Archive pour mars, 2008

Il primo giorno della vita nuova

dal sito: 

http://levangileauquotidien.org/

San Gregorio Nisseno (circa 335-395), monaco e vescovo
Omelia sulla santa e salutare Pasqua ; PG 46, 581

Il primo giorno della vita nuova

Ecco una massima saggia: « Nel tempo della prosperità si dimentica la sventura » (Sir 11,25). Oggi viene dimenticata la prima sentenza formulata contro di noi – anzi viene annullata! Questo giorno ha interamente cancellato ogni ricordo della nostra condanna. Una volta, si partoriva nel dolore; ora nasciamo senza sofferenza. Una volta eravamo carne, nascevamo dalla carne; oggi quel che nasce è spirito nato dallo Spirito. Ieri, nascevamo deboli figli degli uomini; oggi nasciamo figli di Dio. Ieri eravamo rigettati dal cielo sulla terra; oggi, colui che regna nei cieli fa di noi dei cittadini del cielo. Ieri la morte regnava a causa del peccato; oggi, grazie alla Vita, la giustizia riprende il potere.

Un tempo, uno solo ci ha aperto la porta della morte; oggi, uno solo ci riporta alla vita. Ieri, avevamo perso la vita a causa della morte; ma oggi la vita ha distrutto la morte. Ieri, la vergogna ci faceva nascondere sotto il fico; oggi la gloria ci attira verso l’albero della vita. Ieri la disobbedienza ci aveva cacciato dal Paradiso; oggi, la nostra fede ci permette di entrarvi. Inoltre, il frutto della vita ci viene offerto affinché ne godiamo a sazietà. Nuovamente la fonte del Paradiso che ci irriga con i quattro fiumi dei vangeli (cfr Gen 2,10), viene a rinfrescare l’intera faccia della Chiesa…

Cosa dobbiamo fare da questo momento, se non imitare nel loro saltare gioioso le montagne e le colline delle profezie: « I monti saltellarono come arieti, le colline come agnelli! » (Sal 113,4). « Venite, applaudiamo al Signore » (Sal 94,1). Ha spezzato la potenza del nemico e innalzato il grande trofeo della croce… Diciamo dunque: « Grande Dio è il Signore, grande Re su tutta la terra » (Sal 94,3 ; 46,3). Egli ha benedetto l’anno coronandolo con i suoi benefici (Sal 64,12), e ci raduna in un coro spirituale, in Gesù Cristo nostro Signore. A lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen!

Buona Pasqua

Buona Pasqua dans immagini sacre

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Omelia del Papa nella Messa in Coena Domini

20/03/2008, dal sito:
  http://www.zenit.org/article-13888?l=italian 

Omelia del Papa nella Messa in Coena Domini 

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 20 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI questo pomeriggio, Giovedì Santo, presiedendo nella Basilica di San Giovanni in Laterano la concelebrazione della Messa in Coena Domini 

Cari fratelli e sorelle, 

san Giovanni inizia il suo racconto sul come Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli con un linguaggio particolarmente solenne, quasi liturgico. « Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (13, 1). È arrivata l’ »ora » di Gesù, verso la quale il suo operare era diretto fin dall’inizio. Ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio (metabainein, metabasis) ed agape – amore. Le due parole si spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come « passaggio » alla gloria di Dio, come un « passare » dal mondo al Padre. Non è come se Gesù, dopo una breve visita nel mondo, ora semplicemente ripartisse e tornasse al Padre. Il passaggio è una trasformazione. Egli porta con sé la sua carne, il suo essere uomo. Sulla Croce, nel donare se stesso, Egli viene come fuso e trasformato in un nuovo modo d’essere, nel quale ora è sempre col Padre e contemporaneamente con gli uomini. Trasforma la Croce, l’atto dell’uccisione, in un atto di donazione, di amore sino alla fine. Con questa espressione « sino alla fine » Giovanni rimanda in anticipo all’ultima parola di Gesù sulla Croce: tutto è portato a termine, « è compiuto » (19, 30). Mediante il suo amore la Croce diventa metabasis, trasformazione dell’essere uomo nell’essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione Egli coinvolge tutti noi, trascinandoci dentro la forza trasformatrice del suo amore al punto che, nel nostro essere con Lui, la nostra vita diventa « passaggio », trasformazione. Così riceviamo la redenzione – l’essere partecipi dell’amore eterno, una condizione a cui tendiamo con l’intera nostra esistenza. 

