San Girolamo

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BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 14 novembre 2007
San Girolamo
II: La dottrina
Cari fratelli e sorelle,
continuiamo oggi la presentazione della figura di san Girolamo. Come abbiamo detto mercoledì scorso, egli dedicò la sua vita allo studio della Bibbia, tanto che fu riconosciuto da un mio Predecessore, il Papa Benedetto XV, come «dottore eminente nell’interpretazione delle Sacre Scritture». Girolamo sottolineava la gioia e l’importanza di familiarizzarsi con i testi biblici: «Non ti sembra di abitare – già qui, sulla terra – nel regno dei cieli, quando si vive fra questi testi, quando li si medita, quando non si conosce e non si cerca nient’altro?» (Ep. 53,10). In realtà, dialogare con Dio, con la sua Parola, è in un certo senso presenza del cielo, cioè presenza di Dio. Accostare i testi biblici, soprattutto il Nuovo Testamento, è essenziale per il credente, perché «ignorare la Scrittura è ignorare Cristo» (Commento ad Isaia, prol.). E’ sua questa celebre frase, citata anche dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Dei Verbum (n. 25).
Veramente «innamorato» della Parola di Dio, egli si domandava: «Come si potrebbe vivere senza la scienza delle Scritture, attraverso le quali si impara a conoscere Cristo stesso, che è la vita dei credenti?» (Ep. 30,7). La Bibbia, strumento «con cui ogni giorno Dio parla ai fedeli» (Ep. 133,13), diventa così stimolo e sorgente della vita cristiana per tutte le situazioni e per ogni persona. Leggere la Scrittura è conversare con Dio: «Se preghi – egli scrive a una nobile giovinetta di Roma –, tu parli con lo Sposo; se leggi, è Lui che ti parla» (Ep. 22,25). Lo studio e la meditazione della Scrittura rendono l’uomo saggio e sereno (cfr Commento alla Lettera agli Efesini, prol.). Certo, per penetrare sempre più profondamente la Parola di Dio è necessaria un’applicazione costante e progressiva. Così Girolamo raccomandava al sacerdote Nepoziano: «Leggi con molta frequenza le divine Scritture; anzi, che il Libro Santo non sia mai deposto dalle tue mani. Impara qui quello che tu devi insegnare» (Ep. 52,7). Alla matrona romana Leta dava questi consigli per l’educazione cristiana della figlia: «Assicurati che essa studi ogni giorno qualche passo della Scrittura … Alla preghiera faccia seguire la lettura, e alla lettura la preghiera … Che invece dei gioielli e dei vestiti di seta, essa ami i Libri divini» (Ep. 107,9.12). Con la meditazione e la scienza delle Scritture si «mantiene l’equilibrio dell’anima» (Commento alla Lettera agli Efesini, prol.). Solo un profondo spirito di preghiera e l’aiuto dello Spirito Santo possono introdurci alla comprensione della Bibbia: «Nell’interpretazione della Sacra Scrittura noi abbiamo sempre bisogno del soccorso dello Spirito Santo» (Commento a Michea 1,1,10,15).Un appassionato amore per le Scritture pervase dunque tutta la vita di Girolamo, un amore che egli cerc
ò sempre di destare anche nei fedeli. Raccomandava ad una sua figlia spirituale: «Ama la Sacra Scrittura e la saggezza ti amerà; amala teneramente, ed essa ti custodirà; onorala e riceverai le sue carezze. Che essa sia per te come le tue collane e i tuoi orecchini» (Ep. 130,20). E ancora: «Ama la scienza della Scrittura, e non amerai i vizi della carne» (Ep. 125,11).
Per Girolamo un fondamentale criterio di metodo nell’interpretazione delle Scritture era la sintonia con il Magistero della Chiesa. Non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo facilmente nell’errore. La Bibbia è stata scritta dal Popolo di Dio e per il Popolo di Dio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Solo in questa comunione col Popolo di Dio possiamo realmente entrare con il «noi» nel nucleo della verità che Dio stesso ci vuol dire. Per il grande esegeta un’autentica interpretazione della Bibbia doveva essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica. Non si tratta di un’esigenza imposta a questo Libro dall’esterno; il Libro è proprio la voce del Popolo di Dio pellegrinante, e solo nella fede di questo Popolo siamo, per così dire, nella tonalità giusta per capire la Sacra Scrittura. Perciò Girolamo ammoniva un sacerdote: «Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono» (Ep. 52,7). In particolare, dato che Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa su Pietro, ogni cristiano – egli concludeva – deve essere in comunione «con la Cattedra di san Pietro. Io so che su questa pietra è edificata la Chiesa» (Ep. 15,2). Conseguentemente, senza mezzi termini, dichiarava: «Io sono con chiunque sia unito alla Cattedra di san Pietro» (Ep. 16).Girolamo ovviamente non trascura l
