Archive pour le 4 octobre, 2008

Icon of Saint Paul’s mystical encounter with Christ in the Temple

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Icon of Saint Paul’s mystical encounter with Christ in the Temple, enshrined in the Abbey Church.

http://www.mountangelabbey.org/pauline-prayers.htm

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Il Papa: la Humanae vitae è un grande « sì » alla bellezza dell’amore

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-15627?l=italian

Il Papa: la Humanae vitae è un grande « sì » alla bellezza dell’amore

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 3 ottobre 2008 (ZENIT.org).- A 40 anni dalla pubblicazione dell’Enciclica Humanae vitae, « possiamo capire meglio quanto questa luce sia decisiva per comprendere il grande ‘sì‘ che implica l’amore coniugale », ha affermato Papa Benedetto XVI in un Messaggio diffuso questo venerdì dalla Sala Stampa della Santa Sede.

Il Papa si è rivolto ai partecipanti al Congresso internazionale « Humanae vitae: attualità e profezia di un’Enciclica », organizzato congiuntamente dal Pontificio Istituto « Giovanni Paolo II » per Studi su Matrimonio e Famiglia e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e in svolgimento questo venerdì e questo sabato presso l’Università Cattolica.

Nel suo messaggio, il Pontefice si concentra sull’importanza che continua ad avere il messaggio fondamentale dell’Humanae vitae oggi, affrontando la questione dell’amore coniugale come dono « senza riserve » degli sposi e la vita umana come « dono di Dio » e non come « l’obiettivo di un progetto umano ».

« La possibilità di procreare una nuova vita umana è inclusa nell’integrale donazione dei coniugi », avverte il Papa. In questo modo, l’amore coniugale « non solo assomiglia, ma partecipa all’amore di Dio, che vuole comunicarsi chiamando alla vita le persone umane ».

« Escludere questa dimensione comunicativa mediante un’azione che miri ad impedire la procreazione significa negare la verità intima dell’amore sponsale, con cui si comunica il dono divino », ha aggiunto.

Secondo il Papa, da ciò deriva la necessità di « riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo », per evitare che il figlio diventi uno strumento soggetto « all’arbitrio degli uomini ».

« E’ questo il nucleo essenziale dell’insegnamento che il mio venerato predecessore Paolo VI rivolse ai coniugi e che il Servo di Dio Giovanni Paolo II, a sua volta, ha ribadito in molte occasioni, illuminandone il fondamento antropologico e morale », ha osservato il Papa.

« In questa luce, i figli non sono più l’obiettivo di un progetto umano, ma sono riconosciuti come un autentico dono, da accogliere con atteggiamento di responsabile generosità verso Dio, sorgente prima della vita umana ».

« Questo grande ‘sì‘ alla bellezza dell’amore comporta certamente la gratitudine, sia dei genitori nel ricevere il dono di un figlio, sia del figlio stesso nel sapere che la sua vita ha origine da un amore così grande e accogliente ».

Il Papa ha anche ricordato che il ricorso ai metodi naturali permette alla coppia di « amministrare quanto il Creatore ha sapientemente iscritto nella natura umana, senza turbare l’integro significato della donazione sessuale ».

A questo proposito, il Pontefice si chiede « come mai oggi il mondo, ed anche molti fedeli, trovano tanta difficoltà a comprendere il messaggio della Chiesa, che illustra e difende la bellezza dell’amore coniugale nella sua manifestazione naturale ».

« La soluzione tecnica anche nelle grandi questioni umane appare spesso la più facile, ma essa in realtà nasconde la questione di fondo, che riguarda il senso della sessualità umana e la necessità di una padronanza responsabile, perché il suo esercizio possa diventare espressione di amore personale », ha osservato.

La tecnica, ha aggiunto, « non può sostituire la maturazione della libertà, quando è in gioco l’amore ».

In questo senso, Benedetto XVI ha spiegato che la Chiesa difende il ricorso ai metodi naturali di pianificazione familiare come l’atteggiamento più conforme alla dignità umana, perché tali metodi richiedono « una maturità nell’amore, che non è immediata, ma comporta un dialogo e un ascolto reciproco e un singolare dominio dell’impulso sessuale in un cammino di crescita nella virtù« .

« Solo gli occhi del cuore riescono a cogliere le esigenze proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell’essere umano », ha dichiarato.

Rivolgendosi ai responsabili della pastorale matrimoniale e familiare, ha quindi chiesto loro di saper  » orientare le coppie a capire con il cuore il meraviglioso disegno che Dio ha iscritto nel corpo umano, aiutandole ad accogliere quanto comporta un autentico cammino di maturazione ».

