Il Cardinale Kasper e la missione verso gli ebrei
09/04/2008, dal sito:
http://www.zenit.org/article-14018?l=italian
Il Cardinale Kasper e la missione verso gli ebrei
Risponde alle critiche sulla nuova preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 9 aprile 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo del Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, in risposta alle reazioni da parte ebraica sulla nuova formulazione della preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei per la forma straordinaria del Rito Romano (Messale del 1962).
L’intervento del porporato è apparso su “L’Osservatore Romano” (10 aprile 2008).
di Walter Kasper*
La preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei ha una lunga storia. La nuova formulazione della preghiera per la forma straordinaria del Rito Romano (Messale del 1962) realizzata da Papa Benedetto XVI è stata opportuna perché alcune formulazioni sono state considerate offensive da parte ebraica e urtanti anche da parte di vari cattolici. La nuova formulazione ha portato importanti miglioramenti del testo del 1962. Ha, però, suscitato nuove reazioni irritate, sollevando questioni di principio sia presso gli ebrei che presso alcuni cristiani (1).
Le reazioni avutesi da parte ebraica sono in gran parte motivate non in modo razionale, ma emozionale. Non si deve però liquidarle precipitosamente come causate da ipersensibilità. Pure presso amici ebrei che da decenni sono coinvolti in un intenso dialogo con cristiani, la memoria collettiva di catechesi e conversioni forzate è ancora sempre viva. Il ricordo della Shoah è per l’ebraismo odierno una traumatica caratteristica di identità che crea comunione. Molti ebrei considerano la missione verso gli ebrei una minaccia alla loro esistenza; talvolta si parla addirittura di una Shoah con altri mezzi. Bisogna dunque avere ancora una grande sensibilità nel rapporto ebraico-cristiano.
Nel frattempo le spiegazioni date sulla riformulata preghiera del Venerdì Santo hanno potuto eliminare i malintesi più grossolani. Già il puro fatto che la preghiera del Venerdì Santo del Messale del 1970 — nella forma ordinaria del Rito Romano, quindi, adoperata di gran lunga nel maggior numero dei casi — resti pienamente in vigore, dimostra che la riformulata preghiera del Venerdì Santo, adoperata soltanto da una parte estremamente piccola di comunità, non può significare un passo indietro rispetto alla Dichiarazione Nostra ætate del Concilio Vaticano II. Ciò vale ancora di più per il fatto che la sostanza della Dichiarazione Nostra ætate è compresa anche nella Costituzione, documento di più alto livello formale, sulla Chiesa Lumen gentium (n. 16); perciò, per principio, non può essere messa in questione. Inoltre, a partire dal Concilio c’è stato un gran numero di prese di posizione dei Pontefici, anche del Papa attuale, che si riferiscono alla Nostra ætate e che confermano l’importanza di questa Dichiarazione.
Diversamente dal testo del 1970, la nuova formulazione del testo del 1962 parla di Gesù come il Cristo e la Salvezza di tutti gli uomini, quindi anche degli ebrei. Molti hanno inteso questa affermazione come nuova e non amichevole nei confronti degli ebrei. Ma essa è fondata sull’insieme del Nuovo Testamento (cfr 1 Timoteo, 2, 4) e indica la differenza fondamentale, nota ovunque, che permane sia per i cristiani, sia per gli ebrei. Anche se non se ne parla esplicitamente nella Nostra ætate, né nella preghiera del 1970, non si può estrapolare la Nostra ætate dal contesto di tutti gli altri documenti conciliari e nemmeno la preghiera del Venerdì Santo del Messale del 1970 dall’insieme della liturgia del Venerdì Santo che ha come oggetto appunto quella convinzione della fede cristiana. La nuova formulazione della preghiera del Venerdì Santo del Messale del 1962, quindi, non dice nulla di veramente nuovo, ma esprime soltanto ciò che già finora era presupposto come ovvio, ma evidentemente, in tanti dialoghi, non era stato tematizzato a sufficienza (2).