Questo processo essenziale dell’ora di Gesù viene rappresentato nella lavanda dei piedi in una specie di profetico atto simbolico. In essa Gesù evidenzia con un gesto concreto proprio ciò che il grande inno cristologico della Lettera ai Filippesi descrive come il contenuto del mistero di Cristo. Gesù depone le vesti della sua gloria, si cinge col « panno » dell’umanità e si fa schiavo. Lava i piedi sporchi dei discepoli e li rende così capaci di accedere al convito divino al quale Egli li invita. Al posto delle purificazioni cultuali ed esterne, che purificano l’uomo ritualmente, lasciandolo tuttavia così com’è, subentra il bagno nuovo: Egli ci rende puri mediante la sua parola e il suo amore, mediante il dono di se stesso. « Voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato », dirà ai discepoli nel discorso sulla vite (Gv 15, 3). Sempre di nuovo ci lava con la sua parola. Sì, se accogliamo le parole di Gesù in atteggiamento di meditazione, di preghiera e di fede, esse sviluppano in noi la loro forza purificatrice. Giorno dopo giorno siamo come ricoperti di sporcizia multiforme, di parole vuote, di pregiudizi, di sapienza ridotta ed alterata; una molteplice semifalsità o falsità aperta s’infiltra continuamente nel nostro intimo. Tutto ciò offusca e contamina la nostra anima, ci minaccia con l’incapacità per la verità e per il bene. Se accogliamo le parole di Gesù col cuore attento, esse si rivelano veri lavaggi, purificazioni dell’anima, dell’uomo interiore. È, questo, ciò a cui ci invita il Vangelo della lavanda dei piedi: lasciarci sempre di nuovo lavare da quest’acqua pura, lasciarci rendere capaci della comunione conviviale con Dio e con i fratelli. Ma dal fianco di Gesù, dopo il colpo di lancia del soldato, uscì non solo acqua, bensì anche sangue (Gv 19, 34; cfr1 Gv 5, 6. 8). Gesù non ha solo parlato, non ci ha lasciato solo parole. Egli dona se stesso. Ci lava con la potenza sacra del suo sangue, cioè con il suo donarsi « sino alla fine », sino alla Croce. La sua parola è più di un semplice parlare; è carne e sangue « per la vita del mondo » (Gv 6, 51). Nei santi Sacramenti, il Signore sempre di nuovo s’inginocchia davanti ai nostri piedi e ci purifica. PreghiamoLo, affinché dal bagno sacro del suo amore veniamo sempre più profondamente penetrati e così veramente purificati! 

Se ascoltiamo il Vangelo con attenzione, possiamo scorgere nell’avvenimento della lavanda dei piedi due aspetti diversi. La lavanda che Gesù dona ai suoi discepoli è anzitutto semplicemente azione sua – il dono della purezza, della « capacità per Dio » offerto a loro. Ma il dono diventa poi un modello, il compito di fare la stessa cosa gli uni per gli altri. I Padri hanno qualificato questa duplicità di aspetti della lavanda dei piedi con le parole sacramentum ed exemplum. Sacramentum significa in questo contesto non uno dei sette sacramenti, ma il mistero di Cristo nel suo insieme, dall’incarnazione fino alla croce e alla risurrezione: questo insieme diventa la forza risanatrice e santificatrice, la forza trasformatrice per gli uomini, diventa la nostra metabasis, la nostra trasformazione in una nuova forma di essere, nell’apertura per Dio e nella comunione con Lui. Ma questo nuovo essere che Egli, senza nostro merito, semplicemente ci dà deve poi trasformarsi in noi nella dinamica di una nuova vita. L’insieme di dono ed esempio, che troviamo nella pericope della lavanda dei piedi, è caratteristico per la natura del cristianesimo in genere. Il cristianesimo, in rapporto col moralismo, è di più e una cosa diversa. All’inizio non sta il nostro fare, la nostra capacità morale. Cristianesimo è anzitutto dono: Dio si dona a noi – non dà qualcosa, ma se stesso. E questo avviene non solo all’inizio, nel momento della nostra conversione. Egli resta continuamente Colui che dona. Sempre di nuovo ci offre i suoi doni. Sempre ci precede. Per questo l’atto centrale dell’essere cristiani è l’Eucaristia: la gratitudine per essere stati gratificati, la gioia per la vita nuova che Egli ci dà. 