Il Papa ha infine ringraziato e incoraggiato le ricerche che si stanno svolgendo sui ritmi naturali della fertilità e sul modo di combattere naturalmente la sterilità presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore attraverso l’Istituto Internazionale Paolo VI.

« Gli uomini di scienza vanno incoraggiati a proseguire nelle loro ricerche, allo scopo di prevenire le cause della sterilità e potervi rimediare, in modo che le coppie sterili possano riuscire a procreare nel rispetto della loro dignità personale e di quella del nascituro », ha concluso.

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Predicatore del Papa: che sorte riserviamo a Cristo nella nostra vita?

dal sito:

http://www.zenit.org/article-15624?l=italian

Predicatore del Papa: che sorte riserviamo a Cristo nella nostra vita?

ROMA, venerdì, 3 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. predicatore della Casa Pontificia , alla liturgia di domenica prossima, XXVII del tempo ordinario.

* * *

XXVII Domenica del tempo ordinario

Isaia 5,1-7; Filippesi

4,6-9; Matteo 21, 33-43

SARA’ TOLTO A VOI IL REGNO DI DIO

Il contesto immediato della parabola dei vignaioli omicidi riguarda il rapporto tra Dio e il popolo d’Israele. È ad esso che storicamente Dio ha inviato dapprima i profeti e poi il suo stesso Figlio. Ma come tutte le parabole di Gesù, essa è una « storia aperta ». Nella vicenda Dio-Israele viene tracciata la storia del rapporto tra Dio e l’umanità intera. Gesù riprende e continua il lamento di Dio in Isaia della prima lettura. È lì che si deve cercare la chiave di lettura e il tono della parabola. Perché Dio ha « piantato la vigna » e quali sono « i frutti » che si aspetta e che a suo tempo viene a cercare? Qui la parabola si distacca dalla realtà. I vignaioli umani non piantano certo una vigna e non vi spendono le loro cure per amore della vigna, ma per il loro beneficio. Non così Dio. Egli crea l’uomo, entra in alleanza con lui, non per suo interesse, ma per il vantaggio dell’uomo, per puro amore. I frutti che si aspetta dall’uomo sono l’amore per lui e la giustizia verso gli oppressi: tutte cose che servono al bene dell’uomo, non di Dio.

Questa parabola di Gesù è terribilmente attuale applicata alla nostra Europa e in genere al mondo cristiano. Anche in questo caso bisogna dire che Gesù è stato « cacciato fuori della vigna », estromesso da una cultura che si proclama post-cristiana, o addirittura anti-cristiana. Le parole dei vignaioli risuonano, se non nelle parole almeno nei fatti, nella nostra società secolarizzata: « Uccidiamo l’erede e sarà nostra l’eredità! ». Non si vuole più sentire parlare di radici cristiane dell’Europa, di patrimonio cristiano. L’uomo secolarizzato vuole essere lui l’erede, il padrone. Sartre mette in bocca a un suo personaggio queste terribili dichiarazioni: « Non c’è più nulla in cielo, né Bene, né Male, né persona alcuna che possa darmi degli ordini. [...] Sono un uomo, e ogni uomo deve inventare il proprio cammino ».

Quella che ho indicato è una applicazione per così dire « a banda larga » della parabola. Ma quasi sempre le parabole di Cristo hanno anche una applicazione a banda stretta, o a livello individuale: si applicano a ogni singola persona, non solo all’umanità o alla cristianità in genere. Siamo invitati a chiederci: che sorte ho riservato io a Cristo nella mia vita? Come corrispondo all’incomprensibile amore di Dio per me? Non l’ho per caso anch’io cacciato fuori delle mura della mia casa, della mia vita…cioè dimenticato, ignorato. Ricordo che un giorno ascoltavo questa parabola durante una Messa, mentre ero abbastanza distratto. Arrivato al punto in cui si sente il padrone della vigna dire tra sé: « Avranno rispetto di mio Figlio », ebbi un soprassalto. Capii che quelle parole erano rivolte personalmente a me, in quel momento. Adesso il Padre celeste stava per mandare a me il Figlio nel sacramento del suo corpo e del suo sangue; ero compreso della grandezza del momento? Ero pronto ad accoglierlo con rispetto, come il Padre si aspettava? Quelle parole mi richiamarono bruscamente dai miei pensieri…

Aleggia nella parabola dei vignaioli omicidi un senso di rammarico, di delusione. Non si direbbe davvero una storia a lieto fine! Ma a leggerla in profondità, essa parla solo dell’amore incredibile di Dio per il suo popolo e per ogni sua creatura. Un amore che alla fine, anche attraverso le alterne vicende di smarrimenti e di ritorni, sarà sempre vittorioso e avrà l’ultima parola. I rifiuti di Dio non sono mai definitivi, sono abbandoni pedagogici. Anche il rifiuto d’Israele che risuona velatamente nelle parole di Cristo: « Sarà tolto a voi il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare », appartiene a questo genere, come è quello descritto da Isaia nella prima lettura. Abbiamo visto, del resto, che questo pericolo incombe anche sulla cristianità, o almeno su vaste parti di essa.

