabilità delle Chiese.

In termini sociologici, il professor Diotallevi ha così sintetizzato la lezione ricavata dall’indagine:

« Il livello del consumo di riti religiosi ha enormi margini di crescita, ma l’offerta religiosa è ben lontana dall’aver soddisfatto tutta la potenziale domanda già presente ».

* * *

Naturalmente, dell’analfabetismo biblico contemporaneo si possono dare altre letture, oltre a quella sociologica.

È quanto ha fatto, ad esempio, Timothy Verdon in un magistrale articolo pubblicato su « L’Osservatore Romano » di domenica 12 ottobre.

Verdon è storico dell’arte. Dirige, a Firenze, lufficio diocesano per la catechesi attraverso larte e partecipa al sinodo dei vescovi come esperto. In questo articolo egli spiega in chiave artistica, liturgica, teologica lo smarrimento di senso che le Sacre Scritture hanno patito nelle età moderna e contemporanea.

La ricostruzione che Verdon fa è affascinante. Ma per comprenderla appieno occorre guardare anche al suo sfondo.

Che è la grande lezione letta da Benedetto XVI a Parigi, al Collège des Bernardins, lo scorso 12 settembre:

> « Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui »

Ecco dunque l’articolo di Verdon su « L’Osservatore Romano » del 12 ottobre 2008:

Alla ricerca del simbolo perduto. L’analfabetismo biblico contemporaneo

di Timothy Verdon

Mentre il sinodo dei vescovi medita la Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, può essere utile riflettere su ciò che si potrebbe chiamare « l’analfabetismo biblico contemporaneo », sulla perdita pressoché totale degli istinti e delle tecniche, cioè, che nei secoli hanno plasmato il modo cristiano di accostarsi alla sacra pagina.

Per rendersi conto della gravità di questa situazione, basta considerare i libri miniati prodotti nei monasteri medievali per l’uso liturgico. Il fruitore moderno che viene a contatto con simili tesori nell’ambito di una mostra o di un testo di storia dell’arte, forse non capisce neanche la distanza che oggi ci separa dal mondo che li ha plasmati: tra la nostra esperienza « libraria » e quella medievale ci sono infatti differenze così basilari che rischiamo di non avvertirle. Nell’era di internet, già il concetto di « libro » comincia a sfuggirci, e alla luce di moderni studi biblici e liturgici l’idea tradizionale di un « libro sacro » similmente ha un peso diverso che in passato. In pratica, oggi è quasi impossibile concepire l’autorità sacrale che un testo biblico o liturgico aveva nel medioevo.

Lo stesso vale per le miniature che adornano il testo. Il nostro tempo, saturo d’immagini brillantemente colorate nelle riviste, sui giornali, in televisione foto istantanee, riprese in diretta, immagini fabbricate dal computer non riesce a cogliere la sorpresa, la deliziosa freschezza di miniature dalle tinte limpide, splendenti d’oro tra fitte colonne di scrittura in un codice. Né abbiamo modo di ripristinare il rapporto intellettuale e affettivo sussistente tra l’immagine fissa e un testo antico, conosciuto, amato, creduto.

Eppure per più di mille anni di storia europea il contesto tipico dei libri era precisamente quello di una fede intensamente vissuta, profondamente meditata, e nutrita da testi così antichi da sembrare « eterni »: testi che collocavano il lettore sul confine tra la propria situazione e realtà universali, il contesto liminale che possiamo definire semplicemente con il termine « preghiera ». I libri liturgici servivano infatti alla preghiera comunitaria, e le Bibbie alla « lectio divina », che a sua volta era nutrita e in qualche modo plasmata dalla liturgia e dalla devozione.

Per liturgia intendiamo qui l’intero complesso di riti ecclesiastici, con al suo centro la liturgia eucaristica o messa. I testi della messa, che variano secondo la festività o periodo dell’anno, effettivamente obbligano a una sorta di « lectio divina » comunitaria, a una duttilità, nell’interpretazione dell’evento o personaggio celebrato, che dobbiamo chiamare contemplativa. Ogni cosa viene continuamente riportata al mistico centro della fede cristiana, il sacrificio di se stesso che Cristo compì morendo in croce, e alla vita nuova della sua risurrezione. Perfino la notte di Natale i testi della messa obbligano a collegare la gioia di una nascita con il fatto drammatico della morte in croce; il corpicciolo nella mangiatoia, il corpo dell’uomo adulto crocifisso, il « Corpus Christi » realmente presente nel pane eucaristico e il « Corpo Mistico » costituito dalla comunità raccolta in preghiera diventano una sola cosa. Ecco perché nell’affresco della basilica di Assisi raffigurante san Francesco che pone il Bambino nella mangiatoia del presepe di Greccio, questa viene collocata sotto una grande croce e accanto all’altare.