’aspetto etico. Spesso, anzi, egli richiama il dovere di accordare la vita con la Parola divina: solo vivendola troviamo anche la capacità di capirla. Tale coerenza è indispensabile per ogni cristiano e particolarmente per il predicatore, affinché le sue azioni, quando fossero discordanti rispetto ai discorsi, non lo mettano in imbarazzo. Così esorta il sacerdote Nepoziano: «Le tue azioni non smentiscano le tue parole, perché non succeda che, quando tu predichi in chiesa, qualcuno nel suo intimo commenti: « Perché dunque proprio tu non agisci così?« . Carino davvero quel maestro che, a pancia piena, disquisisce sul digiuno; anche un ladro può biasimare l’avarizia; ma nel sacerdote di Cristo la mente e la parola si devono accordare» (Ep. 52,7). In un’altra lettera Girolamo ribadisce: «Anche se possiede una dottrina splendida, resta svergognata quella persona che si sente condannare dalla propria coscienza» (Ep. 127,4). Sempre in tema di coerenza, egli osserva: il Vangelo deve tradursi in atteggiamenti di vera carità, perché in ogni essere umano è presente la Persona stessa di Cristo. Rivolgendosi, ad esempio, al presbitero Paolino (che divenne poi Vescovo di Nola e Santo), Girolamo così lo consiglia: «Il vero tempio di Cristo è l’anima del fedele: ornalo, questo santuario, abbelliscilo, deponi in esso le tue offerte e ricevi Cristo. A che scopo rivestire le pareti di pietre preziose, se Cristo muore di fame nella persona di un povero?» (Ep. 58,7). Girolamo concretizza: bisogna «vestire Cristo nei poveri, visitarlo nei sofferenti, nutrirlo negli affamati, alloggiarlo nei senza tetto» (Ep. 130,14). L’amore per Cristo, alimentato con lo studio e la meditazione, ci fa superare ogni difficoltà: «Amiamo anche noi Gesù Cristo, ricerchiamo sempre l’unione con Lui: allora ci sembrerà facile anche ciò che è difficile» (Ep. 22,40).
Girolamo, definito da Prospero di Aquitania «modello di condotta e maestro del genere umano» (Poesia sugli ingrati 57), ci ha lasciato anche un insegnamento ricco e vario sull’ascetismo cristiano. Egli ricorda che un coraggioso impegno verso la perfezione richiede una costante vigilanza, frequenti mortificazioni, anche se con moderazione e prudenza, un assiduo lavoro intellettuale o manuale per evitare l’ozio (cfr Epp. 125,11 e 130,15) e soprattutto l’obbedienza a Dio: «Nulla … piace tanto a Dio quanto l’obbedienza…, che è la più eccelsa e l’unica virtù» (Omelia sull’obbedienza). Nel cammino ascetico può rientrare anche la pratica dei pellegrinaggi. In particolare, Girolamo diede impulso a quelli in Terra Santa, dove i pellegrini venivano accolti e ospitati negli edifici sorti accanto al monastero di Betlemme, grazie alla generosità della nobildonna Paola, figlia spirituale di Girolamo (cfr Ep. 108,14).Non pu
ò essere taciuto, infine, l’apporto dato da Girolamo in materia di pedagogia cristiana (cfr Epp. 107 e 128). Egli si propone di formare «un’anima che deve diventare il tempio del Signore» (Ep. 107,4), una «preziosissima gemma» agli occhi di Dio (Ep. 107,13). Con profondo intuito egli consiglia di preservarla dal male e dalle occasioni peccaminose, di escludere amicizie equivoche o dissipanti (cfr Ep. 107,4 e 8-9; cfr anche Ep. 128,3-4). Soprattutto esorta i genitori perché creino un ambiente di serenità e di gioia intorno ai figli, li stimolino allo studio e al lavoro, anche con la lode e l’emulazione (cfr Epp. 107,4 e 128,1), li incoraggino a superare le difficoltà, favoriscano in loro le buone abitudini e li preservino dal prenderne di cattive, perché – e qui cita una frase di Publilio Siro sentita a scuola – «a stento riuscirai a correggerti di quelle cose a cui ti vai tranquillamente abituando» (Ep. 107,8). I genitori sono i principali educatori dei figli, i primi maestri di vita. Con molta chiarezza Girolamo, rivolgendosi alla madre di una ragazza ed accennando poi al padre, ammonisce, quasi esprimendo un’esigenza fondamentale di ogni creatura umana che si affaccia all’esistenza: «Essa trovi in te la sua maestra, e a te guardi con meraviglia la sua inesperta fanciullezza. Né in te, né in suo padre veda mai atteggiamenti che la portino al peccato, qualora siano imitati. Ricordatevi che… potete educarla più con l’esempio che con la parola» (Ep. 107,9). Tra le principali intuizioni di Girolamo come pedagogo si devono sottolineare l’importanza attribuita a una sana e integrale educazione fin dalla prima infanzia, la peculiare responsabilità riconosciuta ai genitori, l’urgenza di una seria formazione morale e religiosa, l’esigenza dello studio per una più completa formazione umana. Inoltre un aspetto abbastanza disatteso nei tempi antichi, ma ritenuto vitale dal nostro autore, è la promozione della donna, a cui riconosce il diritto ad una formazione completa: umana, scolastica, religiosa, professionale. E vediamo proprio oggi come l’educazione della personalità nella sua integralità, l’educazione alla responsabilità davanti a Dio e davanti all’uomo, sia la vera condizione di ogni progresso, di ogni pace, di ogni riconciliazione e di ogni esclusione della violenza. Educazione davanti a Dio e davanti all’uomo: è la Sacra Scrittura che ci offre la guida dell’educazione, e così del vero umanesimo.