Scrive S. Paolo nella lettera ai Romani: « Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino…Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio. …Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti? » (Rom 11, 1 ss.).

Nella settimana appena trascorsa, il 29 Settembre, i fratelli hanno celebrato la loro festa forse più sentita il Capodanno, detto presso di loro Rosh Ha-shanà. Vorrei cogliere questa occasione per far giungere ad essi il mio augurio di pace e di prosperità. Con l’Apostolo Paolo grido anch’io: « Sia pace su tutto l’Israele di Dio ».

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San Francesco D’Assisi

San Francesco D'Assisi dans immagini sacre

http://santiebeati.it

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Paolo VI: « In quello stesso istante, Gesù esultò »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=10/04/2008#

Paolo VI, papa dal 1963 al 1978
Esortazione apostolica sulla gioia cristiana « Gaudete in Domino » (© copyright Libreria Editrice Vaticana)

« In quello stesso istante, Gesù esultò »

Per essenza, la gioia cristiana è partecipazione spirituale alla gioia insondabile, insieme divina e umana, che è nel cuore di Gesù Cristo glorificato… Soffermiamoci ora a contemplare la persona di Gesù, nel corso della sua vita terrena. Nella sua umanità, egli ha fatto l’esperienza delle nostre gioie. Egli ha manifestamente conosciuto, apprezzato, esaltato tutta una gamma di gioie umane, di quelle gioie semplici e quotidiane, alla portata di tutti. La profondità della sua vita interiore non ha attenuato il realismo del suo sguardo, né la sua sensibilità. Egli ammira gli uccelli del cielo e i gigli dei campi. Egli richiama tosto lo sguardo di Dio sulla creazione all’alba della storia. Egli esalta volentieri la gioia del seminatore e del mietitore, quella dell’uomo che scopre un tesoro nascosto, quella del pastore che ritrova la sua pecora o della donna che riscopre la dramma perduta, la gioia degli invitati al banchetto, la gioia delle nozze, quella del padre che accoglie il proprio figlio al ritorno da una vita di prodigo e quella della donna che ha appena dato alla luce il suo bambino.

Queste gioie umane hanno tale consistenza per Gesù da essere per lui i segni delle gioie spirituali del Regno di Dio: gioia degli uomini che entrano in questo Regno, vi ritornano o vi lavorano, gioia del Padre che li accoglie. E per parte sua Gesù stesso manifesta la sua soddisfazione e la sua tenerezza quando incontra fanciulli che desiderano avvicinarlo, un giovane ricco, fedele e sollecito di fare di più, amici che gli aprono la loro casa come Marta, Maria, Lazzaro. La sua felicità è soprattutto di vedere la Parola accolta, gli indemoniati liberati, una peccatrice o un pubblicano come Zaccheo convertirsi, una vedova sottrarre alla sua povertà per donare. Egli esulta anche quando costata che i piccoli hanno la rivelazione del Regno, che rimane nascosto ai dotti e ai sapienti. Sì, perché il Cristo «ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana» (PE 4) ha accolto e provato le gioie affettive e spirituali, come un dono di Dio. E senza sosta egli «ai poveri annunziò il vangelo di salvezza, agli afflitti la gioia» (PE4; cfr Lc 4,10).

VITA DI SAN FRANCESCO – IL TRANSITO

dal sito:

http://www.sanpiodapietrelcina.org/vitasanfrancesco.htm

VITA DI SAN FRANCESCO – IL TRANSITO (stralcio)