Si tratta di un modo di vedere e comprendere i rapporti di causalità tra eventi storici, metastorici e soprannaturali, diverso dal nostro: un modo di vedere e comprendere che influiva sul modo di leggere e quindi anche d’immaginare e di raffigurare i contenuti dei testi.

Prendiamo l’esempio dell’illustrazione riprodotta sopra: una splendida iniziale dipinta nel trecentesco breviario della biblioteca civica Queriniana di Brescia; è il « B » della prima parola del salmo 1 nel latino della Vulgata: « Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum », beato l’uomo che non sta con i peccatori. I padri della Chiesa leggevano questo inizio del salmo in riferimento a Cristo, e così il miniaturista dell’iniziale « B » usa gli spazi aperti nella « B » per evocare l’intera vita di Cristo, con scene dell’annunciazione, della natività, della crocifissione e della sepoltura. Situando le parole « Beatus vir » nell’iniziale e nel bordo sotto queste scene, l’anonimo artista associa la « beatitudine » del rapporto umano con Dio il tema del salmo con Gesù il Cristo.

Lo stile antico di lettura aveva inoltre una dimensione parabolica che, nell’odierna epoca di studi biblici « scientifici », rischiamo di perdere. L’antifona del « Benedictus » per le lodi della solennità dell’Epifania, ad esempio, collega in modo straordinariamente suggestivo i tre eventi biblici che, nella loro sequenza cronologica, insieme costituiscono la prima manifestazione di Cristo al mondo: l’arrivo dei Magi portando doni al neonato Gesù (Matteo 2, 1-12); il battesimo di Gesù trentenne nel fiume Giordano (Matteo 3, 13-17; Marco 1, 9-11; Luca 3, 21-22); e la mutazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (Giovanni 2, 1-12). Ma l’anonimo autore dell’antifona inverte l’ordine cronologico e sovrappone le nozze al battesimo, dicendo: « Oggi lo Sposo celeste si unisce alla sua Chiesa che Cristo lava dal peccato nel Giordano ». Avendo in questo modo evocato il matrimonio di Dio con il suo popolo promesso dai profeti, nonché l’obbligo dello « sposo » di purificare la sua « sposa », lavandola (cfr. Efesini, 5, 25-27), l’autore inserisce poi i Magi, facendoli arrivare con i doni come invitati alla festa nuziale, i cui commensali verranno infine rallegrati dall’acqua mutata in vino del primo miracolo di Cristo, avvenuto a Cana: « Hodie caelesti Sponso juncta est Ecclesia, quoniam in Iordane lavit eius crimina: currunt cum munere Magi ad regales nuptias, et ex acqua facto vino laetantur conviviae, alleluia! ». Che tradotto dice: « Oggi al celeste Sposo s’è congiunta la Chiesa, poiché nel Giordano egli ha lavato i suoi peccati. Accorrono i Magi con doni alle nozze regali e sallietano i convitati dellacqua mutata in vino. Alleluia! ».

Sono la prima parola dell’antifona e l’ultima a spiegare questo stile di lettura: « hodie » e « alleluia! ». Qui i testi neotestamentari sono stati interpretati alla luce della liturgia, e nella liturgia cambia il senso del tempo, così che eventi passati e perfino tra loro sequenziali vengono vissuti in maniera estatica nell’unico « oggi » di Dio, con l’effetto di trasformare impossibili sovrapposizioni storiche in misteri compresenti e interpenetranti. Ogni evento getta luce su ogni altro evento, nell’unico progetto del Padre rivelato dalla vita-morte-risurrezione di Cristo: ecco la « forma mentis » che sottostà a innumerevoli immagini cristiane, dalle catacombe al XXI secolo.

Sia l’iniziale miniata che l’antifona dell’Epifania sono poi frutti dell’immaginazione monastica, e questa origine è di fondamentale importanza. Il monachesimo è in sé un’opera d’arte: rende visibile e tangibile un’intensità particolare della vita cristiana, perché il monaco vuole essere, come Cristo, icona o immagine della bellezza di Dio; e il monastero è quel luogo in cui, con l’aiuto di confratelli che condividono la stessa visone interiore, l’opera può essere tranquillamente perfezionata, in una sorta di laboratorio dell’anima.