Non possiamo concludere queste rapide annotazioni sul grande Padre della Chiesa senza far cenno all’efficace contributo da lui recato alla salvaguardia degli elementi positivi e validi delle antiche culture ebraica, greca e romana nella nascente civiltà cristiana. Girolamo ha riconosciuto ed assimilato i valori artistici, la ricchezza di pensiero e l’armonia delle immagini presenti nei classici, che educano il cuore e la fantasia a nobili sentimenti. Soprattutto, egli ha posto al centro della sua vita e della sua attività la Parola di Dio, che indica all’uomo i sentieri della vita, e gli rivela i segreti della santità. Di tutto questo non possiamo che essergli profondamente grati, proprio nel nostro oggi.
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BENEDETTO XVI
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Mercoledì, 7 novembre 2007
San Girolamo
I: Vita e scritti
Cari fratelli e sorelle,
fermeremo oggi la nostra attenzione su san Girolamo, un Padre della Chiesa che ha posto al centro della sua vita la Bibbia: l’ha tradotta nella lingua latina, l’ha commentata nelle sue opere e soprattutto si è impegnato a viverla concretamente nella sua lunga esistenza terrena, nonostante il ben noto carattere difficile e focoso ricevuto dalla natura.
Girolamo nacque a Stridone verso il 347 da una famiglia cristiana, che gli assicurò un’accurata formazione, inviandolo anche a Roma a perfezionare i suoi studi. Da giovane sentì l’attrattiva della vita mondana (cfr Ep. 22,7), ma prevalse in lui il desiderio e l’interesse per la religione cristiana. Ricevuto il Battesimo verso il 366, si orientò alla vita ascetica e, recatosi ad Aquileia, si inserì in un gruppo di ferventi cristiani, da lui definito quasi «un coro di beati» (Cronaca dell’anno 374), riunito attorno al Vescovo Valeriano. Partì poi per l’Oriente e visse da eremita nel deserto di Calcide, a sud di Aleppo (cfr Ep. 14,10), dedicandosi seriamente agli studi. Perfezionò la sua conoscenza del greco, iniziò lo studio dell’ebraico (cfr Ep. 125,12), trascrisse codici e opere patristiche (cfr Ep. 5,2). La meditazione, la solitudine, il contatto con la Parola di Dio fecero maturare la sua sensibilità cristiana. Sentì più pungente il peso dei trascorsi giovanili (cfr Ep. 22,7) e avvertì vivamente il contrasto tra mentalità pagana e vita cristiana: un contrasto reso celebre dalla drammatica e vivace «visione», della quale egli ci ha lasciato il racconto. In essa gli sembrò di essere flagellato al cospetto di Dio, perché «ciceroniano e non cristiano» (cfr Ep. 22,30).
Nel 382 si trasferì a Roma: qui il Papa Damaso, conoscendo la sua fama di asceta e la sua competenza di studioso, lo assunse come segretario e consigliere; lo incoraggiò a intraprendere una nuova traduzione latina dei testi biblici per motivi pastorali e culturali. Alcune persone dell’aristocrazia romana, soprattutto nobildonne come Paola, Marcella, Asella, Lea ed altre, desiderose di impegnarsi sulla via della perfezione cristiana e di approfondire la conoscenza della Parola di Dio, lo scelsero come loro guida spirituale e maestro nell’approccio metodico ai testi sacri. Queste nobili donne impararono anche il greco e l’ebraico.
Dopo la morte di Papa Damaso, Girolamo lasciò Roma nel 385 e intraprese un pellegrinaggio, dapprima in Terra Santa, silenziosa testimone della vita terrena di Cristo, poi in Egitto, terra di elezione di molti monaci (cfr Contro Rufino 3,22; Ep. 108,6-14). Nel 386 si fermò a Betlemme, dove, per la generosità della nobildonna Paola, furono costruiti un monastero maschile, uno femminile e un ospizio per i pellegrini che si recavano in Terra Santa, «pensando che Maria e Giuseppe non avevano trovato dove sostare» (Ep. 108,14). A Betlemme restò fino alla morte, continuando a svolgere un’intensa attività: commentò la Parola di Dio; difese la fede, opponendosi vigorosamente a varie eresie; esortò i monaci alla perfezione; insegnò la cultura classica e cristiana a giovani allievi; accolse con animo pastorale i pellegrini che visitavano la Terra Santa. Si spense nella sua cella, vicino alla grotta della Natività, il 30 settembre 419/420.