San Bonaventura (Legenda Maior)PROLOGO

LA SUA PAZIENZA. IL TRANSITO

1. Francesco, ormai confitto nella carne e nello spirito, con Cristo sulla croce, non solo ardeva di amore serafico verso Dio, ma sentiva la sete stessa di Cristo crocifisso per la salvezza degli uomini. E siccome non poteva camminare, a causa dei chiodi sporgenti sui piedi, faceva portare attorno per città e villaggi quel suo corpo mezzo morto, per animare tutti gli altri a portare la croce di Cristo.
Diceva ai frati: «Incominciamo, fratelli, a servire il Signore Dio nostro, perché finora abbiamo combinato poco».
Ardeva anche d’un gran desiderio di ritornare a quella sua umiltà degli inizi, per servire, come da principio, ai lebbrosi e per richiamare al primitivo fervore il corpo ormai consumato dalla fatica.
Si proponeva di fare grandi imprese, con Cristo come condottiero, e, mentre le membra si sfasciavano, forte e fervido nello spirito, sognava di rinnovare il combattimento e di trionfare sul nemico.
Difatti non c’è posto né per infermità né per pigrizia, là dove lo slancio dell’amore incalza a imprese sempre maggiori.
Tale era in lui l’armonia fra la carne e lo spirito; tanta la prontezza della carne ad obbedire, che, quando lo spirito si slanciava alla conquista della santità suprema, essa non solo non si mostrava recalcitrante, ma tentava di arrivare per prima.
2.
Ma perché crescesse in lui il cumulo dei meriti, che trovano tutti il loro compimento nella pazienza, l’uomo di Dio incominciò ad essere tormentato da molteplici malattie: erano così gravi che a stento restava nel suo corpo qualche parte senza strazio e pena.
A causa delle varie, insistenti, ininterrotte infermità, era ridotto al punto che ormai la carne era consumata e rimaneva quasi soltanto la pelle attaccata alle ossa.
Ma, per quanto strazianti fossero i suoi dolori, quelle sue angosce non le chiamava sofferenze, ma sorelle.
Una volta, vedendolo pressato più del solito dai dolori lancinanti, un frate molto semplice gli disse: «Fratello prega il Signore che ti tratti un po’ meglio, perché sembra che faccia pesare la sua mano su di te più del dovuto».
A quelle parole, il Santo esclamò con un grido: «Se non conoscessi la tua schiettezza e semplicità, da questo momento io avrei in odio la tua compagnia, perché hai osato ritenere discutibili i giudizi di Dio a mio riguardo». E, benché stremato dalla lunga e grave infermità, si buttò per terra, battendo le ossa indebolite nella cruda caduta. Poi baciò la terra, dicendo: «Ti ringrazio, Signore Dio per tutti questi miei dolori e ti prego, o Signore mio, di darmene cento volte di più, se così ti piace. Io sarò contentissimo, se tu mi affliggerai e non mi risparmierai il dolore, perché adempiere alla tua volontà è per me consolazione sovrappiena».
Per questo motivo ai frati sembrava di vedere un altro Giobbe, nel quale, mentre cresceva la debolezza del corpo, cresceva contemporaneamente la forza dello spirito.
Avendo conosciuto molto tempo prima il giorno del suo transito, quando esso fu imminente disse ai frati che entro poco tempo doveva deporre la tenda del suo corpo, come gli era stato rivelato da Cristo.
3.
Durante il biennio che seguì alla impressione delle stimmate, egli, come una pietra destinata all’edificio della Gerusalemme celeste, era stato squadrato dai colpi della prova, per mezzo delle sue molte e tormentose infermità, e, come un materiale duttile, era stato ridotto all’ultima perfezione sotto il martello di numerose tribolazioni.
Nell’anno ventesimo della sua conversione, chiese che lo portassero a Santa Maria della Porziuncola, per rendere a Dio lo spirito della vita, là dove aveva ricevuto lo spirito della grazia.
Quando vi fu condotto, per dimostrare che, sul modello di Cristo-Verità, egli non aveva nulla in comune con il mondo, durante quella malattia così grave che pose fine a tutto il suo penare, si prostrò in fervore di spirito, tutto nudo sulla nuda terra: così, in quell’ora estrema nella quale il nemico poteva ancora scatenare la sua ira, avrebbe potuto lottare nudo con lui nudo.
Così disteso sulla terra, dopo aver deposto la veste di sacco, sollevò la faccia al cielo, secondo la sua abitudine, totalmente intento a quella gloria celeste, mentre con la mano sinistra copriva la ferita del fianco destro, che non si vedesse.
E disse ai frati: «Io ho fatto la mia parte; la vostra, Cristo ve la insegni».
4.
Piangevano, i compagni del Santo, colpiti e feriti da mirabile compassione. E uno di loro, che l’uomo di Dio chiamava suo guardiano, conoscendo per divina ispirazione il suo desiderio, si levò su in fretta, prese la tonaca, la corda e le mutande e le porse al poverello di Cristo, dicendo: «Io te le do in prestito, come a un povero, e tu prendile con il mandato della santa obbedienza».
Ne gode il Santo e giubila per la letizia del cuore perché vede che ha serbato fede a madonna Povertà fino alla fine; e, levando le mani al cielo, magnifica il suo Cristo, perché, alleggerito di tutto, libero se ne va a Lui.
Tutto questo egli aveva compiuto per lo zelo della povertà, che lo spingeva a non avere neppure l’abito, se non a prestito da un altro.
Volle, di certo, essere conforme in tutto a Cristo crocifisso, che, povero e dolente e nudo rimase appeso sulla croce.
Per questo motivo, all’inizio della sua conversione, rimase nudo davanti al vescovo; per questo motivo, alla fine della vita, volle uscire nudo dal mondo e ai frati che gli stavano intorno ingiunse per obbedienza e carità che, dopo morto, lo lasciassero nudo là sulla terra per il tratto di tempo necessario a percorrere comodamente un miglio.
Uomo veramente cristianissimo, che, con imitazione perfetta, si studiò di essere conforme, da vivo, al Cristo vivente; in morte, al Cristo morente e, morto, al Cristo morto, e meritò l’onore di portare nel proprio corpo l’immagine di Cristo visibilmente!
5.
Finalmente, avvicinandosi il momento del suo transito, fece chiamare intorno a sé tutti i frati del luogo e, consolandoli della sua morte con espressioni carezzevoli, li esortò con paterno affetto all’amore di Dio.
Si diffuse a parlare sulla necessita di conservare la pazienza, la povertà, la fedeltà alla santa Chiesa romana, ma ponendo sopra tutte le altre norme il santo Vangelo.
Mentre tutti i frati stavano intorno a lui, stese sopra di loro le mani, intrecciando le braccia in forma di croce (giacché aveva sempre amato questo segno) e benedisse tutti i frati, presenti e assenti, nella potenza e nel nome del Crocifisso.
Inoltre aggiunse ancora: «State saldi, o figli tutti, nel timore del Signore e perseverate sempre in esso! E, poiché sta per venire la tentazione e la tribolazione, beati coloro che persevereranno nel cammino iniziato! Quanto a me, mi affretto verso Dio e vi affido tutti alla Sua grazia!».