Nel passato la fede in Cristo, che differenzia i cristiani dagli ebrei, si è trasformata spesso in un «linguaggio del disprezzo» (Jules Isaac) con tutte le gravi conseguenze che ne derivavano. Se oggi ci impegniamo per un rispetto reciproco, esso può fondarsi solo nel fatto che riconosciamo reciprocamente la nostra diversità. Perciò non aspettiamo dagli ebrei che concordino sul contenuto cristologico della preghiera del Venerdì Santo, ma che rispettino che noi preghiamo da cristiani secondo la nostra fede, come naturalmente anche noi facciamo nei confronti del loro modo di pregare. In questa prospettiva ambedue le parti hanno ancora da imparare.
La vera questione controversa è: devono i cristiani pregare per la conversione degli ebrei? Ci può essere una missione verso gli ebrei? Nella preghiera riformulata non si trova la parola conversione. Ma è indirettamente inclusa nell’invocazione di illuminare gli ebrei affinché riconoscano Gesù Cristo. In più, c’è il fatto che il Messale del 1962 contiene titoli per le singole preghiere. Il titolo della preghiera per gli ebrei non è stato modificato; esso suona come prima: Pro conversione Judæorum, «Per la conversione degli ebrei». Molti ebrei hanno letto la nuova formulazione nell’ottica di questo titolo, e ciò ha suscitato la reazione già descritta.
In risposta a ciò, si può far notare che la Chiesa Cattolica, a differenza di alcuni cerchi evangelicali, non conosce una missione verso gli ebrei organizzata e istituzionalizzata. Con tale richiamo, però, il problema della missione verso gli ebrei di fatto non è ancora chiarito teologicamente. Questo è proprio il merito della nuova formulazione della preghiera del Venerdì Santo, che, nella sua seconda parte, presenta una prima indicazione per una sostanziale risposta teologica.
Si parte ancora una volta dal capitolo 11 della Lettera ai Romani, che è fondamentale anche per la Nostra ætate (3). La salvezza degli ebrei è per Paolo un profondo mistero dell’elezione mediante la grazia divina (9, 14-29). I doni di Dio sono senza pentimento, e le promesse di Dio fatte al suo popolo, nonostante la disobbedienza di questo, non sono state revocate da Dio (9, 6; 11, 1.29). L’indurimento d’Israele torna a salvezza dei pagani. I rami selvatici dei pagani sono stati innestati sul ceppo santo d’Israele (11, 16s). Dio ha però la potenza di innestare di nuovo i rami tagliati (11, 23). Quando la pienezza dei pagani sarà entrata nella salvezza, sarà salvato tutto l’Israele (11, 25s). Israele rimane quindi portatore della promessa e della benedizione.
Paolo parla, nel linguaggio dell’apocalittica, di un mistero (11, 25). Con ciò si intende esprimere qualcosa di più del fatto che gli ebrei sono spesso per gli altri popoli un enigma e che la loro esistenza è per altri ancora una testimonianza di Dio. Con il termine «mistero» Paolo intende l’eterna volontà salvifica di Dio, la quale si manifesta nella storia attraverso la predicazione dell’Apostolo. Si riferisce concretamente a Isaia, 59, 20 e Geremia, 31, 33s. Con ciò fa riferimento al raduno escatologico dei popoli in Sion, promesso dai profeti e da Gesù, e alla pace universale (shalom) che poi sorgerà (4). Paolo vede tutta la sua opera missionaria tra i pagani in tale prospettiva escatologica. La sua missione dovrebbe preparare il raduno dei popoli, il quale, poi, quando vi entrerà il numero completo dei pagani, tornerà a salvezza per Israele e farà sorgere la pace escatologica per il mondo.
Si può dunque dire: non a motivo della missione verso gli ebrei, ma a seguito della missione verso i pagani Dio realizzerà alla fine, quando il numero completo dei pagani sarà entrato nella salvezza, la salvezza d’Israele. Solo Colui che ha indurito la maggior parte d’Israele, può anche scioglierne l’indurimento. Lo farà, quando «il liberatore» uscirà da Sion (11, 26). Costui, secondo il linguaggio paolino (cfr 1 Tessalonicesi, 1, 10), non è nessun altro se non il Cristo che ritorna. Ebrei e pagani, infatti, hanno lo stesso Signore (10, 12) (5).