La preparazione letteraria e la vasta erudizione consentirono a Girolamo la revisione e la traduzione di molti testi biblici: un prezioso lavoro per la Chiesa latina e per la cultura occidentale. Sulla base dei testi originali in ebraico e in greco e grazie al confronto con precedenti versioni, egli attuò la revisione dei quattro Vangeli in lingua latina, poi del Salterio e di gran parte dell’Antico Testamento. Tenendo conto dell’originale ebraico e greco, dei Settanta, la classica versione greca dell’Antico Testamento risalente al tempo precristiano, e delle precedenti versioni latine, Girolamo, affiancato poi da altri collaboratori, poté offrire una traduzione migliore: essa costituisce la cosiddetta Vulgata, il testo «ufficiale» della Chiesa latina, che è stato riconosciuto come tale dal Concilio di Trento e che, dopo la recente revisione, rimane il testo «ufficiale» della Chiesa di lingua latina. E’ interessante rilevare i criteri a cui il grande biblista si attenne nella sua opera di traduttore. Li rivela egli stesso, quando afferma di rispettare perfino l’ordine delle parole delle Sacre Scritture, perché in esse, dice, «anche l’ordine delle parole è un mistero» (Ep. 57,5), cioè una rivelazione. Ribadisce inoltre la necessità di ricorrere ai testi originali: «Qualora sorgesse una discussione tra i Latini sul Nuovo Testamento, per le lezioni discordanti dei manoscritti, ricorriamo all’originale, cioè al testo greco, in cui è stato scritto il Nuovo Patto. Allo stesso modo per l’Antico Testamento, se vi sono divergenze tra i testi greci e latini, ci appelliamo al testo originale, l’ebraico; così tutto quello che scaturisce dalla sorgente, lo possiamo ritrovare nei ruscelli» (Ep. 106,2). Girolamo, inoltre, commentò anche parecchi testi biblici. Per lui i commentari devono offrire molteplici opinioni, «in modo che il lettore avveduto, dopo aver letto le diverse spiegazioni e dopo aver conosciuto molteplici pareri – da accettare o da respingere –, giudichi quale sia il più attendibile e, come un esperto cambiavalute, rifiuti la moneta falsa» (Contro Rufino 1,16).
Confutò con energia e vivacità gli eretici che contestavano la tradizione e la fede della Chiesa. Dimostrò anche l’importanza e la validità della letteratura cristiana, divenuta una vera cultura ormai degna di essere messa a confronto con quella classica: lo fece componendo il De viris illustribus (Gli uomini illustri), un’opera in cui Girolamo presenta le biografie di oltre un centinaio di autori cristiani. Scrisse pure biografie di monaci, illustrando accanto ad altri itinerari spirituali anche l’ideale monastico; inoltre tradusse varie opere di autori greci. Infine nell’importante Epistolario, un capolavoro della letteratura latina, Girolamo emerge con le sue caratteristiche di uomo colto, di asceta e di guida delle anime.
Che cosa possiamo imparare noi da san Girolamo? Mi sembra soprattutto questo: amare la Parola di Dio nella Sacra Scrittura. Dice san Girolamo: «Ignorare le Scritture è ignorare Cristo» (Commento ad Isaia, prol.). Perciò è importante che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura. Questo nostro dialogo con essa deve sempre avere due dimensioni: da una parte, dev’essere un dialogo realmente personale, perché Dio parla con ognuno di noi tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio per ciascuno. Dobbiamo leggere la Sacra Scrittura non come parola del passato, ma come Parola di Dio, che si rivolge anche a noi, e cercare di capire che cosa il Signore voglia dire a noi. Ma per non cadere nell’individualismo dobbiamo tener presente che la Parola di Dio ci è data proprio per costruire comunione, per unirci nella verità nel nostro cammino verso Dio. Quindi essa, pur essendo sempre una Parola personale, è anche una Parola che costruisce comunità, che costruisce la Chiesa. Perciò dobbiamo leggerla in comunione con la Chiesa viva. Il luogo privilegiato della lettura e dell’ascolto della Parola di Dio è la Liturgia, nella quale, celebrando la Parola e rendendo presente nel Sacramento il Corpo di Cristo, attualizziamo la Parola nella nostra vita e la rendiamo presente tra noi. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola di Dio trascende i tempi. Le opinioni umane vengono e vanno. Quanto è oggi modernissimo, domani sarà vecchissimo. La Parola di Dio, invece, è Parola di vita eterna, porta in sé l’eternità, ciò che vale per sempre. Portando in noi la Parola di Dio, portiamo dunque in noi l’eterno, la vita eterna.
E così concludo con una parola di san Girolamo a san Paolino di Nola. In essa il grande Esegeta esprime proprio questa realtà, che cioè nella Parola di Dio riceviamo l’eternità, la vita eterna. Dice san Girolamo: «Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità, la cui consistenza persisterà anche nel cielo» (Ep. 53,10).
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http://www.paroledivita.it/upload/2005/articolo6_31.asp
SALMO 139: «SIGNORE, TU MI SCRUTI E MI CONOSCI». UNA LETTURA CRISTIANA di Francesco Mosetto
Testo del salmo
1 Al maestro del coro. Di Davide. Salmo.
Signore, tu mi scruti e mi conosci,
2 tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Penetri da lontano i miei pensieri,
3 mi scruti quando cammino e quando riposo.
Ti sono note tutte le mie vie;
4 la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, gia la conosci tutta.
5 Alle spalle e di fronte mi circondi
e poni su di me la tua mano.
6 Stupenda per me la tua saggezza,
troppo alta, e io non la comprendo.
7 Dove andare lontano dal tuo spirito,
dove fuggire dalla tua presenza?
8 Se salgo in cielo, là tu sei,
se scendo negli inferi, eccoti.
9 Se prendo le ali dell’aurora
per abitare all’estremità del mare,
10 anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.
11 Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte»;
12 nemmeno le tenebre per te sono oscure,
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.
13 Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
14 Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.
15 Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
16 Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.
