The Torah Scroll
The Torah Scroll Covers were designed by artist Ina Golub and the needlepoint work was done by members of the congregation.
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dal sito:
http://www.sidic.org/it/conferenzaView.asp?id=61
La seconda delle Dieci Parole – “Non avrai altre divinità al mio cospetto” (Es 20,3)
Francesco Rossi de Gasperis – Pontificia Università Lateranense – 17/01/2007
1. LA PAROLA DI UN INNAMORATO
NON CI SARANNO PER TE ALTRI DÈI DI FRONTE A ME
È questa la seconda delle “Dieci Parole” della rivelazione sinaitica (ES 20,3).
È importante per noi cristiani-cattolici tornare al senso ebraico dei “Dieci comandamenti”, dei quali più spesso parliamo nei nostri catechismi. Le “Dieci Parole” – ‘asereth haddevarim (Es 34,28) o ‘asereth haddiveroth, per dirla con la tradizione ebraica – indicano prima di tutto, con la parola davar, un evento, un fatto, spiegato poi, per lo più, da una parola che ne discerne il senso (cf. la traduzione greca con due termini rhêma–logos). Dio parla prima di tutto attraverso dei fatti, facendo storia, e offrendo poi nelle Scritture, “mediante amici di Dio e profeti”, delle parole che di quella storia decifrino il senso inteso dall’autore divino (cf. Sap 7,27).
Le Dieci Parole del Sinai non vanno intese prima di tutto come un’enunciazione teorica di monoteismo, né come delle formulazioni di esigenze etiche, bensì nel quadro di un rapporto di alleanza tra Adonaj e Israele. Esse significano e comportano l’inaugurazione di una situazione esistenziale di amore esclusivo con cui il Signore lega Israele a sé. L’alleanza tra il Signore e il suo popolo, infatti, è finalmente di natura amorosa e sponsale, come esplicitamente l’hanno esplicitamente interpretata i grandi profeti d’Israele, da Osea a Isaia, a Geremia, a Ezechiele (1).
Trovo insopportabile l’affermazione di alcuni autori che sostengono che il dono della Torah sinaitica sia stato surclassato, nell’economia della “nuova alleanza”, magari leggendo in senso contrappositivo il testo di Gv 1,17:
«Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto
e grazia su grazia.
Perché la Torah fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo».
Un’affermazione definitiva della permanenza teologica e spirituale del Sinai anche nell’esistenza cristiana mi sembra l’abbia fatta Giovanni Paolo 2° con il suo profetico pellegrinaggio dell’anno 2000. Esso fu ancora un davar, un fatto offerto davanti agli occhi del mondo intero, una “lectio continua e perfettamente integrata di tutte le Scritture”, di cui mi sembra che non si sia ancora raggiunta e formulata un’intelligenza consapevole.
Nella formulazione delle Dieci Parole, la prevenienza gratuita dell’elezione amorosa di Israele, da parte di Adonaj, e della sua proposta di alleanza con quel popolo, precede ogni enunciazione teorica di monoteismo e ogni proclamazione di esigenza morale. Essa fa dell’incontro del Sinai un amplesso e una dichiarazione amorosa del Signore a Israele: “TU APPARTIENI A ME SOLO” (Es 19,1-6), una parola di alleanza sponsale che Ez 16,4-8 traduce in termini di tenerezza amorosa tra Adonaj e Gerusalemme:
«Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato l’ombelico e non fosti lavata con l’acqua per purificarti; non ti fecero le frizioni di sale, né fosti avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse su di te per farti una sola di queste cose e usarti compassione, ma come oggetto ripugnante fosti gettata via in piena campagna, il giorno della tua nascita. Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel tuo sangue e cresci come l’erba del campo. Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza: il tuo petto divenne fiorente ed eri giunta ormai alla pubertà; ma eri nuda e scoperta. Passai vicino a te e ti vidi; ecco, la tua età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità; giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia».
Il MONTE Sinai diventa, infatti, nella narrazione dell’Esodo, quasi un sinonimo dello stesso SIGNORE:
«Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dal paese di Egitto, proprio in quel giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai. Levato l’accampamento da Refidim, arrivarono al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte. Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra!» (Es 19,1-5).
