Archive pour le 20 mars, 2008

Gesù è caricato della Croce

Gesù è caricato della Croce dans immagini sacre 15%20ANGELICO%20CARRYING%20THE%20CROSS

Angelico_Carrying the cross Olga’s Galery Christ Carrying the Cross. c.1441. Fresco, 148 x 131. Museo di San Marco, Cell 28, Florence, Italy.

http://www.artbible.net/3JC/-Luk-23,26_Way%20to%20Calavary_Chemindu%20calvaire/index.html

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Omelia di Benedetto XVI per la Santa Messa Crismale – giovedì santo

20/03/2008, dal sito:

http://www.zenit.org/article-13880?l=italian

 

Omelia di Benedetto XVI per la Santa Messa Crismale 

 

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 20 marzo 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI questo giovedì mattina, presiedendo nella Basilica di San Pietro in Vaticano la Santa Messa Crismale.   

 

Cari fratelli e sorelle, 

ogni anno la Messa del Crisma ci esorta a rientrare in quel „sì » alla chiamata di Dio, che abbiamo pronunciato nel giorno della nostra Ordinazione sacerdotale. « Adsum – eccomi! », abbiamo detto come Isaia, quando sentì la voce di Dio che domandava: « Chi manderò e chi andrà per noi? » « Eccomi, manda me! », rispose Isaia (Is 6, 8). Poi il Signore stesso, mediante le mani del Vescovo, ci impose le mani e noi ci siamo donati alla sua missione. Successivamente abbiamo percorso parecchie vie nell’ambito della sua chiamata. Possiamo noi sempre affermare ciò che Paolo, dopo anni di un servizio al Vangelo spesso faticoso e segnato da sofferenze di ogni genere, scrisse ai Corinzi: « Il nostro zelo non vien meno in quel ministero che, per la misericordia di Dio, ci è stato affidato » (cfr 2 Cor 4, 1)? « Il nostro zelo non vien meno ». Preghiamo in questo giorno, affinché esso venga sempre riacceso, affinché venga sempre nuovamente nutrito dalla fiamma viva del Vangelo. 

Allo stesso tempo, il Giovedì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto « sì »? Che cosa è questo « essere sacerdote di Gesù Cristo »? Il Canone II del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con cui, nel Libro del Deuteronomio (18, 5. 7), veniva descritta l’essenza del sacerdozio veterotestamentario: astare coram te et tibi ministrare. Sono quindi due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo « stare davanti al Signore ». Nel Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto della disposizione precedente, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori necessari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era « stare davanti al Signore » – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacerdote, così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Liturgia delle Ore che durante la quaresima introduce l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era recitato durante l’ora della veglia notturna davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti della quaresima è descritto con l’imperativo: arctius perstemus in custodia – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come « coloro che stanno in piedi »; lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza. Ciò che qui era considerato compito dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come espressione della missione sacerdotale e come giusta interpretazione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto ad incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli: essi erano « lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù » (5, 41). 

Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento – « stare davanti a te e a te servire ». Il sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere svolte. Con l’assunzione della parola « servire » nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato – conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi. Così la parola « servire » comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi, l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. « Servire il Signore » – il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida. 

Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso « servire » significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timor riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza. Il servo sta sotto la parola: « Non sia fatta la mia, ma la tua volontà! » (Lc 22, 42). Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi; che solo grazie ad una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo. Ma proprio così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini: un essere non da sé e solo per se stessi, diventa ancora più concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo. La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: « Sarai portato dove non volevi ». Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un tale essere guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore di Dio. 

« Stare davanti a Lui e servirLo »: Gesù Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità prima inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi. Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera « elevazione » dell’uomo. « Stare davanti a Lui e servirLo » – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro « sì » alla sua chiamata: « Eccomi. Manda me, Signore » (Is 6, 8). Amen.