17 Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio;
18 se li conto sono più della sabbia,
se li credo finiti, con te sono ancora.
19 Se Dio sopprimesse i peccatori!
Allontanatevi da me, uomini sanguinari.
20 Essi parlano contro di te con inganno:
contro di te insorgono con frode.
21 Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano
e non detesto i tuoi nemici?
22 Li detesto con odio implacabile
come se fossero miei nemici.
23 Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri:
24 vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita.
Una raccolta e toccante melodia, diffusa in molti ambienti italiani[1], ha avvicinato le parole del Sal 139 alla nostra sensibilità e ci ha reso familiare il suo messaggio. La lettura meditativa e il canto di un’assemblea orante ne sono forse l’interpretazione migliore; e, tuttavia, un’esplorazione analitica del salmo consente di gustare ancor più la sua ricchezza e di cogliere risonanze preziose.
Prima lettura del salmo
La soprascritta «Al maestro del coro. Di Davide. Salmo» (v. 1a) – non riportata nei libri liturgici cattolici – ci ricorda che l’intero Salterio è fatto risalire al santo re, modello di fede e di preghiera, ma anche prototipo del Messia.
La prima strofa (vv. 1-5), che sfocia in un grido di ammirato stupore (v. 6), svolge il tema dell’onniscienza di Dio, non in senso per così dire enciclopedico, bensì personale. Una serie di espressioni bipolari («Quando seggo e quando mi alzo…») rende in modo plastico e concreto l’idea che «il Signore sa tutto di me». In questa consapevolezza non si avverte tuttavia il disagio di Adamo, che si scopre nudo di fronte a Dio (Gn 3,8ss), bensì la fiducia di chi si sente avvolto da uno sguardo pieno di amore.
Il tema viene ripreso nella seconda strofa (vv. 7-12), che si caratterizza per il linguaggio spazio-temporale: non c’è luogo tanto lontano che possa sottrarre alla presenza di Dio; nemmeno le tenebre della notte sono impenetrabili al suo sguardo.
La terza strofa (vv. 13-18) adotta il registro storico-biografico: colui che tutto conosce è il Signore che ti ha creato e guida l’intero cammino della tua esistenza. L’opera del Creatore non è confinata alle origini del mondo, ma tocca i primi inizi di ogni vita («Mi hai tessuto nel seno di mia madre») e la sua signoria si estende fino all’ultimo giorno. Un secondo grido di ammirazione (vv. 17-18) corona il corpo centrale del salmo.
A prima vista, l’ultima strofa (vv. 19-24) appare come un’appendice quasi estranea alla tematica principale. In realtà, essa rivela la situazione da cui è scaturita la meditazione dei versetti che precedono. Circondato da persone maligne, che tramano contro di lui, l’orante si appella al Dio che tutto conosce: «Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri; vedi se percorro una via di menzogna…».
Il Dio che tutto conosce
La convinzione che il Signore conosce tutto e perciò interviene come giudice giusto nelle vicende umane attraversa le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il salmo precedente affermava: «Sì, eccelso è il Signore, eppure vede l’umile e riconosce il superbo da lontano» (Sal 138,5). Coerentemente, la supplica del salmo che fa seguito al nostro salmo termina con le parole: «So che il Signore difende la causa del povero», spesso perseguitato dall’«uomo malvagio» (Sal 140,13; cf. v. 6). Simili accenti si leggono in altri salmi:
Sorgi, Signore, (…) giudicami secondo la mia giustizia (…) tu che scruti i cuori e i regni, o Dio giusto (Sal 7,7.10);
Hai esaminato il mio cuore, l’hai scrutato di notte, mi hai provato al fuoco, ma non trovi nulla (Sal 17,3);
Se avessimo dimenticato il nome del nostro Dio e teso le mani a un dio straniero, Dio forse non lo avrebbe scoperto? È lui che conosce i segreti dei cuori (Sal 44,22-23).
Appellandosi all’onniscienza di Dio, ora il popolo ora il singolo fedele protestano di essere innocenti e si dicono certi che egli interverrà come giudice a difesa dei giusti.
Lo stesso tema ricorre negli scritti sapienziali. «Gli inferi e l’abisso sono davanti al Signore: tanto più i cuori dei figli dell’uomo!» (Pr 15,11; vedi anche 17,3; 21,2; 24,12). «Non dire: Mi terrò celato al Signore! Chi penserà a me lassù?» (Sir 16,17; vedi anche 23,18-19). Perciò il nostro salmo è talora considerato di carattere sapienziale o «di meditazione». Ma tale orientamento rimane strettamente legato alle vicende dell’esistenza, come ben dimostrano i passi paralleli del libro di Geremia, il profeta che sa di essere «conosciuto» dal Signore «fin dal seno materno» (Ger 1,5):
Signore, Dio degli eserciti, giudice giusto, che scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, perché a te ho affidato la mia causa (Ger 11,20 = 20,12; vedi anche 12,3; 17,10).
Va nel medesimo senso la preghiera di Salomone:
Se uno qualunque, oppure tutto Israele tuo popolo, dopo aver provato il rimorso nel cuore, ti prega o supplica con le mani tese verso questo tempio, tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora, perdona, intervieni e rendi a ciascuno secondo le sue opere, tu che conosci il suo cuore – tu solo infatti conosci il cuore di ogni uomo (1Re 8,39-10).