La Parola di Adonaj al Sinai costituisce Israele, suo popolo, e con lui tutti coloro che il Signore “aggiungerà” ai suoi credenti (At 2,41-47; 5,14; 11,21-24) e innesterà nel suo olivo (Rm 11,16-24) quali “ascoltatori della sua Parola e discepoli del suo Insegnamento (Torah)” (Is 54,13; Gv 6,45). Noi camminiamo quaggiù nella fede, e non nella visione (2Cor 5,7), e come Mosè, anche Gesù, Parola del Padre fatta carne, nella sua condizione terrena, camminava saldo nell’obbedienza filiale, come se vedesse l’invisibile (cf. Eb 11,27).
Israele resta per sempre un popolo accampato davanti al monte, come una sposa rimane sempre presente al suo sposo, e anche quando egli riprenderà il cammino nel deserto verso la Terra promessa, la Montagna, la Roccia, camminerà con lui (cf. Es 33,12-17; 1Cor 10,1-4).
Noi, cristiani provenienti dalle nazioni, abbiamo un assoluto bisogno dei nostri “fratelli maggiori”, gli ebrei. Essi sono davanti a noi i garanti del dialogo perenne di Dio con gli esseri umani, del binomio insuperabile e ineludibile “TU-IO”, che i Salmi scolpiscono ogni giorno nelle nostre coscienze di uomini e di donne. Senza la presenza incombente, ma salvifica, della Montagna – icona del Nome (Ha-Shem) – davanti a cui, al di là di tutte le nebbie della pianura, rimaniamo sempre accampati, la tentazione di ridurre il dialogo a un monologo immanentista – tanto tenace e ricorrente, tipica della nostra originaria “gentilità” – ci avrebbe sedotto varie volte attraverso i secoli. E saremmo diventati dei discepoli presuntuosi, che essendosi arrogati il ruolo di maestri, saremmo morti strangolati dalla nostra disperata solitudine e da una empia idolatria di noi stessi.
2. UNA PAROLA PER TUTTA LA TERRA
«Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! » (Es 19,5).
Il Signore dell’alleanza sinaitica, dunque, non è il dio nazionale di Israele. Al Dio del Sinai «appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene» (Dt 10,14). La rivelazione sinaitica, perciò, costituisce Israele – e con lui anche le Chiese cristiane che, in Gesù, ascoltano la Parola del Padre – quali testimoni eloquenti della proposta amorosa del Dio unico da partecipare a tutte le nazioni della Terra.
Adonaj, il Dio di Mosè, è non soltanto lo stesso Dio dei padri, lo ’el Shaddaj di Abramo, Isacco e Giacobbe (Es 6,2-3), ma è anche il Signore Dio (JHWH ’Elohim) di Noè (Gen 6,13; 7,1; ecc.) e dello ’Adam primigenio (maschile e femminile), il Creatore del cielo e della terra (Gen 1,27; 2,4b-7; 5,1-2; 1Cor 15,45). Egli ha disteso i cieli e fondato la terra, mentre diceva a Sion: «Tu sei mio popolo» (Is 51,16).
Vivevo a Gerusalemme nel novembre 1977, e ricordo ancora il sussulto e il fremito di commozione che attraversò l’intero paese d’Israele quando il presidente egiziano, Anwar as-Sa’adat, citò davanti alla Knesset, il parlamento israeliano, questo passo biblico del profeta Isaia:
«In quel giorno ci sarà un altare dedicato al Signore in mezzo al paese d’Egitto e una stele in onore del Signore presso la sua frontiera: sarà un segno e una testimonianza per il Signore degli eserciti nel paese d’Egitto. Quando, di fronte agli avversari, invocheranno il Signore, allora egli manderà loro un salvatore che li difenderà e li libererà. Il Signore si rivelerà agli Egiziani e gli Egiziani riconosceranno in quel giorno il Signore, lo serviranno con sacrifici e offerte, faranno voti al Signore e li adempiranno. Il Signore percuoterà ancora gli Egiziani ma, una volta colpiti, li risanerà. Essi faranno ritorno al Signore ed egli si placherà e li risanerà. – Venne poi la citazione capitale – In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: “Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità”» (Is 19,19-25).
Isaia intravide allora il Sinai dell’Egitto e dell’Assiria, e di tutti gli altri popoli!