La più diffusa formulazione occidentale della vita monastica, la « Regula monachorum » di san Benedetto da Norcia, invoca esplicitamente questa analogia quando paragona il monastero alla bottega di un artigiano, caratterizzando l’intera vita dei monaci come un processo creativo (Regula 4, 75-78). Questa affermazione fa eco poi a una tradizione più antica, che immaginava la vita di ogni credente impreziosita « con l’oro delle buone opere e con i mosaici della fede perseverante ». Ciò che differenzia i monaci dagli altri cristiani, almeno nel pensiero di san Benedetto, è la misura dell’impegno: i monaci investono la totalità delle loro energie umane nel progetto spirituale, avendo per « attrezzi » i precetti morali della vita cristiana, « instrumenta artis spiritalis » (Regula 4, 75).

Anche se il senso di queste frasi è chiaramente metaforico, non stupisce che la metafora si sia trasformata in realtà e che i monasteri siano diventati centri propulsori delle arti, come del resto san Benedetto s’aspettava (cfr. capitolo 57 della regola, su « Gli artigiani nel monastero »). Un clima di creatività in un settore dell’esperienza suscita analoga creatività in altri settori, e inoltre la vita monastica favorisce la produzione dell’arte sacra perché, escludendo distrazioni profane, permette all’artista di immergersi nelle Scritture e nelle azioni sacramentali che danno colore e forma alla sua fede, garantendogli inoltre un « pubblico » devoto e preparato.

Nella storia del cristianesimo, i frutti culturali del monachesimo non sono stati poi limitati ai monaci, dal momento che il silenzio e la vita ritirata dei monasteri, invece di allontanare la massa dei fedeli, l’hanno attirata, e la storia monastica conferma il fascino che i monaci hanno sempre suscitato in larghe fasce della società. Molto prima che Alcuino insegnasse o Anselmo scrivesse, i cittadini di Alessandria d’Egitto si inoltravano nel deserto per ascoltare sant’Antonio abate e i romani portavano i loro figli da san Benedetto. Anche quando l’età dell’oro della cultura monastica incominciò ad attenuarsi, a partire dal XIII-XIV secolo, l’ideale di una solitudine colma di preghiera sarebbe rimasta come paradigma per gli ordini religiosi attivi del tardo medioevo e per i laici a cui essi predicavano.

Non si esagera affermando che le conquiste formali dei monaci la loro arte e architettura, le pratiche liturgiche e devozionali, le strutture organizzative e i metodi educativi, agricoli e mercantili abbiano plasmato la coscienza culturale d’Europa. Più ancora, la vita monastica stessa, considerata come scelta sociale creativa e libera, si è profondamente impressa nell’immaginario dei cristiani, fino al punto che alcune tra le più fondamentali aspirazioni della nostra civiltà sono leggibili solo alla luce della « impresa » monastica.

In tutto questo, è importante cogliere il duplice ruolo dell’immaginazione. Da una parte la vita monastica richiede uno sforzo d’immaginazione in chi l’abbraccia diventando monaco; dall’altra, richiede uno sforzo immaginativo in chi non si fa monaco, nella società cristiana in genere. L’uomo o donna che rinuncia ai beni legittimi della vita, ritirandosi per cercare Dio nel silenzio e nella preghiera, ha bisogno di una notevole capacità di « immaginazione » sociale e morale per perseverare nel credere in « quelle cose che occhio non vide mai, né orecchio udì, ma che Dio ha preparato per coloro che l’amano » (1 Corinzi 2, 9): questo passo è infatti citato nella regola di san Benedetto (4, 77). Soprattutto nel rapporto a volte problematico con i confratelli, oltre alla fede è anche l’immaginazione a permettere al monaco di sentire che « ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me » (Matteo, 25, 40; cfr. Regula 36, 3).

Per un analogo atto d’immaginazione, coloro che non entrano in monastero hanno scelto, attraverso i secoli, di considerare i monaci « sapienti » e « profeti » piuttosto che pericolosi dissidenti al margine alla società. Dalle migliaia di persone che andarono dall’abate Antonio nel deserto egiziaco, chiedendo una sua parola, alle centinaia di migliaia che oggi leggono Thomas Merton o Enzo Bianchi, i cristiani hanno creduto che la solitudine dei monaci non implichi disprezzo per gli altri, e che dal loro silenzio possa scaturire una sapienza al servizio dell’uomo.