Con ciò, tuttavia, non restiamo destinatari passivi della bontà divina. Dio ci gratifica come partner personali e vivi. L’amore donato è la dinamica dell’ »amare insieme », vuol essere in noi vita nuova a partire da Dio. Così comprendiamo la parola che, al termine del racconto della lavanda dei piedi, Gesù dice ai suoi discepoli e a tutti noi: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri » (Gv 13, 34). Il « comandamento nuovo » non consiste in una norma nuova e difficile, che fino ad allora non esisteva. Il comandamento nuovo consiste nell’amare insieme con Colui che ci ha amati per primo. Così dobbiamo comprendere anche il Discorso della montagna. Esso non significa che Gesù abbia allora dato precetti nuovi, che rappresentavano esigenze di un umanesimo più sublime di quello precedente. Il Discorso della montagna è un cammino di allenamento nell’immedesimarsi con i sentimenti di Cristo (cfr Fil 2, 5), un cammino di purificazione interiore che ci conduce a un vivere insieme con Lui. La cosa nuova è il dono che ci introduce nella mentalità di Cristo. Se consideriamo ciò, percepiamo quanto lontani siamo spesso con la nostra vita da questa novità del Nuovo Testamento; quanto poco diamo all’umanità l’esempio dell’amare in comunione col suo amore. Così le restiamo debitori della prova di credibilità della verità cristiana, che si dimostra nell’amore. Proprio per questo vogliamo tanto maggiormente pregare il Signore di renderci, mediante la sua purificazione, maturi per il nuovo comandamento. 

Nel Vangelo della lavanda dei piedi il colloquio di Gesù con Pietro presenta ancora un altro particolare della prassi di vita cristiana, a cui vogliamo alla fine rivolgere la nostra attenzione. In un primo momento, Pietro non aveva voluto lasciarsi lavare i piedi dal Signore: questo capovolgimento dell’ordine, che cioè il maestro – Gesù – lavasse i piedi, che il padrone assumesse il servizio dello schiavo, contrastava totalmente con il suo timor riverenziale verso Gesù, con il suo concetto del rapporto tra maestro e discepolo. « Non mi laverai mai i piedi », dice a Gesù con la sua consueta passionalità (Gv 13, 8). È la stessa mentalità che, dopo la professione di fede in Gesù, Figlio di Dio, a Cesarea di Filippo, lo aveva spinto ad opporsi a Lui, quando aveva predetto la riprovazione e la croce: « Questo non ti accadrà mai! », aveva dichiarato Pietro categoricamente (Mt 16, 22). Il suo concetto di Messia comportava un’immagine di maestà, di grandezza divina. Doveva apprendere sempre di nuovo che la grandezza di Dio è diversa dalla nostra idea di grandezza; che essa consiste proprio nel discendere, nell’umiltà del servizio, nella radicalità dell’amore fino alla totale auto-spoliazione. E anche noi dobbiamo apprenderlo sempre di nuovo, perché sistematicamente desideriamo un Dio del successo e non della Passione; perché non siamo in grado di accorgerci che il Pastore viene come Agnello che si dona e così ci conduce al pascolo giusto. 