Così pure, in risposta alla preghiera del re Ezechia, il Signore affida a Isaia un severo richiamo al suo sovrano dominio, cui non potrà sottrarsi il feroce re di Assiria:
Ti sieda, esca o rientri, io ti conosco. Siccome infuri contro di me (…) ti farò tornare per la strada per la quale sei venuto (2Re 19,27-28).
Il tema dell’onniscienza di Dio o, meglio, la certezza che il Signore domina le vicende umane dall’alto del suo trono celeste, trova una singolare esemplificazione nella storia dell’«autore» stesso del salmo. Quando Iesse presenta l’uno dopo l’altro a Samuele i propri figli, il profeta si sente dire dal Signore: «Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura…» (1Sam 16,7). Solamente quando gli viene condotto il ragazzo più giovane, il Signore gli dice: «Alzati e ùngilo (ossia, consacralo con l’unzione); è lui!» (v. 12). E, allorché l’adulterio e l’assassinio di cui Davide si è macchiato sembrano avvolti nel più fitto segreto, Dio lo mette di fronte al suo peccato per mezzo di un profeta: «Così dice il Signore, Dio di Israele: poiché tu l’hai fatto in segreto, io farò questo [il castigo del peccato] davanti a tutto Israele e alla luce del sole!» (2Sam 12,7.12). Puntualmente, nella supplica penitenziale Davide confessa: «Contro di te, contro te solo, ho peccato; quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto…» (Sal 51,6).
Gesù sapeva tutto
Che Dio conosca intimamente ogni essere umano, negli scritti del Nuovo Testamento è talora ricordato in modo esplicito, ad esempio quando Pietro ripete all’assemblea di Gerusalemme il racconto della sorprendente conversione di Cornelio: «…e Dio, che conosce i cuori, rese loro testimonianza dando ad essi lo Spirito Santo allo stesso modo che a noi…» (At 15,8). Nella medesima prospettiva la lettera agli Ebrei afferma che la parola di Dio, «più penetrante di una spada a doppio taglio (…) discerne i pensieri e le intenzioni del cuore»; in realtà, «davanti a lui nessuna creatura è nascosta, ma tutto è aperto e nudo ai suoi occhi» (Eb 4,12-13).
Lo stupore del salmista di fronte alla sovrana onniscienza divina (vv. 6.17-18) – quasi una variazione rispetto al ritornello del Sal 8: «Quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!» – sotto la penna di Paolo si trasforma in un inno al disegno meraviglioso di Dio, che vuole portare a compimento il suo progetto di salvezza per tutta l’umanità:
O profondità delle ricchezze, della sapienza e della conoscenza di Dio! Come sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! (Rm 11,33).
Ma quanto a Gesù, la verità espressa dal Sal 139 per così dire si sdoppia. Da un lato, mentre egli afferma con insistenza di conoscere il Padre (cf. Gv 7,29; 8,55; 17,25), Gesù si sente oggetto della sua conoscenza amorosa ed è sicuro che il Padre è sempre con lui: «Colui che mi ha mandato è con me, e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre ciò che gli è gradito» (Gv 8,29; cf. 8,16; 16,32). La reciprocità della conoscenza tra il Figlio e il Padre celeste fa sì che egli ne sia il rivelatore unico e insostituibile. I Sinottici riportano il celebre logion, che è considerato come un meteorite cadutovi dal cielo giovanneo: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figli lo voglia rivelare» (Mt 11,27; cf. Lc 10,22). Il tema è ampiamente elaborato nel quarto Vangelo (da Gv 1,18 a 14,6-11).
Al tempo stesso, però, Gesù condivide con il Padre la sovrana conoscenza, che lo pone al di sopra di ogni creatura. Caratteristici del Vangelo di Giovanni sono gli incontri con vari personaggi che si scoprono «conosciuti» da Gesù: Simone (Gv 1,40-42), Natanaele (1,47-51), la donna di Samaria (4,16-19). Egli «sa» qual è la situazione del paralitico della piscina di Bezata (5,6), che cosa sta per fare per gli sposi di Cana (2,4) e a vantaggio della folla che lo ha seguito sull’altra riva del lago (6,6), come pure per l’amico Lazzaro (11,4-15). Gesù conosce «dentro di sé» che i discepoli trovano duro il suo linguaggio (6,61) e che le sue parole nel corso dell’ultima cena li lasciano perplessi (16,19); sfida gli accusatori della donna adultera (8,7), facendo intendere di conoscerli interiormente; conosce in anticipo e preannuncia che uno dei discepoli lo tradirà (6,71; 13,11.18.21-26), un altro negherà di averlo mai conosciuto (13,36-38) e tutti lo abbandoneranno (16,30). In linea di principio, l’evangelista afferma, che «conosceva tutti e non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro; infatti egli sapeva che cosa c’è in ogni uomo» (2,24s; cf. 16,30).
