di Alfio Marcello Buscemi: Il senso dell’ »evento di Damasco »
dal sito:
http://www.christusrex.org/www1/ofm/pope2/syria/GPsyr13.html
Il senso dell’« evento di Damasco »
di Alfio Marcello Buscemi
(è stato mio professore di studi paolini)
dal libro: San Paolo. Vita opera messaggio
(SBF Analecta 43), 2a edizione, Gerusalemme 1997
Molti hanno parlato e continuano a parlare di conversione, ma il termine non si adatta bene al caso eccezionale di Paolo. Anzi, genera confusione e tradisce il senso profondo dei testi, sia delle Lettere che degli Atti. Per Paolo non si trattò di passare da una religione ad un’altra: fino a quel momento il cristianesimo non aveva ancora operato nessuna rottura ufficiale con il giudaismo e quindi al massimo Paolo sarebbe passato da una setta giudaica ad un’altra setta giudaica; né si trattò di una crisi religiosa – il testo di Rom 7,7-25 non ha certamente valore autobiografico – che determinò il passaggio da una fede mediocre ad un’esistenza religiosamente più impegnata: Paolo è sempre stato un uomo zelante di Dio e della sua legge.
Il mutamento di Paolo è stato qualcosa di più radicale: a contatto con Cristo egli è divenuto una « creatura nuova ». Dio, facendo irruzione nella sua vita per mezzo di Cristo, ha determinato in lui una nuova creazione, qualitativamente e radicalmente diversa. Paolo stesso, forse richiamandosi a questa sua esperienza damascena, dirà in 2Cor 5,17: « Chi è in Cristo, questi è una nuova creatura ». La luce del volto di Cristo brillò per opera di Dio nella sua vita: « Iddio che ha detto: ‘Dalle tenebre lampeggi la luce’ (Gen 1,3), proprio lui ha brillato nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo » (2Cor 4,6). « Da quel momento considerai tutto una perdita di fronte alla suprema cognizione di Cristo Gesù mio Signore, per il quale mi sono privato di tutto e tutto ho stimato come immondizia allo scopo di guadagnare Cristo e ritrovarmi in lui non con la mia giustizia che deriva della legge, ma con quella che si ottiene con la fede » (Fil 3,8-9). Il fariseo Paolo, che fino allora aveva esaltato al di sopra di ogni cosa la legge, da quel momento in poi dirà: « La mia vita è Cristo » (Fil 1,21), « perché niente ha valore né l’essere ebreo né gentile, ma ciò che conta è essere una nuova creatura » (Gal 6,15); nessun’altra sapienza di questo mondo ha più importanza, se non conoscere Gesù Cristo, anzi Gesù Cristo crocifisso (1Cor 2,2); e rifiutando il vanto della legge dirà: « Quanto a me, di nessun’altra cosa mi glorierò se non della Croce del Signore nostro Gesù Cristo, sulla quale il mondo per me fu crocifisso e io per il mondo » (Gal 6,14). Cristo è divenuto per lui il « termine della legge » (Rom 10,4): ha finito il suo ruolo di « pedagogo » (Gal 3,24) e ha trovato il suo totale perfezionamento nella « legge di Cristo » (Gal 6,2), nella legge dell’amore (Gal 5,14).
È Paolo stesso che ci offre una simile interpretazione di quest’esperienza che ha rivoluzionato la sua vita, scrivendo ai Galati: « Poi, quando Colui che mi scelse dal seno di mia madre e mi chiamò per mezzo della sua grazia si compiacque di rivelare in me il suo Figlio affinché lo annunziassi tra le genti, subito non chiesi consiglio alla carne e al sangue… » (Gal 1,15-16). Quindi, Paolo vede « l’evento di Damasco » non come una conversione, ma come il culmine della sua esistenza: dalla nascita egli è stato condotto da Dio lentamente e pazientemente a questo momento decisivo, in cui il Cristo l’ha afferrato e l’ha fatto suo per sempre (Fil 3,12). L’iniziativa è di Dio, che sceglie chi vuole e quando vuole: l’imperscrutabile e libera decisione divina aveva un disegno concreto su di lui e lo ha realizzato « quando si compiacque di farlo ». In quel momento tutto è cambiato: « Tutte quelle cose che per me erano guadagni, io le ho stimate invece una perdita per amore di Cristo » (Fil 3,7). Sta qui, nell’amore di Cristo la chiave interpretativa di tutto « l’evento di Damasco », quell’evento che ha reso Paolo un innamorato di Cristo e un apostolo infaticabile del suo Signore.
Gli Atti degli Apostoli, con la triplice narrazione di quest’« evento » non si distaccano molto dall’interpretazione che Paolo ha dato di esso. Pur non essendo una copia conforme, l’opera lucana presenta « l’esperienza di Damasco » come un incontro di Cristo con Paolo, durante il quale l’apostolo viene investito della missione tra i gentili. La concordanza essenziale tra Gal 1,15-16 e At 26,12-18, sotto quest’aspetto, mi sembra evidente: una visione e l’investitura per una missione. È vero che, rispetto alle Lettere, l’autore degli Atti insiste soprattutto nella descrizione della visione oggettivando fortemente il dato esperienziale del « rivelare in me il suo Figlio » di Gal 1,16, ma nonostante ciò è proprio la descrizione di Atti che si mantiene ad un livello molto più prudente di quanto non fa Paolo. Egli continuamente ripete nelle sue Lettere: « io ho visto il Signore » (1Cor 9,1; 15,8-9; Gal 1,15-16), fondando così la sua posizione di apostolo delle genti (Gal 2,8-9) nella chiesa, mentre gli Atti si limitano a dire soltanto che l’apostolo fu avvolto in una grande luce e sentì la voce del Cristo che lo investiva della missione delle genti (9,3b-6; 22,6b-10; 26,13-18). Ciò è molto significativo per noi e ci induce a pensare che Luca sia rimasto molto fedele alla sua fonte storica, anche se da un punto di vista letterario ha dovuto fare le sue scelte. Gli accenni all’« evento di Damasco » nelle « lettere paoline » sono tutti occasionali, negli Atti invece fanno parte integrante di un preciso programma letterario, che ci presenta « l’evento » sotto forma di « racconto », al momento in cui esso sembra inserirsi nello sviluppo storico della Chiesa primitiva, e sotto forma di « discorso apologetico », largamente interpretato teologicamente, quando Paolo ha da rendere la sua testimonianza dinanzi ai giudei, ai re e ai gentili.
Non è questo il luogo di addentrarci in minuziose analisi, per dimostrare l’attendibilità storica dei testi. Molti autori, hanno già svolto questo lavoro con molta competenza e acume. A noi interessa qui ribadire un concetto fondamentale: la triplice narrazione dell’« evento di Damasco », fatta dagli Atti, non deve essere considerata né come l’esatta relazione cronachistica degli avvenimenti né come una pura invenzione. Luca riferisce una tradizione storicamente bene attestata dalle lettere di Paolo e la inserisce nel contesto vitale dello sviluppo della Chiesa primitiva, interpretandola e attualizzandola alla luce dei racconti veterotestamentari delle vocazioni profetiche e di quelle del servo sofferente di Jahwè.

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