Quando il Signore dice a Pietro che senza la lavanda dei piedi egli non avrebbe potuto aver alcuna parte con Lui, Pietro subito chiede con impeto che gli siano lavati anche il capo e le mani. A ciò segue la parola misteriosa di Gesù: « Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi » (Gv 13, 10). Gesù allude a un bagno che i discepoli, secondo le prescrizioni rituali, avevano già fatto; per la partecipazione al convito occorreva ora soltanto la lavanda dei piedi. Ma naturalmente si nasconde in ciò un significato più profondo. A che cosa si allude? Non lo sappiamo con certezza. In ogni caso teniamo presente che la lavanda dei piedi, secondo il senso dell’intero capitolo, non indica un singolo specifico Sacramento, ma il sacramentum Christi nel suo insieme – il suo servizio di salvezza, la sua discesa fino alla croce, il suo amore sino alla fine, che ci purifica e ci rende capaci di Dio. Qui, con la distinzione tra bagno e lavanda dei piedi, tuttavia, si rende inoltre percepibile un’allusione alla vita nella comunità dei discepoli, alla vita nella comunità della Chiesa – un’allusione che Giovanni forse vuole consapevolmente trasmettere alle comunità del suo tempo. Allora sembra chiaro che il bagno che ci purifica definitivamente e non deve essere ripetuto è il Battesimo – l’essere immersi nella morte e risurrezione di Cristo, un fatto che cambia la nostra vita profondamente, dandoci come una nuova identità che rimane, se non la gettiamo via come fece Giuda. Ma anche nella permanenza di questa nuova identità, per la comunione conviviale con Gesù abbiamo bisogno della « lavanda dei piedi ». Di che cosa si tratta? Mi sembra che la Prima Lettera di san Giovanni ci dia la chiave per comprenderlo. Lì si legge: « Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa » (1, 8s). Abbiamo bisogno della « lavanda dei piedi », della lavanda dei peccati di ogni giorno, e per questo abbiamo bisogno della confessione dei peccati. Come ciò si sia svolto precisamente nelle comunità giovannee, non lo sappiamo. Ma la direzione indicata dalla parola di Gesù a Pietro è ovvia: per essere capaci a partecipare alla comunità conviviale con Gesù Cristo dobbiamo essere sinceri. Dobbiamo riconoscere che anche nella nostra nuova identità di battezzati pecchiamo. Abbiamo bisogno della confessione come essa ha preso forma nel Sacramento della riconciliazione. In esso il Signore lava a noi sempre di nuovo i piedi sporchi e noi possiamo sederci a tavola con Lui. 

Ma così assume un nuovo significato anche la parola, con cui il Signore allarga il sacramentum facendone l’exemplum, un dono, un servizio per il fratello: « Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri » (Gv 13, 14). Dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri nel quotidiano servizio vicendevole dell’amore. Ma dobbiamo lavarci i piedi anche nel senso che sempre di nuovo perdoniamo gli uni agli altri. Il debito che il Signore ci ha condonato è sempre infinitamente più grande di tutti i debiti che altri possono avere nei nostri confronti (cfr Mt 18, 21-35). A questo ci esorta il Giovedì Santo: non lasciare che il rancore verso l’altro diventi nel profondo un avvelenamento dell’anima. Ci esorta a purificare continuamente la nostra memoria, perdonandoci a vicenda di cuore, lavando i piedi gli uni degli altri, per poterci così recare insieme al convito di Dio. 

Il Giovedì Santo è un giorno di gratitudine e di gioia per il grande dono dell’amore sino alla fine, che il Signore ci ha fatto. Vogliamo pregare il Signore in questa ora, affinché gratitudine e gioia diventino in noi la forza di amare insieme con il suo amore. Amen. 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 22 mars, 2008 |Pas de commentaires »

Discorso del Papa al termine della Via Crucis al Colosseo

21/03/2008, dal sito:
 http://www.zenit.org/article-13896?l=italian

 

Discorso del Papa al termine della Via Crucis al Colosseo 

 

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 21 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI al termine della Via Crucis al Colosseo, tenutasi la sera del Venerdì Santo. 