La conoscenza di Cristo «pastore» si tinge di amorevole cura nei confronti delle sue «pecore»: «Conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre» (Gv 10,14). Ciò vale non soltanto per il Gesù storico, che chiama «amici» coloro che ha scelto, «perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (15,16; cf. 17,26), quanto e più ancora per il Cristo risorto e vivente. Questi, apparendo al veggente di Patmos gli affida una serie di messaggi per le Chiese, ove è ricorrente il verbo «conosco» (Ap 2,2.9.19; 3,1.8.15), oppure «so» (2,13). «Colui che ha gli occhi fiammeggianti come fuoco» (2,18; cf. 1,14) ben conosce la situazione, le difficoltà, i difetti, ma anche i meriti e le ricchezze spirituali di ogni singola comunità cristiana. Ciò rappresenta un giudizio, ma soprattutto uno stimolo e un incoraggiamento per le giovani Chiese dell’Asia.
La consapevolezza di essere conosciuto e amato dal Signore è particolarmente viva nell’apostolo Paolo. Scrivendo ai Galati, egli ricalca una celebre espressione di Geremia: «Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre…» (Gal 1,15; cf. Ger 1,5; vedi anche Rm 1,1), ed è consapevole di essere stato personalmente «amato» da Cristo (Gal 2,20). D’altra parte, tutti i credenti sono «da sempre conosciuti» da Dio, il quale li ha «predestinati, chiamati, giustificati», in vista della gloria futura che dev’essere rivelata in loro (Rm 8,29-30; cf. v. 18).
Voce di Cristo e della Chiesa
In armonia e sulla scia dell’esegesi patristica, da sempre la liturgia della Chiesa legge ogni salmo come preghiera di Cristo e dell’intera comunità cristiana, suggerendo in vari modi ai fedeli come fare propria e attualizzare la preghiera biblica, nata all’interno della fede di Israele[2].
L’antifona all’Introito del giorno di Pasqua applica audacemente le parole del salmo alla risurrezione di Cristo:
Sono risorto e sono sempre con te. Tu hai posto su di me la tua mano. Meravigliosa è la tua conoscenza su di me (Resurrexi, et adhuc tecum su. Posuisti super me manum tuam. Mirabilis facta est scientia tua, Alleluja!).
Si ricalcano alcuni versetti della Vulgata, conducendo al grado più alto ed esplicito l’intuizione profonda che il salmo parli di Cristo e sia Cristo stesso a parlare nel salmo:
v. 2: Tu cognovisti sessionem meam et resurrectionem meam;
v. 4: Posuisti super me manum tuam;
v. 5: Mirabilis facta est scientia tua super me.
Lo spiega un antico «titolo salmico»:
Rivolto al Padre, Cristo parla del suo riposo e della sua risurrezione, esaltando la potenza della divinità del Padre, poiché in quanto uomo mai poté celarsi alla sua conoscenza (Series VI).
Una «colletta salmica» – la preghiera conclusiva recitata dal sacerdote, che raccoglie le preghiere personali fatte nella pausa di silenzio dopo la recita del salmo – riprende invece il tema centrale, la meravigliosa onniscienza di Dio che avvolge ogni uomo:
O Dio, che solo conosci i novissimi del mondo così come le sue antiche origini, cui sono manifesti i pensieri nascosti degli uomini e accogli la creatura che la tua stessa mano ha formato nel grembo materno, illumina le nostre tenebre e, perché non siamo di nuovo e maggiormente resi oscuri dagli inganni malvagi, ci guidi felicemente la tua luce benigna affinché, iscritti nel libro della vita, meritiamo di entrare nella via della vita eterna insieme con i tuoi amici (III serie).
E S. Rinaudo conclude affermando che il Sal 139
ci lascia un profondo e prezioso insegnamento: la nostra esistenza, in ogni suo più piccolo movimento, è avvolta dallo sguardo e dalla presenza di Dio e di Cristo. Dalla conoscenza e dal pensiero di Dio essa trae origine, in essi si fonda (…). In questo insegnamento sta il segreto per vivere bene. Esso consiste nel pensare e operare costantemente alla presenza di Dio, il quale già ad Abramo aveva detto: «Cammina davanti a me e sii integro» (Gn 17,1). Questa presenza ci libera dalla nostra angosciosa solitudine, ci sorregge, ci dona la pace, a patto che non tentiamo di sottrarci ad essa e non cerchiamo di rizzare tra noi e Dio alcuna barriera[3].
[1] Cf. D. Machetta, «O Signore, tu mi scruti e mi conosci», in La famiglia cristiana nella casa del Padre. Repertorio di canti per la liturgia, LDC, Leumann (TO) 1997, n. 729.
[2] Vedi l’opera recente di F.M. Arocena – J.A. Goñi (edd.), Psalterium Liturgicum. Psalterium crescit cum psallente Ecclesia, vol. I: Psalmi in Missale Romano et Liturgia Horarum, LEV, Città del Vaticano 2005, 488-491: sul Sal 138 (LXX e Vulgata). In questo testo sono raccolte le antifone usate nella liturgia per i salmi e soprattutto gli antichi titoli e le orazioni salmiche.
[3] S. Rinaudo, I salmi preghiera di Cristo e della Chiesa, LDC, Leumann (TO) 19735, 750.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=09/30/2008#
Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Esposizione sul salmo 64
« Non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme »
Ci sono due città; l’una chiamata Babilonia e l’altra Gerusalemme. Osservate i nomi di queste due città: Babilonia significa » confusione « , Gerusalemme significa » visione di pace « . Guardate ora la città della confusione, per comprendere la visione di pace. Sopportate quella, sospirate a questa.