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« Sapendo che era giunta la sua ora… Gesù li amò sino alla fine »

dal sito:

http://levangileauquotidien.org/

Santa Caterina da Siena (1347-1380), terziaria domenicana, dottore della Chiesa, compatrona d’Europa
Lettere, 129

« Sapendo che era giunta la sua ora… Gesù li amò sino alla fine »

Siate obbedienti sino alla morte, sull’esempio dell’Agnello senza macchia che obbedì al Padre suo sino alla morte vergognosa della croce. Pensate che egli è la via e la regola che dovete seguire. Tenetelo sempre presente davanti agli occhi del vostro spirito. Vedete quanto è obbediente, il Verbo, la Parola di Dio. Non rifiuta di portare il fardello delle pene di cui l’ha caricato il Padre; al contrario, si lancia, animato da un grande desiderio. Non manifesta forse questo durante la Cena del Giovedi Santo quando dice: « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione » (Lc 22,15)? Quando dice « mangiare questa pasqua » intende l’adempimento della volontà e del desiderio del Padre. Non vedendo quasi più tempo davanti a lui (si vedeva già alla fine, quando avrebbe dovuto sacrificare il suo corpo per noi), esulta, si rallegra e dice con gioia: « Ho desiderato ardentemente ». Ecco la Pasqua di cui parlava, quella che consisteva nel dare se stesso in cibo, nell’immolare il proprio corpo per obbedire al Padre.

Gesù aveva celebrato tante altre pasque con i suoi discepoli, ma questa, mai, o indicibile, dolce e ardente carità! Non pensi alle tue pene né alla morte ignominiosa; se vi avessi pensato, non saresti stato così gioioso, non l’avresti chiamata una pasqua. Il Verbo vede che è stato scelto, lui, che ha ricevuto come sposa tutta la nostra umanità. Gli è stato chiesto di dare il proprio sangue affinché la volontà del Padre si compisse in noi, affinché fosse il suo sangue a santificarci. Ecco la dolce pasqua che l’agnello senza macchia accetta, (cfr Es 12,5) e con un grande amore e un grande desiderio adempie la volontà del Padre e osserva interamente il suo disegno. Che indicibile e dolcissimo amore!…

Per questo, miei diletti, vi prego di non temere mai qualunque cosa accada e di mettere tutta la vostra fiducia nel sangue di Cristo crocifisso… Ogni timore servile sia bandito dal vostro spirito. Direte con san Paolo…: Con Cristo crocifisso, posso tutto, poiché egli è in me mediante il desiderio e l’amore, ed egli mi fortifica (cfr Fil 4,13; Gal 2,20). Amate, amate, amate! Con il suo sangue, l’agnello mite ha fatto della vostra anima una roccia incrollabile

(si avvicina la Pasqua) buona notte

(si avvicina la Pasqua) buona notte dans immagini buon...notte, giorno

http://santiebeati.it/index.html

Præconii paschalis (veglia del Sabato Santo)

IN ITALIANO 

Præconii paschalis  (Italiano) 

 

 

Esulti il coro egli angeli, esulti l’assemblea celeste: 
un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto. 

Gioisca la terra inondata da così grande splendore; 
la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo. 

Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore, 
e questo tempio tutto risuoni 
per le acclamazioni del popolo in festa. 

[(E voi, fratelli carissimi, 
qui radunati nella solare chiarezza di questa nuova luce, 
invocate con me la misericordia di Dio onnipotente. 
Egli che mi ha chiamato, senza alcun merito, 
nel numero dei suoi ministri, irradi il suo mirabile fulgore, 
perché sia piena e perfetta la lode di questo cero.)]

[Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.]

In alto i nostri cuori.
Sono rivolti al Signore.

Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.
E’ cosa buona e giusta.
 
E’ veramente cosa buona e giusta 
esprimere con il canto l’esultanza dello spirito, 
e inneggiare al Dio invisibile, Padre onnipotente, 
e al suo unico Figlio, Gesù Cristo nostro Signore. 

Egli ha pagato per noi all’eterno Padre il debito di Adamo, 
e con il sangue sparso per la nostra salvezza 
ha cancellato la condanna della colpa antica. 

Questa è la vera Pasqua, in cui è ucciso il vero Agnello, 
che con il suo sangue consacra le case dei fedeli. 

Questa è la notte in cui hai liberato i figli di Israele, nostri padri, 
dalla schiavitù dell’Egitto, 
e li hai fatti passare illesi attraverso il Mar Rosso. 

Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato 
con lo splendore della colonna di fuoco. 

Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo 
dall’oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo, 
li consacra all’amore del Padre 
e li unisce nella comunione dei santi. 

Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte, 
risorge vincitore dal sepolcro. 

(Nessun vantaggio per noi essere nati, se lui non ci avesse redenti.) 

O immensità del tuo amore per noi! O inestimabile segno di bontà: 
per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio! 

Davvero era necessario il peccato di Adamo, 
che è stato distrutto con la morte del Cristo. 
Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore! 

(O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere 
il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi. 

Di questa notte è stato scritto: la notte splenderà come il giorno, 
e sarà fonte di luce per la mia delizia.) 

Il santo mistero di questa notte sconfigge il male, 
lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori, 
la gioia agli afflitti. 

(Dissipa l’odio, piega la durezza dei potenti,  
promuove la concordia e la pace.)  


O notte veramente gloriosa, 
che ricongiunge la terra al cielo e l’uomo al suo creatore!

In questa notte di grazia accogli, Padre santo, il sacrificio di lode, 
che la Chiesa ti offre per mano dei suoi ministri, 
nella solenne liturgia del cero,  
frutto del lavoro delle api, simbolo della nuova luce.  


(Riconosciamo nella colonna dell’Esodo  
gli antichi presagi di questo lume pasquale 
che un fuoco ardente ha acceso in onore di Dio. 
Pur diviso in tante fiammelle non estingue il suo vivo splendore, 
ma si accresce nel consumarsi della cera 
che l’ape madre ha prodotto 
per alimentare questa preziosa lampada.) 

Ti preghiamo, dunque, Signore, che questo cero, 
offerto in onore del tuo nome 
per illuminare l’oscurità di questa notte, 
risplenda di luce che mai si spegne. 

Salga a te come profumo soave, 
si confonda con le stelle del cielo. 
Lo trovi acceso la stella del mattino, 
questa stella che non conosce tramonto: 
Cristo, tuo Figlio, che risuscitato dai morti 
fa risplendere sugli uomini la sua luce serena 
e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.
 

IN LATINO 

  

Præconii paschalis 

  

forma lunga 

  

Exsúltet iam angélica turba cælórum: 

exsúltent divína mystéria: 

et pro tanti Regis victória tuba ínsonet salutáris. 

  

Gáudeat et tellus tantis irradiáta fulgóribus: 

et, ætérni Regis splendóre illustráta, 

totíus orbis se séntiat amisísse calíginem. 

  

Lætétur et mater Ecclésia, 

tanti lúminis adornáta fulgóribus: 

et magnis populórum vócibus hæc aula resúltet. 

  

(Quaprópter astántes vos, fratres caríssimi, 

ad tam miram huius sancti lúminis claritátem, 

una mecum, quæso, 

Dei omnipoténtis misericórdiam invocáte. 

  

Ut, qui me non meis méritis intra 

Levitárum númerum dignátus est aggregáre, 

lúminis sui claritátem infúndens, 

cérei huius laudem implére perfíciat). 

  

(V/. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.) 

  

V/. Sursum corda. 

R/. Habémus ad Dóminum. 

  

V/. Grátias agámus Dómino Deo nostro. 

R/. Dignum et iustum est. 

  

Vere dignum et iustum est, 

invisíbilem Deum Patrem omnipoténtem 

Filiúmque eius Unigénitum, 

Dóminum nostrum Iesum Christum, 

toto cordis ac mentis afféctu et vocis ministério personáre. 

  

Qui pro nobis ætérno Patri Adæ débitum solvit, 

et véteris piáculi cautiónem pio cruóre detérsit. 

Hæc sunt enim festa paschália, 

in quibus verus ille Agnus occíditur, 

cuius sánguine postes fidélium consecrántur. 

  

Hæc nox est, in qua primum patres nostros, 

fílios Isræl edúctos de Ægypto, 

Mare Rubrum sicco vestígio transíre fecísti. 

  

Hæc ígitur nox est, 

quæ peccatórum ténebras colúmnæ illuminatióne purgávit. 

  

Hæc nox est, quæ hódie per univérsum mundum 

in Christo credéntes, a vítiis sæculi 

et calígine peccatórum segregátos, reddit grátiæ, 

sóciat sanctitáti. 