Al culto reso dall’Egitto al Signore d’Israele, che è l’unico Dio di tutti, i titoli dell’alleanza sinaitica, propri prima di tutto di Israele, il quale rimane l’eredità di Adonaj (nachalati), passano anche all’Egitto, chiamato ‘ammi (popolo mio), e all’Assiria, chiamata ma‘aseh yadai. L’iniziativa amorosa del Dio del Sinai, iniziata nei confronti di Israele, appena liberato dall’idolatria molteplice della schiavitù egiziana – e più tardi da quella mesopotamica –, si apre e si estende alle genti, liberate anch’esse dalle proprie idolatrie.
Come abbiamo cantato, pochi giorni fa, nel giorno dell’Epifania:
«I capi dei popoli si sono raccolti
con il popolo del Dio di Abramo,
perché di Dio sono i potenti della terra:
egli è l’Altissimo» (Sal 47,10).
Isaia ha riformulato, dunque, per tutti i paesi della terra la Seconda delle Dieci parole:
«Volgetevio a me e sarete salvi,
paesi tutti della terra,
perché io sono Dio; non ce n’è altri» (Is 45,22).
Anche per tutte le nazioni, quindi, “non ci sono altri dèi di fronte ad Adonaj”, egli solo è UNO, e nessun altro è UNO come lui (Dt 6,4: lo Shema‘ d’Israele). L’unicità del Dio uno è la montagna di fronte alla quale ogni uomo e ogni donna sono chiamati ad accamparsi (cf. Is 43,8-13; 44,6-8).
Ai nostri giorni, la secolare tenzone dell’umanità con LUI prende forme sempre molteplici: tentativi di ridurre la sua soggettività personale all’oggettività astratta di valori, ideologie, sistemi, dottrine, problemi, nomi (= giustizia, pace, libertà, democrazia, globalizzazione…), persino alle formulazioni tutte umane che noi diamo del suo NOME (che egli ci svela sì, ma continuamente ri-velandolo, cioè velandolo di nuovo) (Is 45,15; 1Cor 2,6-16).
3. Il Cantico dei cantici dell’umanità
La proposta nuziale, dunque, l’anello o il sigillo che Adonaj, al Sinai, ha messo una volta per tutte nel dito di Israele (2), viene offerto nel corso dei secoli a tutti i popoli della terra che si uniscono a Israele, partecipando alla fede di Abramo nell’unico Signore.
Ogni uomo e ogni donna è invitato a fare sue le parole dell’amata del Cantico:
«Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l’amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio» (Ct 8,6-7).
Confidiamo nel “sì” con cui, per sempre, al Sinai, Israele ha risposto a questa proposta e promessa nuziale del suo Signore. Noi cristiani ripetiamo ogni giorno questo sì con Gesù e in Gesù, quando celebriamo la sua Cena.
Esso impegna Israele e le Chiese cristiane a respingere con estremo vigore ogni tentazione di adorare tutti gli idoli umanistici che pretendano di sostituire l’unico Nome di Adonaj, o anche solo di accompagnarsi con lui: gli idoli di un Potere imperiale umano che intenda dominare l’universo o ammaestrare il mondo con una sapienza manufatta, come un tempo fecero le nazioni, gli assiri, i babilonesi, i persiani, i greci, Roma, con tutti i loro successori sulla scena della storia, fino ai nostri giorni; gli idoli dell’Arroganza che si serva della Forza e della Pre-potenza militare; gli idoli del Denaro e della Comunicazione che opprima e spadroneggi, ottundendole, sulle coscienze degli uomini e delle donne; idoli del Consumismo e della Propagazione di menzogne; idoli di Parole continuamente ripetute, ma prive di sostanza; idoli del Sesso vuoto di amore; idoli delle Manipolazioni genetiche della vita e della morte, che ubriacano l’umanità, come un giorno facevano i mattoni cotti al fuoco e il bitume, con cui si costruiva la torre di Babele (Gen 11,3-9); gli idoli dei Muri che si elevino tra i popoli e le civiltà; gli idoli di Culture che pretendano di sostituirsi alla Parola di Adonaj; idoli di un Sapere che cerchi di violentare il segreto del Nome del Signore, invece di insegnarci a pregarlo e a dirgli di sì.