* * * 

Cari fratelli e sorelle, 

anche quest’anno abbiamo ripercorso il cammino della croce, la Via Crucis rievocando con fede le tappe della Passione di Cristo. I nostri occhi hanno rivisto la sofferenze e l’angoscia che il nostro Redentore ha dovuto sopportare nell’ora del grande dolore, che ha segnato il culmine della suo missione terrena. Gesù muore in croce e giace nel sepolcro. La giornata del Venerdì Santo così impregnata di umana mestizia e di religioso silenzio si chiude nel silenzio della meditazione e della preghiera. Tornando a casa, anche noi, come coloro che assistettero al sacrificio di Gesù, ci percuotiamo il petto, ripensando a quanto è accaduto. Si può forse restare indifferenti dinanzi alla morte del Signore, del Figlio di Dio? Per noi, per la nostra salvezza si è fatto uomo, per poter soffrire e morire. 

Fratelli e sorelle, i nostri sguardi, spesso distratti da dispersivi ed effimeri interessi terreni, oggi volgiamoli verso Cristo. Fermiamoci a contemplare la sua croce. La croce, sorgente di vita, è scuola di giustizia e di pace, è patrimonio universale di perdono e di misericordia, è prova permanente di un amore oblativo e infinito che ha spinto Dio a farsi uomo vulnerabile come noi sino a morire crocifisso. Attraverso il cammino doloroso della croce gli uomini di ogni epoca, riconciliati e redenti dal sangue di Cristo, sono diventati amici di Dio, figli del Padre celeste. “Amico”, così Gesù chiama Giuda e gli rivolge l’ultimo drammatico appello alla conversione. “Amico”, chiama ognuno di noi perché è amico vero di tutti noi. 

Purtroppo, non sempre riusciamo a percepire la profondità di questo amore sconfinato che Dio nutre per noi, le sue creature. Per lui non c’è differenza di razza e cultura. Gesù Cristo è morto per affrancare l’intera umanità dall’ignoranza di Dio, dal cerchio di odio e violenza, dalla schiavitù del peccato. La croce ci rende fratelli e sorelle. Ma ci domandiamo, in questo momento: che cosa abbiamo fatto di questo dono? Che abbiamo fatto della rivelazione del volto di Dio in Cristo, della rivelazione dell’amore di Dio che vince l’odio? Tanti, anche nella nostra epoca, non conoscono Dio e non possono trovarlo nel Cristo crocifisso. Tanti sono alla ricerca di un amore o di una libertà che escluda Dio. Tanti credono di non aver bisogno di Dio. 

Cari amici, dopo aver vissuto insieme la Passione di Gesù lasciamo questa sera che il suo sacrifico sulla croce ci interpelli. Permettiamo a lui di porre in crisi le nostre umane certezze. Apriamogli il cuore. Gesù è la verità che ci rende liberi di amare. Non temiamo: morendo il Signore ha distrutto il peccato e salvato i peccatori, cioé tutti noi. Scrive l’apostolo Pietro: Gesù “portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia” (1 Pt 2, 24). Questa è la verità del Venerdì Santo: sulla croce il Redentore ci ha reso figli adottivi di Dio, che ci ha creato a sua immagine e somiglianza. Restiamo dunque in adorazione davanti alla croce. 

O cristo, donaci la pace che cerchiamo, la gioia cui aneliamo, l’amore che colmi il nostro cuore assetato di infinito. Così ti preghiamo questa sera Gesù, Figlio di Dio, morto per noi in croce e risorto il terzo giorno. Amen. 

[Dopo aver impartito la Benedizione Apostolica:] 

Una buona notte a voi tutti. Grazie per la pazienza sotto la pioggia. Buona Pasqua a tutti voi! 

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buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno amaryllis_belladonna_54a

Amaryllis belladonna « Purpurea Major »

Liliacee

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« Beato chi in lui si rifugia » (Sal 2,12)

dal sito: 

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Beato Guerrico d’Igny (circa 1080-1157), abate cistercense
Discorso 4 sui rami delle palme ; SC 202, 211

« Beato chi in lui si rifugia » (Sal 2,12)