  

Hæc nox est, in qua, destrúctis vínculis mortis, 

Christus ab ínferis victor ascéndit. 

  

Nihil enim nobis nasci prófuit, nisi rédimi profuísset. 

  

O mira circa nos tuæ pietátis dignátio! 

  

O inæstimábilis diléctio caritátis: 

ut servum redímeres, Fílium tradidísti! 

  

O certe necessárium Adæ peccátum, 

quod Christi morte delétum est! O felix culpa, 

quæ talem ac tantum méruit habére Redemptórem! 

O vere beáta nox, quæ sola méruit scire tempus et horam, 

in qua Christus ab ínferis resurréxit! Hæc nox est, de qua scriptum est:  

Et nox sicut dies illuminábitur: et nox illuminátio mea in delíciis meis. 

  

Huius ígitur sanctificátio noctis fugat scélera, 

culpas lavat: et reddit innocéntiam lapsis et mæstis lætítiam. 

Fugat ódia, concórdiam parat et curvat impéria. 

  

In huius ígitur noctis grátia, súscipe, 

sancte Pater, laudis huius sacrifícium vespertínum, 

quod tibi in hac cérei oblatióne sollémni, 

per ministrórum manus de opéribus apum, 

sacrosáncta reddit Ecclésia. 

  

Sed iam colúmnæ huius præcónia nóvimus, 

quam in honórem Dei rútilans ignis accéndit. 

Qui, licet sit divísus in partes, 

mutuáti tamen lúminis detriménta non novit. 

  

Alitur enim liquántibus ceris, 

quas in substántiam pretiósæ huius lámpadis apis mater edúxit. 

O vere beáta nox, in qua terrénis cæléstia, humánis divína iungúntur! 

Orámus ergo te, Dómine, 

ut céreus iste in honórem tui nóminis consecrátus, 

ad noctis huius calíginem destruéndam, 

indefíciens persevéret. 

  

Et in odórem suavitátis accéptus, 

supérnis lumináribus misceátur. 

Flammas eius lúcifer matutínus invéniat: 

Ille, inquam, lúcifer, qui nescit occásum: 

Christus Fílius tuus, qui, regréssus ab ínferis, 

humáno géneri serénus illúxit, 

et vivit et regnat in sæcula sæculórum. 

R. Amen. 

 

 

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MONS. GIANFRANCO RAVASI: LA SANTA RADICE DI ISRAELE

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/ravasi13.htm 

 

MONS. GIANFRANCO RAVASI 

 

LA SANTA RADICE DI ISRAELE 

 

Il testo apocrifo cristiano della fine del II secolo intitolato Atti di Paolo e Tecla ci offre questo curioso e realistico ritratto di Paolo: «Era un uomo di bassa statura, la testa calva, le gambe arcuate, il corpo vigoroso, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità: a volte aveva le sembianze di un uomo, a volte l’aspetto di un angelo».
Al di là della finale un po’ “aureolata”, questo profilo rivela i tratti di un uomo dell’Oriente.
Egli, infatti, pur proclamando con orgoglio la cittadinanza romana che gli derivava dall’essere nato a Tarso, una colonia romana dell’attuale Turchia, non esitava a marcare le sue radici ebraiche.
«Sono un ebreo di Tarso in Cilicia», dichiarava al tribunale romano che gli chiedeva le generalità al momento dell’arresto a Gerusalemme (Atti 21,39).
In polemica coi suoi detrattori ebrei di Corinto rivendicava le sue origini: «Sono essi ebrei? Lo sono anch’io! Sono israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io!» (2 Corinzi 11,22).
Agli amati cristiani greci di Filippi ribadiva vigorosamente di essere «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la legge (Filippesi 3,5).
Ebbene, nella lettera ai Romani che ci ha accompagnato nelle nostre puntate durante questa Quaresima ci sono ben tre capitoli – dal 9 all’11 – dedicati proprio al popolo ebraico.
Essi si aprono con questa appassionata dichiarazione:
«Vorrei essere io stesso maledetto, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono israeliti e a loro appartengono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi.
Da essi proviene Cristo secondo la carne» (9,3-5).
Pur ribadendo che gli Ebrei come i pagani hanno bisogno di essere salvati in Cristo dal loro peccato, Paolo ne esalta la grandezza e il destino di gloria.
La Chiesa, che comprende anche i non-ebrei, deve sentirsi innestata alla “santa radice” di quell’olivo che è Israele.
L’immagine vegetale e agricola dell’olivo è usata però dall’Apostolo in modo paradossale:
l’innesto lo si compie su un albero selvatico con un pollone fruttifero:
nella storia della Chiesa è avvenuto il contrario.
Infatti sull’olivo, che è Israele, è stato innestato un oleastro che «partecipa della radice e della linfa dell’olivo», cioè i pagani convertiti al cristianesimo (11,16-24).
E anche se gli Israeliti si sono ridotti a essere rami e polloni piantati altrove, essi potranno sempre riconnettersi alla loro radice e al loro tronco sano.
Conclude, infatti, Paolo la sua parabola dell’olivo così:
«Se tu, pagano, sei stato reciso dal tuo oleastro per essere innestato — sia pure contro natura — su un olivo buono, quanto più essi (gli Ebrei) potranno essere di nuovo innestati sul proprio olivo secondo la loro natura! » (11,24). 