Commovente nella sua semplicità, questa fiducia suggerisce la più importante funzione del monachesimo nella vita immaginativa dei cristiani, quella di « simbolo » che investe di santità ciò che gli viene avvicinato. I visitatori a un monastero, come i monaci stessi, hanno l’impressione che, nel raccoglimento contemplativo del chiostro, i luoghi e gli oggetti assumono qualcosa della intenzionalità e dedizione degli abitanti di quei luoghi. Gli oggetti, anche umili, a un tratto vengono percepiti come segni che dischiudono la solidarietà tra l’uomo e il sacro, gradini in una scala che sale dalla terra al cielo. Proprio in questo spirito, san Benedetto dice che perfino gli attrezzi comuni del monastero vanno trattati come se fossero vasi sacri per la liturgia (Regula 31, 10).

Si tratta di un modo di vedere sacramentale, in cui la superficie delle cose si fa trasparente per rivelare una prospettiva infinita, investendo le immagini di efficacia. Una raffigurazione dell’Ultima Cena in un refettorio monastico, come quella di Leonardo da Vinci a Santa Maria delle Grazie, a Milano, non è solo decorazione, ma un oggetto funzionale che comunica e nutre la fede da cui nasce. Le scelte operative nella genesi formale dell’opera, che normalmente rientrano nell’ambito della storia dell’arte, qui s’intrecciano con altre scelte, non estetiche, ma esistenziali.

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Marguerite Marie Alacoque

Marguerite Marie Alacoque dans immagini sacre stemarg

http://dieu-sauve.chez-alice.fr/apparitions/paray/paray.htm

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Papa Benedetto XVI : « A voi miei amici dico: Non temete coloro che uccidono il corpo »

dal sito: 

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=10/17/2008#

Papa Benedetto XVI
Lettera enciclica « Spe Salvi », 27 (© copyright Libreria Editrice Vaticana)

« A voi miei amici dico: Non temete coloro che uccidono il corpo »

Chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora « sino alla fine », « fino al pieno compimento » (Gv 13,1 e 19, 30).

Chi viene toccato dall’amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe « vita ». Comincia a intuire che cosa vuole dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: «Dalla fede aspetto la vita eterna » – la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere «venuto perché noi abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza, in abbondanza» (Gv 10,10), ci ha anche spiegato che cosa significhi « vita »: « Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora « viviamo ».

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meditazione dai Padri del deserto: I passi dell’eremita

dal sito: 

http://www.villaggiodellapace.it/Preghiere%20Opuscolo/I_passi_dell’eremita.htm

I PASSI DELL’EREMITA

Al tempo dei padri del deserto c’era un santo monaco eremita. Aveva vissuto a lungo con altri monaci e un maestro. Poi si era addentrato nel più profondo deserto per vivere una vita di maggiore penitenza. Tutte le mattine, dopo il risveglio e la preghiera, si recava ad attingere acqua per le necessità della giornata. Ma il pozzo era lontano e lui sempre più vecchio. Così meditava di trasferirsi in una grotta più vicina alla sorgente. Un giorno, tornando a casa con il pesante orcio pieno d’acqua, più affaticato del solito, pensava: « Domani raccoglierò le mie poche cose e andrò a vivere più vicino al pozzo ». Mentre pensava così, fu sorpreso di udire un fruscio dietro di sé. Si voltò e vide un Angelo con un libro aperto, che contava i suoi passi e scriveva: duemilacento…. duemilacentouno… duemilacentodue…

Il santo vecchio trasalì di stupore, ma l’Angelo lo rassicurò: « Continua a camminare, non avere paura, Sto annotando i tuoi dolorosi passi sul Libro della Vita. Ricordati, niente va perduto davanti al Signore! »

Il giorno dopo il santo eremita trasferì la sua residenza… ma per andare un po’ più lontano dal pozzo.

Dalle tradizioni dei padri del deserto

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16 ottobre – Santa Margherita Maria Alacoque Vergine – (m.f.)

dal sito: 

http://www.santiebeati.it/dettaglio/29650

 Santa Margherita Maria Alacoque Vergine 

16 ottobre e 17 ottobre – Memoria Facoltativa 

Verosvres, Autun, Francia, 1647 – Paray-le-Monial, 17 ottobre 1690

  