4. Conclusione
Questa rilettura della Seconda Parola sinaitica in termini di alleanza sponsale, permeata di amorosa tenerezza esclusiva, che qui abbiamo cercato di fare insieme, ci aiuti a vivere, in Israele e nella Chiesa, pur in mezzo a prove dolorose e crudeli, fedeli al nostro supremo e unico Amore, ripetendo nella fede le parole dell’alleanza pronunciate dall’amata del Cantico:
«La sua sinistra è sotto il mio capo
e la sua destra mi abbraccia (Ct 2,6=8,3).
Mi baci con i baci della sua bocca!
Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino…
Attirami dietro a te, corriamo!» (Ct 1,2.4).
A esse fanno eco le ultime parole della Bibbia giudeocristiana:
«Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta ripeta: “Vieni!”…
Colui che attesta queste cose dice: “Sì, verrò presto!”. Amen» (Ap 22,17.20).
Note
1. Cf. già il verbo chashaq in Dt 7,7, usato come in Gen 34,8; 21,11: un verbo di innamoramento. Cf. pure ba‘alti bakhem in Ger 3,14; 31,32, che si può tradurre: «Essi hanno infranto la mia alleanza, ma io rimango colui che li ha presi in sposa» (invece di: “benché io fossi loro Signore”: cf. J. COPPENS, «La Nouvelle Alliance en Jer 31,31-34», The Catholic Biblical Quarterly 25 (1963) 12-21). Si veda anche la formula continuamente ripetuta, specialmente da Geremia ed Ezechiele: «Io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo».
2. Cf. Rm 15,27; 1Cor 9,11; ecc.
dal sito:
http://www.nostreradici.it/nome.htm
MISTERO DEL NOME DI DIO
Nell’ebraismo, chiamare qualcuno per nome significa conoscere la realtà del suo essere più profondo, la sua vocazione, la sua missione, il suo destino. È come tenere la sua anima nella propria mano, avere potere su di lui. Per questa ragione, il Nome di Dio, che indica la sua essenza stessa, è considerato impronunciabile dagli ebrei. Solo il Sommo sacerdote, nel Tempio di Gerusalemme, poteva pronunciarlo nel giorno di Kippur (espiazione), quando faceva la triplice confessione dei peccati per sé, per i sacerdoti e per la comunità. A questo riguardo il Talmud dice: « Quando i sacerdoti e il popolo che stavano nell’atrio, udivano il nome glorioso e venerato pronunciato liberamente dalla bocca del Sommo Sacerdote in santità e purezza, piegavano le ginocchia e si prostravano e cadevano sulla loro faccia ed esclamavano: Benedetto il suo Nome glorioso e sovrano per sempre in eterno » (Jomà, VI,2). Nella Bibbia ebraica il Nome è espresso con quattro consonanti: – JHWH, dette « Tetragramma sacro », citato ben 6.828 volte. Ma la sua esatta vocalizzazione è oggi sconosciuta. E’ bene ricordare che nell’alfabeto ebraico le vocali furono aggiunte in epoca molto tarda (VI-VIII sec. d. C.).
Quando nella Bibbia l’ebreo di allora e di oggi trova quelle famose quattro lettere che cosa legge? La risposta ce la offrono quei rabbini noti come Masoreti (« i tradizionali »), ai quali dobbiamo la vocalizzazione del testo consonantico della Bibbia durante l’alto Medioevo. Essi posero sotto le quattro consonanti JHWH le vocali della parola Adonai, « Signore », che essi pronunciano al posto del tetragramma sacro.Le vocali sono: e – o – a, e servivano a ricordare al lettore che, giunto a JHWH, doveva dire Adonai. Nel tardo Medioevo i cristiani non essendo più a conoscenza di questo meccanismo di sostituzione lessero le quattro lettere JHWH con le vocali e – o – a, creando così quello sgorbio che è Jehowah o Geova che è durato fino ai nostri giorni » (Mons. Gianfranco Ravasi « Jesus »6/1990). Ancor più diffuso tutt’oggi tra i cristiani è purtroppo l’uso di « Jahwè » che non solo è offensivo per gli ebrei, ma è anche del tutto arbitrario, visto che non se ne conosce la pronuncia.