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Benedetto XVI invita a vivere con fede il Triduo Pasquale

19/03/2008, dal sito:

http://www.zenit.org/article-13869?l=italian

 

 Benedetto XVI invita a vivere con fede il Triduo Pasquale 

 

Intervento in occasione dell’udienza generale del mercoledì 

 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 19 marzo 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito le parole pronunciate da Benedetto XVI questo mercoledì in occasione dell’udienza generale, alla quale hanno assistito fedeli e pellegrini provenienti dall’Italia e dal mondo. 

 

Cari fratelli e sorelle, 

siamo giunti alla vigilia del Triduo Pasquale. I prossimi tre giorni vengono comunemente chiamati « santi » perché ci fanno rivivere l’evento centrale della nostra Redenzione; ci riconducono infatti al nucleo essenziale della fede cristiana: la passione, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Sono giorni che potremmo considerare come un unico giorno: essi costituiscono il cuore ed il fulcro dell’intero anno liturgico come pure della vita della Chiesa. Al termine dell’itinerario quaresimale, ci apprestiamo anche noi ad entrare nel clima stesso che Gesù visse allora a Gerusalemme. Vogliamo ridestare in noi la viva memoria delle sofferenze che il Signore ha patito per noi e prepararci a celebrare con gioia, domenica prossima, « la vera Pasqua, che il Sangue di Cristo ha coperto di gloria, la Pasqua in cui la Chiesa celebra la Festa che è l’origine di tutte le feste », come dice il Prefazio per il giorno di Pasqua nel rito ambrosiano. 

Domani, Giovedì Santo, la Chiesa fa memoria dell’Ultima Cena durante la quale il Signore, la vigilia della sua passione e morte, ha istituito il Sacramento dell’Eucaristia e quello del Sacerdozio ministeriale. In quella stessa notte Gesù ci ha lasciato il comandamento nuovo, « mandatum novum« , il comandamento dell’amore fraterno. Prima di entrare nel Triduo Santo, ma già in stretto collegamento con esso, avrà luogo in ogni Comunità diocesana, domani mattina, la Messa Crismale, durante la quale il Vescovo e i sacerdoti del presbiterio diocesano rinnovano le promesse dell’Ordinazione. Vengono anche benedetti gli olii per la celebrazione dei Sacramenti: l’olio dei catecumeni, l’olio dei malati e il sacro crisma. E’ un momento quanto mai importante per la vita di ogni comunità diocesana che, raccolta attorno al suo Pastore, rinsalda la propria unità e la propria fedeltà a Cristo, unico Sommo ed Eterno Sacerdote. Alla sera, nella Messa in Cena Domini si fa memoria dell’Ultima Cena quando Cristo si è dato a tutti noi come nutrimento di salvezza, come farmaco di immortalità: è il mistero dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. In questo Sacramento di salvezza il Signore ha offerto e realizzato per tutti coloro che credono in Lui la più intima unione possibile tra la nostra e la sua vita. Col gesto umile e quanto mai espressivo della lavanda dei piedi, siamo invitati a ricordare quanto il Signore fece ai suoi Apostoli: lavando i loro piedi proclamò in maniera concreta il primato dell’amore, amore che si fa servizio fino al dono di se stessi, anticipando anche così il sacrificio supremo della sua vita che si consumerà il giorno dopo sul Calvario. Secondo una bella tradizione, i fedeli chiudono il Giovedì Santo con una veglia di preghiera e di adorazione eucaristica per rivivere più intimamente l’agonia di Gesù al Getsemani. 