Benedetto colui che, per permettere che io possa « stare nelle fenditure della roccia » (Ct 2,14), si è lasciato trafiggere le mani, i piedi e il costato. Benedetto colui che si è squarciato per me, perché io possa penetrare nel santuario ammirabile (Sal 41,5) e nascondermi « nel segreto della sua dimora » (Sal 26,5). Questa roccia è un rifugio…, dolce soggiorno per le colombe; i fori aperti di queste piaghe su tutto questo corpo offrono infatti il perdono ai peccatori e concedono la gioia ai giusti. È una dimora sicura, fratelli, « una torre salda davanti all’avversario » (Sal 60,4), abitare con una meditazione amorevole e costante le piaghe di Cristo nostro Signore, cercare nella fede e nell’amore verso il crocifisso un riparo sicuro per la nostra anima, un riparo contro la veemenza della carne, le tempeste di questo mondo, gli assalti del demonio. La protezione di questo santuario prevale su ogni prestigio di questo mondo…

Entra dunque in quella roccia, nasconditi…, prendi rifugio nel Crocifisso… Cos’è la piaga nel fianco di Cristo se non la porta aperta dell’arca per coloro che saranno preservati dal diluvio? Eppure l’arca di Noè era solo un simbolo; qui c’è la realtà; non si tratta più di salvare la vita mortale, bensì di ricevere l’immortalità…

È dunque proprio giusto che la colomba di Cristo, la sua bella (Ct 2,13-14)…, canti oggi le sue lodi con gioia. Dal ricordo e dall’imitazione della Passione, dalla meditazione delle sue sante piaghe, come dalle fenditure della roccia, la sua voce dolcissima si è fatta sentire agli orecchi dello Sposo (Ct 2,14).

Gesù è caricato della Croce

Gesù è caricato della Croce dans immagini sacre 15%20ANGELICO%20CARRYING%20THE%20CROSS

Angelico_Carrying the cross Olga’s Galery Christ Carrying the Cross. c.1441. Fresco, 148 x 131. Museo di San Marco, Cell 28, Florence, Italy.

http://www.artbible.net/3JC/-Luk-23,26_Way%20to%20Calavary_Chemindu%20calvaire/index.html

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Omelia di Benedetto XVI per la Santa Messa Crismale – giovedì santo

20/03/2008, dal sito:

http://www.zenit.org/article-13880?l=italian

 

Omelia di Benedetto XVI per la Santa Messa Crismale 

 

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 20 marzo 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI questo giovedì mattina, presiedendo nella Basilica di San Pietro in Vaticano la Santa Messa Crismale.   

 

Cari fratelli e sorelle, 

ogni anno la Messa del Crisma ci esorta a rientrare in quel „sì » alla chiamata di Dio, che abbiamo pronunciato nel giorno della nostra Ordinazione sacerdotale. « Adsum – eccomi! », abbiamo detto come Isaia, quando sentì la voce di Dio che domandava: « Chi manderò e chi andrà per noi? » « Eccomi, manda me! », rispose Isaia (Is 6, 8). Poi il Signore stesso, mediante le mani del Vescovo, ci impose le mani e noi ci siamo donati alla sua missione. Successivamente abbiamo percorso parecchie vie nell’ambito della sua chiamata. Possiamo noi sempre affermare ciò che Paolo, dopo anni di un servizio al Vangelo spesso faticoso e segnato da sofferenze di ogni genere, scrisse ai Corinzi: « Il nostro zelo non vien meno in quel ministero che, per la misericordia di Dio, ci è stato affidato » (cfr 2 Cor 4, 1)? « Il nostro zelo non vien meno ». Preghiamo in questo giorno, affinché esso venga sempre riacceso, affinché venga sempre nuovamente nutrito dalla fiamma viva del Vangelo. 

Allo stesso tempo, il Giovedì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto « sì »? Che cosa è questo « essere sacerdote di Gesù Cristo »? Il Canone II del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con cui, nel Libro del Deuteronomio (18, 5. 7), veniva descritta l’essenza del sacerdozio veterotestamentario: astare coram te et tibi ministrare. Sono quindi due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo « stare davanti al Signore ». Nel Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto della disposizione precedente, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori necessari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era « stare davanti al Signore » – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacerdote, così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Liturgia delle Ore che durante la quaresima introduce l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era recitato durante l’ora della veglia notturna davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti della quaresima è descritto con l’imperativo: arctius perstemus in custodia – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come « coloro che stanno in piedi »; lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza. Ciò che qui era considerato compito dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come espressione della missione sacerdotale e come giusta interpretazione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto ad incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli: essi erano « lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù » (5, 41). 

Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento – « stare davanti a te e a te servire ». Il sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere svolte. Con l’assunzione della parola « servire » nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato – conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi. Così la parola « servire » comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. « Servire il Signore » – il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida. 

Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso « servire » significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timor riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza. Il servo sta sotto la parola: « Non sia fatta la mia, ma la tua volontà! » (Lc 22, 42). Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi; che solo grazie ad una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo. Ma proprio così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini: un essere non da sé e solo per se stessi, diventa ancora più concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo. La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: « Sarai portato dove non volevi ». Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un tale essere guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore di Dio. 

« Stare davanti a Lui e servirLo »: Gesù Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità prima inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi. Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera « elevazione » dell’uomo. « Stare davanti a Lui e servirLo » – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro « sì » alla sua chiamata: « Eccomi. Manda me, Signore » (Is 6, 8). Amen.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 20 mars, 2008 |Pas de commentaires »

« Sapendo che era giunta la sua ora… Gesù li amò sino alla fine »

dal sito:

http://levangileauquotidien.org/

Santa Caterina da Siena (1347-1380), terziaria domenicana, dottore della Chiesa, compatrona d’Europa
Lettere, 129

« Sapendo che era giunta la sua ora… Gesù li amò sino alla fine »

Siate obbedienti sino alla morte, sull’esempio dell’Agnello senza macchia che obbedì al Padre suo sino alla morte vergognosa della croce. Pensate che egli è la via e la regola che dovete seguire. Tenetelo sempre presente davanti agli occhi del vostro spirito. Vedete quanto è obbediente, il Verbo, la Parola di Dio. Non rifiuta di portare il fardello delle pene di cui l’ha caricato il Padre; al contrario, si lancia, animato da un grande desiderio. Non manifesta forse questo durante la Cena del Giovedi Santo quando dice: « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione » (Lc 22,15)? Quando dice « mangiare questa pasqua » intende l’adempimento della volontà e del desiderio del Padre. Non vedendo quasi più tempo davanti a lui (si vedeva già alla fine, quando avrebbe dovuto sacrificare il suo corpo per noi), esulta, si rallegra e dice con gioia: « Ho desiderato ardentemente ». Ecco la Pasqua di cui parlava, quella che consisteva nel dare se stesso in cibo, nell’immolare il proprio corpo per obbedire al Padre.

Gesù aveva celebrato tante altre pasque con i suoi discepoli, ma questa, mai, o indicibile, dolce e ardente carità! Non pensi alle tue pene né alla morte ignominiosa; se vi avessi pensato, non saresti stato così gioioso, non l’avresti chiamata una pasqua. Il Verbo vede che è stato scelto, lui, che ha ricevuto come sposa tutta la nostra umanità. Gli è stato chiesto di dare il proprio sangue affinché la volontà del Padre si compisse in noi, affinché fosse il suo sangue a santificarci. Ecco la dolce pasqua che l’agnello senza macchia accetta, (cfr Es 12,5) e con un grande amore e un grande desiderio adempie la volontà del Padre e osserva interamente il suo disegno. Che indicibile e dolcissimo amore!…

Per questo, miei diletti, vi prego di non temere mai qualunque cosa accada e di mettere tutta la vostra fiducia nel sangue di Cristo crocifisso… Ogni timore servile sia bandito dal vostro spirito. Direte con san Paolo…: Con Cristo crocifisso, posso tutto, poiché egli è in me mediante il desiderio e l’amore, ed egli mi fortifica (cfr Fil 4,13; Gal 2,20). Amate, amate, amate! Con il suo sangue, l’agnello mite ha fatto della vostra anima una roccia incrollabile

(si avvicina la Pasqua) buona notte

(si avvicina la Pasqua) buona notte dans immagini buon...notte, giorno

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