Come possono essere riconosciute queste due città? Possiamo forse separarle ora l’una dall’altra? Sono mischiate; anzi, dall’inizio del genere umano avanzano mischiate sino alla fine del mondo. Gerusalemme iniziò con Abele, Babilonia con Caino, anche se gli edifici delle due città sono stati costruiti più tardi… Orbene, queste due città furono costruite in determinate epoche come figura delle altre due città, la cui origine risale molto più indietro nel tempo e debbono rimanere in questo mondo sino alla fine dei tempi e poi, alla fine, essere separate. Come possiamo noi conoscerle attualmente, se esse sono mescolate? Ce le mostrerà in chiara luce il Signore, quando porrà gli uni a destra e gli altri a sinistra (Mt 25,33)…
Possiamo tuttavia mettere in risalto alcuni elementi in base ai quali distinguere anche in questo tempo i cittadini di Gerusalemme, dai cittadini di Babilonia. A queste due città danno origine due amori: l’amore di Dio è all’origine di Gerusalemme; l’amore del mondo a quella di Babilonia. Chieda dunque ciascuno a se stesso che cosa ami e vedrà di quale città è cittadino. Se scoprirà di essere cittadino di Babilonia, estirpi la cupidigia e faccia fiorire la carità; se invece scoprirà di essere cittadino di Gerusalemme, sopporti la prigionia e speri nella libertà. Infatti molti cittadini della santa madre Gerusalemme (Gal 4,26) un tempo erano prigionieri di Babilonia…
E come potrà rinascere in noi l’amore per la nostra città, di cui ci eravamo dimenticati nel lungo esilio? Proprio per questo il Padre nostro ci ha inviato delle lettere: Dio ci ha dato le Scritture. Per tali lettere rinasce in noi il desiderio di tornare in patria.
dal sito:
http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/preghiera_pagliaccio.htm
La preghiera del pagliaccio
Signore, sono un fallito, però ti amo,
ti amo terribilmente, pazzamente,
che è poi l’unica maniera che ho di amare
perché sono solo un pagliaccio.
Sono tanti anni che sto nelle tue mani,
presto verrà il giorno in cui volerò da Te.
La mia bisaccia è vuota,
i miei fiori appassiti e scoloriti,
solo il mio cuore intatto.
Mi spaventa la mia povertà
però mi consola la tua tenerezza.
Sono davanti a Te come una brocca rotta,
però con la mia stessa creta
puoi farne un’altra come ti piace.
Signore, cosa ti dirò
quando mi chiederai il conto?
Ti dirò che la mia vita umanamente
è stata un fallimento,
che ho volato molto in basso.
Signore,
accetta l’offerta di questa sera!
La mia vita, come un flauto,
è piena di buchi;
ma prendila nelle tue mani divine.
Che la tua musica passi attraverso di me
e sollevi i miei fratelli, gli uomini,
che sia per loro ritmo e melodia,
che accompagni il loro camminare,
allegria semplice
dei loro passi stanchi.
(da un manoscritto spagnolo)
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=09/29/2008#
San Gregorio Magno (circa 540-604), papa, dottore della Chiesa
Omelie sui vangeli, 34, 8-9
« Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli, pronti alla voce della sua parola » (Sal 102,20)
È da sapere che il termine « angelo » denota l’ufficio, non la natura. Infatti quei santi spiriti della patria celeste sono sempre spiriti, ma non si possono chiamare sempre angeli, poiché solo allora sono angeli, quando per mezzo loro viene dato un annunzio. Quelli che recano annunzi ordinari sono detti angeli, quelli invece che annunziano i più grandi eventi, sono chiamati arcangeli. Per questo alla Vergine Maria non viene inviato un angelo qualsiasi, ma l’arcangelo Gabriele. Era ben giusto, infatti, che per questa missione fosse inviato un angelo tra i maggiori, per recare il più grande degli annunzi.
Quando deve compiersi qualcosa che richiede grande coraggio e forza, si dice che è mandato Michele che significa « Chi è come Dio », perché si possa comprendere dall’azione e dal nome, che nessuno può agire come Dio. L’antico avversario che bramò, nella sua superbia, di essere simile a Dio dicendo: « Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, mi farò uguale all’Altissimo » (Is 14, 13) alla fine del mondo sarà abbandonato a se stesso e condannato all’estremo supplizio. Orbene, egli viene presentato in atto di combattere con l’arcangelo Michele, come è detto da Giovanni: « Scoppiò una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il Drago. Il Drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero, e furono precipitati sulla terra » (Ap 12, 7).
A Maria è mandato Gabriele, che è chiamato « Fortezza di Dio »; egli viene ad annunziare colui che si degno di apparire nell’umiltà per debellare le potenze maligne dell’aria. Doveva dunque essere annunziato da « Fortezza di Dio » colui che veniva quale « Signore degli eserciti e forte guerriero » (Sal 23, 8). Raffaele significa « Medicina di Dio ». Egli infatti toccò gli occhi di Tobia, quasi in atto di medicarli, e dissipò le tenebre della sua cecità (Tb 11, 17). Fu giusto dunque che venisse chiamato « Medicina di Dio » colui che venne inviato a operare guarigioni.