La riformulata preghiera del Venerdì Santo esprime questa speranza in una preghiera di intercessione rivolta a Dio (6). Con questa preghiera la Chiesa ripete, in fondo, l’invocazione del Padre nostro «Venga il tuo regno» (Matteo, 6, 10; Luca, 11, 2) e l’acclamazione liturgica protocristiana «Maranà tha», «Vieni, Signore Gesù, vieni presto» (1 Corinzi, 16, 22; Apocalisse, 22, 20; Didaché, 10, 6). Tali preghiere per la venuta del Regno di Dio e per la realizzazione del mistero della salvezza, secondo la loro natura, non sono un appello rivolto alla Chiesa a compiere un’azione missionaria verso gli ebrei. Anzi, esse rispettano tutta la profondità abissale del Deus absconditus, della Sua elezione per grazia, dell’indurimento, come della Sua misericordia infinita. Con la sua preghiera la Chiesa, dunque, non assume la regia della realizzazione del mistero imperscrutabile. Non lo può affatto. Piuttosto mette del tutto il quando e il come di tale realizzazione nelle mani di Dio. Solo Dio può far sorgere il Suo Regno, nel quale tutto l’Israele sarà salvato e la pace escatologica toccherà il mondo.
Per sostenere quest’interpretazione ci si può riferire a un testo di san Bernardo di Clairvaux, che dice che non siamo noi a doverci occupare degli ebrei, ma che Dio stesso se ne occuperà (7). Quanto sia giusta questa interpretazione risulta ancora dalla dossologia che conclude il capitolo 11 della Lettera ai Romani: «O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (11, 33). Questa dossologia manifesta ancora una volta che si tratta della glorificazione adorante di Dio e della sua elezione imperscrutabile mediante la grazia, e non di un appello a qualsiasi azione, neanche alla missione.
L’esclusione di una missione mirata e istituzionalizzata verso gli ebrei non significa che i cristiani debbano stare con le mani in mano. Missione mirata e organizzata da un lato e testimonianza cristiana dall’altro lato vanno distinte. Naturalmente, i cristiani devono, dove è opportuno, dare ai fratelli e alle sorelle maggiori nella fede di Abramo (Giovanni Paolo II) testimonianza della propria fede e della ricchezza e bellezza della loro fede in Cristo. Ciò ha fatto anche Paolo. Durante i suoi viaggi missionari Paolo si è recato ogni volta prima nella Sinagoga, e solo quando lì non vi ha trovato la fede, è andato dai pagani (Atti degli Apostoli, 13, 5.14s.42-52; 14, 1-6 e altri; fondamentale Romani, 1, 16).
Tale testimonianza è richiesta oggi anche a noi. Deve avvenire certo con tatto e rispetto; sarebbe però disonesto se i cristiani nell’incontrare amici ebrei tacessero sulla propria fede o addirittura la negassero. Attendiamo altrettanto dagli ebrei credenti nei nostri confronti. Nei dialoghi che io conosco, quest’atteggiamento è del tutto normale. Un dialogo sincero tra ebrei e cristiani, infatti, è possibile solo, da un lato, sulla base della comunanza nella fede nell’unico Dio, Creatore del cielo e della terra, e nelle promesse fatte ad Abramo e ai Padri, e, dall’altro, nella consapevolezza e nel rispetto della differenza fondamentale che consiste nella fede in Gesù quale Cristo e Redentore di tutti gli uomini.
L’incomprensione diffusa della riformulata preghiera del Venerdì Santo è un segnale di quanto grande sia ancora il compito che ci sta davanti nel dialogo ebraico-cristiano. Le reazioni irritate che sono sorte dovrebbero, quindi, essere un’occasione per chiarire e approfondire ancora le basi e gli obiettivi del dialogo ebraico-cristiano. Se si potesse avviare in questo modo un approfondimento del dialogo, l’agitazione sorta porterebbe alla fine davvero a un risultato positivo. Si deve certo essere sempre consapevoli che il dialogo tra ebrei e cristiani resterà, per sua natura, sempre difficile e fragile e che esige in grande misura sensibilità da entrambi le parti.
*Cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo
Note
1) Una sintesi delle prime reazioni pro e contra si trova in: Il Regno n. 1029, 2008, 89-91. Oltre a tali prime reazioni nei mass media, è pervenuta alla Commissione per i Rapporti religiosi con l’ebraismo una serie di prese di posizione dettagliate e particolareggiate, provenienti soprattutto dagli Stati Uniti d’America, dalla Germania e dall’Italia, tra gli altri da R. Di Segni, La preghiera per gli ebrei, in «Shalom» 2008, n. 3, 4-7.