Nata in Borgogna nel 1647, Margherita ebbe una giovinezza difficile, soprattutto perché dovette vincere la resistenza dei genitori per entrare, a ventiquattro anni, neII’Ordine della Visitazione, fondato da san Francesco di Sales. Margherita, diventata suor Maria, restò vent’anni tra le Visitandine, e fin dall’inizio si offrì «vittima al Cuore di Gesù». Fu incompresa dalle consorelle, malgiudicata dai superiori. Anche i direttori spirituali dapprima diffidarono di lei, giudicandola una fanatica visionaria. Il beato Claudio La Colombière divenne preziosa guida della mistica suora della Visitazione, ordinandole di narrare, nell’autobiografia, le sue esperienze ascetiche. Per ispirazione della santa, nacque la festa del Sacro Cuore, ed ebbe origine la pratica dei primi Nove Venerdì del mese. Morì il 17 ottobre 1690. (Avvenire) 

Etimologia: Margherita = perla, dal greco e latino 

Emblema: Giglio 

Martirologio Romano: Santa Margherita Maria Alacoque, vergine, che, entrata tra le monache dell’Ordine della Visitazione della beata Maria, corse in modo mirabile lungo la via della perfezione; dotata di mistici doni e particolarmente devota al Sacratissimo Cuore di Gesù, fece molto per promuoverne il culto nella Chiesa. A Paray-le-Monial nei pressi di Autun in Francia, il 17 ottobre, si addormentò nel Signore.
(17 ottobre: A Paray-le-Monial nel territorio di Autun in Francia, transito di santa Margherita Maria Alacoque, vergine, la cui memoria si celebra il giorno precedente a questo). 

La memoria di Santa Margherita Maria Alacoque, francese, è legata alla diffusione della devozione del Sacro Cuore, una devozione tipica dei tempi moderni, e promossa infatti soltanto tre secoli fa, quando soffiò sulla Francia il vento gelido del Giansenismo, foriero della tormenta dell’Illuminismo.
All’origine della devozione al Cuore di Gesù si trovano due grandi Santi: Giovanni Eudes e Margherita Maria Alacoque. Del primo abbiamo già parlato il 19 agosto. dicendo come questo moschettiere dell’amore di Gesù e Maria fosse il primo e più fervido propagatore del nuovo culto.
Santa Margherita Maria Alacoque, da parte sua, fu colei che rivelò in tutta la loro mirabile profondità i doni d’amore dei cuore di Gesù, traendone grazie strepitose per la propria santità, e la promessa che i soprannaturali carismi sarebbero stati estesi a tutti i devoti del Sacro Cuore.
Nata in Borgogna nel 1647, Margherita ebbe una giovinezza difficile, soprattutto perché non le fu facile sottrarsi all’affetto dei genitori, e alle loro ambizioni mondane per la figlia, ed entrare, a ventiquattro anni, neII’Ordine della Visitazione, fondato da San Francesco di Sales. Margherita, diventata suor Maria, restò vent’anni tra le Visitandine, e fin dall’inizio si offrì  » vittima al Cuore di Gesù « . In cambio ricevette grazie straordinarie, come fuor dell’ordinario furono le sue continue penitenze e mortificazioni sopportate con dolorosa gioia. Fu incompresa dalle consorelle, malgiudicata dai Superiori. Anche i direttori spirituali dapprima diffidarono di lei, giudicandola una fanatica visionaria.  » Ha bisogno di minestra « , dicevano, non per scherno, ma per troppo umana prudenza.
Ci voleva un Santo, per avvertire il rombo della santità. E fu il Beato Claudio La Colombière, che divenne preziosa e autorevole guida della mistica suora della Visitazione, ordinandole di narrare, nella Autobiografia, le sue esperienze ascetiche, rendendo pubbliche le rivelazioni da lei avute.
 » Ecco quel cuore che ha tanto amato gli uomini « , le venne detto un giorno, nel rapimento di una visione. t una frase restata quale luminoso motto della devozione al Sacro Cuore. E poi, le promesse:  » Il mio cuore si dilaterà per spandere con abbondanza i frutti del suo amore su quelli che mi onorano « . E ancora:  » I preziosi tesori che a te discopro, contengono le grazie santificanti per trarre gli uomini dall’abisso di perdizione « .
Per ispirazione della Santa, nacque così la festa del Sacro Cuore, ed ebbe origine la pratica pia dei primi Nove Venerdì del mese. Vinta la diffidenza, abbattuta l’ostilità, scossa la indifferenza, si diffuse nel mondo la devozione a quel Cuore che a Santa Margherita Alacoque era apparso  » su di un trono di fiamme, raggiante come sole, con la piaga adorabile, circondato di spine e sormontato da una croce « . E’ l’immagine che appare ancora in tante case, e che ancora protegge, in tutto il mondo, le famiglie cristiane. 


Autore: Piero Bargellini 
 

Publié dans:Santi |on 17 octobre, 2008 |Pas de commentaires »

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