Il Catechismo degli Adulti della Conferenza Episcopale Italiana: « La Verità vi farà liberi » così si esprime circa il Nome di Dio: « La tradizione ebraica considera questo nome impronunciabile e suggerisce di dire in suo luogo « Adonai », cioè « Signore » o di pronunciare un altro titolo divino. Per rispetto ai nostri fratelli ebrei questo catechismo invita a fare altrettanto e in ogni caso riduce all’indispensabile l’uso del tetragramma sacro » (48,6). Se questo invito della CEI venisse accolto nelle nostre comunità cristiane, anche certi canti che ripetono all’infinito il Nome di Dio, verrebbero rivisti e corretti. Purtroppo, però, il tetragramma sacro viene ancora troppo spesso vocalizzato da certi sacerdoti, catechisti e da una parte della stampa religiosa.
v.s.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=04/24/2008#
Sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109), monaco, vescovo, dottore della Chiesa
Proslògion, 26
« Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena
Ti prego, o Dio, fa’ che io ti conosca, ti ami per godere di te. E se non lo posso pienamente in questa vita, che io avanzi almeno di giorno in giorno fino a quando giunga alla pienezza. Cresca qui la mia conoscenza di te e diventi piena nell’altra vita. Cresca il tuo amore e un giorno divenga perfetto, perché la mia gioia sia grande qui nella speranza e completa mediante il possesso definitivo nel futuro.
Signore, per mezzo di tuo Figlio comandi, anzi consigli di chiedere e prometti che otterremo perché la nostra gioia sia piena (Gv 16,24)… Io chiedo, o Signore, quello che consigli per mezzo dell’ «ammirabile nostro consigliere» (Is 9,5): possa io ricevere ciò che prometti per la tua verità, perché la mia gioia sia piena.
Nel frattempo mediti la mia mente, ne parli la mia lingua. Ne abbia fame l’anima mia e sete la mia carne, lo desideri tutto il mio essere fino a quando non entri nella gioia del mio Signore (Mt 25,51), che è Dio uno e trino, benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
dal sito:
http://www.novena.it/padri/35.htm
Dalle « Omelie » di san Giovanni Crisostomo, vescovo (Om. 6 sulla preghiera; PG 64, 462-466)i Crisostomo, vescovo (Om. 6 sulla preghiera; PG 64, 462-466)
La preghiera è luce per l’anima
« La preghiera, o dialogo con Dio,
è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera. Deve essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore.
Non deve essere circoscritta a determinati tempi od ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno.
Non bisogna infatti innalzare il nostro animo a Dio solamente quando attendiamo con tutto lo spirito alla preghiera. Occorre che, anche quando siamo occupati in altre faccende, sia nella cura verso i poveri, sia nelle altre attività, impreziosite magari dalla generosità verso il prossimo, abbiamo il desiderio e il ricordo di Dio, perché, insaporito dall’amore divino, come da sale, tutto diventi cibo gustosissimo al Signore dell’universo. Possiamo godere continuamente di questo vantaggio, anzi per tutta la vita, se a questo tipo di preghiera dedichiamo il più possibile del nostro tempo.
La preghiera è luce dell’anima, vera conoscenza di Dio, mediatrice tra Dio e l’uomo. L’anima, elevata per mezzo suo in alto fino al cielo, abbraccia il Signore con amplessi ineffabili. Come il bambino, che piangendo grida alla madre, l’anima cerca ardentemente il latte divino, brama che i propri desideri vengano esauditi e riceve doni superiori ad ogni essere visibile.
La preghiera funge da augusta messaggera dinanzi a Dio, e nel medesimo tempo rende felice l’anima perché appaga le sue aspirazioni. Parlo, però, della preghiera autentica e non delle sole parole.
Essa è un desiderare Dio, un amore ineffabile che non proviene dagli uomini, ma è prodotto dalla grazia divina. Di essa l’Apostolo dice: Non sappiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili (cfr. Rm 8, 26b). Se il Signore dà a qualcuno tale modo di pregare, è una ricchezza da valorizzare, è un cibo celeste che sazia l’anima; chi l’ha gustato si accende di desiderio celeste per il Signore, come di un fuoco ardentissimo che infiamma la sua anima.
Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà mediante la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza. »
Dalle « Omelie » di san Giovanni Crisostomo, vescovo (Om. 6 sulla preghiera; PG 64, 462-466)