Terminata questa dolce ammonizione, l’uomo a Dio carissimo comandò che gli portassero il libro dei Vangeli e chiese che gli leggessero il passo di Giovanni, che incomincia: «Prima della festa di Pasqua…».
Egli, poi, come poté, proruppe nell’esclamazione del salmo: «Con la mia voce al Signore io grido, con la mia voce il Signore io supplico» e lo recitò fin al versetto finale: «Mi attendono i giusti, per il momento in cui mi darai la ricompensa».
6.
Quando, infine, si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore.
Uno dei suoi frati e discepoli vide quell’anima beata, in forma di stella fulgentissima, sollevarsi su una candida nuvoletta al di sopra di molte acque e penetrare diritta in cielo: nitidissima, per il candore della santità eccelsa, e ricolma di celeste sapienza e di grazia, per le quali il Santo meritò di entrare nel luogo della luce e della pace, dove con Cristo riposa senza fine.
Era, allora, ministro dei frati della Terra di Lavoro frate Agostino, uomo davvero di grande santità. Costui, che si trovava ormai in fin di vita e aveva perso ormai da tempo la parola, improvvisamente fu sentito dagli astanti esclamare: «Aspettami, Padre, aspettami. Ecco sto già venendo con te!».
I frati gli chiesero, stupiti, con chi stesse parlando con tanta vivacità. Egli rispose: «Non vedete il nostro padre Francesco, che sta andando in cielo?»; e immediatamente la sua anima santa, migrando dal corpo, seguì il padre santissimo.

Il vescovo d’Assisi, in quella circostanza, si trovava in pellegrinaggio al santuario di San Michele sul Monte Gargano. Il beato Francesco gli apparve la notte stessa del suo transito e gli disse: «Ecco, io lascio il mondo e vado in cielo».
Al mattino, il vescovo, alzatosi, narrò ai compagni quanto aveva visto e, ritornato ad Assisi, indagò accuratamente e poté costatare con sicurezza che il beato padre era migrato da questo mondo nel momento stesso in cui egli lo aveva saputo per visione.

Le allodole, che sono amiche della luce e han paura del buio della sera, al momento del transito del Santo, pur essendo già imminente la notte, vennero a grandi stormi sopra il tetto della casa e roteando a lungo con non so qual insolito giubilo, rendevano testimonianza gioiosa e palese alla gloria del Santo, che tante volte le aveva invitate a lodare Dio.

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