Il caso Eluana e la dimensione della dipendenza

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Il caso Eluana e la dimensione della dipendenza

ROMA, domenica, 20 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica lintervento di Chiara Mantovani, Presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI) di Ferrara e Presidente di Scienza & Vita di Ferrara.

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Ci sono tanti fraintendimenti nella vicenda che vede coinvolta Eluana Englaro, alcuni di ordine tecnico-medico, altri di natura squisitamente bioetica. Quello che mi sembra decisivo è provare a fare chiarezza per avere elementi oggettivi e razionali sui quali poi provare ad esprimere un giudizio sui fatti, astenendosi dal giudicare le persone. I fatti sono che ad una persona, che vive in condizioni che non richiedono particolari terapie ma per le quali non sono conosciuti rimedi risolutivi, si reputa opportuno togliere i supporti naturalmente vitali. Non è la sua malattia a richiedere idratazione e nutrimento: acqua e cibo sono elementi indispensabili alla vita di ogni vivente. È solo la modalità di assunzione che per lei è differente da quella ordinaria. Ma un sondino direttamente nello stomaco non può essere considerato un presidio eccezionale, sproporzionato all’effetto desiderato o gestibile solo da competenze specialistiche. Non è straordinario né per costo, né per impegno strumentale, né per disagio del soggetto cui si somministra. Non si può ignorare la valenza esemplare di avvenimenti che vengono portati alla ribalta della cronaca: Eluana è icona di una sofferenza molto più comune della sua stessa patologia, quella sofferenza che è banco di prova della condizione umana: la dimensione della dipendenza, la frustrazione di dipendere dagli altri. Se da piccoli questa dipendenza non è pesante da sopportare, anzi, è la condizione naturale, da adulti, dopo aver faticosamente raggiunto il traguardo della maturità, sembra disumano esservi ancora costretti.Modernamente, invece, si è fatto della rivendicazione della propria autosufficienza la misura del senso della propria vita: se “dipendo” dagli altri, non sono più io che vivo, vivono loro al posto mio. È molto comune che il giovane rivendichi la libertà intesa come possibilità di fare e vivere come si reputa opportuno: nell’età in cui un orario imposto di rientro a casa appare come una limitazione insopportabile, una sedia a rotelle può facilmente apparire come intollerabile: figurarsi la dipendenza assoluta di uno stato vegetativo, la impossibilità di progettare il futuro, l’impotenza di comunicare e interagire con il mondo. Non mi nascondo l’angoscia di una tale condizione, non sostengo che sia facile. Ma mi pare che essa interpelli la capacità del “mondo” di sopportare il dolore e la sofferenza e di capire che nulla diminuisce il valore della persona umana, men che meno la debolezza.Per Eluana, e per altri che come lei da soli non ce la fanno, qualcuno pensa che la morte sia meglio della vita. Questo è proprio la caratteristica della eutanasia: la morte più “bella” della vita. In che modo si pensa di procurare questa morte? Qualcuno ha detto: lasciando che la natura faccia il suo corso. Ma la natura presuppone che per mantenere la vita si mangi e si beva e non è andare contro natura provvedere ai bisogni elementari. In questi giorni mi è tornata alla mente una scena di un vecchio film, sulla vita degli eschimesi. Ad una giovane coppia nasce un bel bambino, ne sono felici, sebbene vivano in un mondo freddo e inospitale. Ma già dopo pochi minuti dalla nascita, l’inesperto padre si accorge che il bimbo non ha denti. Si dispera, perché i denti, in quella situazione, sono strumento di sopravvivenza: servono per mangiare, ma anche per lavorare le pelli, per costruire attrezzi, per condurre una vita “normale”. E con grande tristezza comunica alla moglie che dovranno abbandonarlo, quel piccolo, perché è destinato ad una morte lenta e dolorosa. Ma la mamma si dispera, non ci sta. E dice una frase che non si è mai cancellata dalla mia memoria: «Masticherò io per lui, lascia che sua madre lo nutra, lo vesta: i miei denti saranno i suoi denti!». Felicemente, scopriranno da soli che dopo qualche mese il problema sarà naturalmente risolto!Per Eluana la scienza medica non dà prospettive di recupero, solo incertezze. Dice che probabilmente non tornerà mai ad essere autosufficiente, non promette guarigione. Anzi, ammette che ci vorrebbe un “miracolo”, laicamente inteso per indicarne la improbabilità. Allo stesso tempo dice che non sta per morire, che le sue condizioni cliniche generali sono buone, che il suo fisico lotterà per la sopravvivenza. Terry Schiavo ha terribilmente mostrato che cosa sarà necessario somministrarle per non farla soffrire “troppo”: calmanti, antidolorifici, anticonvulsivi e molto altro ancora. Ad Eluana, come a Terry, non si stanno applicando cure inadeguate alla condizione clinica: si dà ciò che si dà ad ogni essere che viene al mondo, quando ancora non è in grado di fare da sé. Neppure un ’aspirina, dicono le suore che ne hanno cura. Ecco, mi pare, il punto decisivo: prendersi cura. E farsi carico di una sofferenza. E riconoscere non un barlume, ma tutta l’umanità connaturata ad ogni persona. Riconoscerla nonostante non salti agli occhi con fragore, ma vada cercata con amore. Non vediamo mai foto recenti di Eluana: non me ne rammarico, perché il riserbo è segno di rispetto e perché il nostro mondo è talmente ammalato di sensazionalismo da dimenticare spesso il pudore. Eppure, anche senza vederla, sono intimamente convinta che il suo papà e la sua mamma la trovano sempre bella, perché è davvero così: di nessuno che si ama si può dire che è brutto. Mi chiedo perché uno o più giudici non abbiano riconosciuto, nella richiesta dell’ingegner Englaro, la valenza comune ad ogni grido di dolore: ditemi quanto vale, per voi, la vita di mia figlia. Datemi strumenti per capire, per sopportare, per essere aiutato a portare il peso; non scappatoie per liberarsi di un problema.C’è un pericolo concreto di perdita del senso del reale, in una società in cui i deboli possono essere cancellati dalle sentenze; né si invochi il testamento biologico, pretesto fin troppo manovrabile, addirittura beffardo, per imporre scelte ben poco consapevoli. Perché non è il diritto di scelta sulla vita la misura alta di una civiltà: è, piuttosto, il coraggio di farsi carico di ogni dolore, di assumersi la responsabilità degli altri. Se poi la fede cristiana illumina meglio il cammino, non si dica che è ingerenza: si ammetta che è una ragione in più, non una menomazione del giudizio.

I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: 

bioetica@zenit.org

I diversi esperti che collaborano con ZENIT provvederanno a rispondere ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

Publié dans : bioetica |le 20 juillet, 2008 |Pas de Commentaires »

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