2) Ciò non vale per il Dialogo ebraico-cristiano internazionale in cui questa questione è sorta già dopo la Dichiarazione Dominus Iesus (2000). La Commissione per i Rapporti religiosi con l’ebraismo ne ha tenuto conto e ha organizzato a questo scopo colloqui di esperti ad Ariccia (Italia), Lovanio (Belgio) e Francoforte (Germania); il prossimo colloquio è programmato da lungo tempo a Notre Dame (Indiana, Stati Uniti d’America).
3) Quanto all’interpretazione rimando soprattutto all’ampio commentario, ricco anche per la nostra questione, di Tommaso d’Aquino, Super ad Romanos, capitolo 11, lectio 1-5. Commentari più recenti: E. Peterson, Der Brief an die Römer (Ausgewählte Schriften, 6), Würzburg, 1997, 312-330, specialmente 323; E. Käsemann, An die Römer (Handbuch zum Neuen Testament, 8a), Tübingen 1973, 298-308; H. Schlier, Der Römerbrief (Herders Theologischer Kommentar zum Neuen Testament, 6), Freiburg i. Br., 1997, 320-350, spec. 337-341; O. Kuss, Der Römerbrief, 3. Lieferung, Regensburg, 1978, 809-825; U. Wilckens, Der Brief an die Römer (EKK, VI/2), Zürich-Neukirchen, 1980, 234-274, spec. 252-257. Basilare il documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (2001). Inoltre F. Mussner, Traktat über die Juden, München, 1979, 52-67; J. Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Torino, 2000; J. M. Lustiger, La promesse, Paris, 2002; W. Kasper, L’antica e la nuova alleanza nel dialogo ebraico-cristiano, in Nessuno è perduto. Comunione, dialogo ecumenico, evangelizzazione, Bologna 2005, 95-119. A ciò si aggiunge una gran quantità di letteratura più recente, la maggior parte di lingua inglese, sulle questioni del dialogo ebraico-cristiano.
4) Importanti sono passi come Isaia, 2, 2-5; 49, 9-13; 60; Michea, 4, 1-3 e altri. In merito: J. Jeremias, Jesu Verheißung für die Völker, Göttingen 1959.
5) Con questo si affronta la questione teologica più fondamentale dell’attuale dialogo ebraico-cristiano: c’è una sola alleanza o ci sono due alleanze parallele per ebrei e cristiani? Tale questione tratta dell’universalità della salvezza, dal punto di vista cristiano irrinunciabile, in Gesù Cristo. Cfr la sintesi della letteratura più antica in J. T. Pawlikowski, Judentum und Christentum, in «Theologische Realenzyklopädie», 18 (1988), 386-403; Pawlikowski, a causa degli interventi miei e di altri, ha sviluppato la sua posizione in modo essenziale e ha riferito ampiamente circa lo stato attuale della discussione in Reflections on Covenant and Mission in: Themes in Jewish-Christian Relations, ed. E. Kessler and M. J. Wreight, Cambridge (Inghilterra), 2005, 273-299.
6) La preghiera ha modificato questo testo nella misura in cui parla dell’entrata dei pagani «nella Chiesa», cosa che non si trova così in Paolo. Da ciò alcuni critici ebrei hanno concluso che si trattasse dell’entrata d’Israele nella Chiesa, cosa che non si dice nella preghiera. Nel senso dell’apostolo Paolo si dovrebbe piuttosto dire che la salvezza della maggior parte degli ebrei viene comunicata attraverso Cristo, ma non attraverso l’entrata nella Chiesa. Alla fine dei giorni, quando il Regno di Dio si realizzerà definitivamente, non ci sarà più una Chiesa visibile. Si tratta quindi del fatto che alla fine dei giorni l’unico Popolo di Dio composto di ebrei e pagani divenuti credenti sarà di nuovo unito e riconciliato.
7) Bernardo di Clairvaux, De consideratione, III, 1, 3. In merito anche: Sermones super Cantica Canticorum, 79, 5.