Il Venerdì Santo è la giornata che fa memoria della passione, crocifissione e morte di Gesù. In questo giorno la liturgia della Chiesa non prevede la celebrazione della Santa Messa, ma l’assemblea cristiana si raccoglie per meditare sul grande mistero del male e del peccato che opprimono l’umanità, per ripercorrere, alla luce della Parola di Dio e aiutata da commoventi gesti liturgici, le sofferenze del Signore che espiano questo male. Dopo aver ascoltato il racconto della passione di Cristo, la comunità prega per tutte le necessità della Chiesa e del mondo, adora la Croce e si accosta all’Eucaristia, consumando le specie conservate dalla Messa in Cena Domini del giorno precedente. Come ulteriore invito a meditare sulla passione e morte del Redentore e per esprimere l’amore e la partecipazione dei fedeli alle sofferenze di Cristo, la tradizione cristiana ha dato vita a varie manifestazioni di pietà popolare, processioni e sacre rappresentazioni, che mirano ad imprimere sempre più profondamente nell’animo dei fedeli sentimenti di vera partecipazione al sacrificio redentivo di Cristo. Fra queste spicca la Via Crucis, pio esercizio che nel corso degli anni si è arricchito di molteplici espressioni spirituali ed artistiche legate alla sensibilità delle diverse culture. Sono così sorti in molti Paesi santuari con il nome di « Calvaria », ai quali si giunge attraverso un’erta salita che richiama il cammino doloroso della Passione, consentendo ai fedeli di partecipare all’ascesa del Signore verso il Monte della Croce, il Monte dell’Amore spinto fino alla fine. 

Il Sabato Santo è segnato da un profondo silenzio. Le Chiese sono spoglie e non sono previste particolari liturgie. Mentre attendono il grande evento della Risurrezione, i credenti perseverano con Maria nell’attesa pregando e meditando. C’è bisogno in effetti di un giorno di silenzio, per meditare sulla realtà della vita umana, sulle forze del male e sulla grande forza del bene scaturita dalla Passione e dalla Risurrezione del Signore. Grande importanza viene data in questo giorno alla partecipazione al Sacramento della riconciliazione, indispensabile via per purificare il cuore e predisporsi a celebrare intimamente rinnovati la Pasqua. Almeno una volta all’anno abbiamo bisogno di questa purificazione interiore di questo rinnovamento di noi stessi. Questo Sabato di silenzio, di meditazione, di perdono, di riconciliazione sfocia nella Veglia Pasquale, che introduce la domenica più importante della storia, la domenica della Pasqua di Cristo. Veglia la Chiesa accanto al nuovo fuoco benedetto e medita la grande promessa, contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento, della liberazione definitiva dall’antica schiavitù del peccato e della morte. Nel buio della notte viene acceso dal fuoco nuovo il cero pasquale, simbolo di Cristo che risorge glorioso. Cristo luce dell’umanità disperde le tenebre del cuore e dello spirito ed illumina ogni uomo che viene nel mondo. Accanto al cero pasquale risuona nella Chiesa il grande annuncio pasquale: Cristo è veramente risorto, la morte non ha più alcun potere su di Lui. Con la sua morte Egli ha sconfitto il male per sempre ed ha fatto dono a tutti gli uomini della vita stessa di Dio. Per antica tradizione, durante la Veglia Pasquale, i catecumeni ricevono il Battesimo, per sottolineare la partecipazione dei cristiani al mistero della morte e della risurrezione di Cristo. Dalla splendente notte di Pasqua, la gioia, la luce e la pace di Cristo si espandono nella vita dei fedeli di ogni comunità cristiana e raggiungono ogni punto dello spazio e del tempo. 

Cari fratelli e sorelle, in questi giorni singolari orientiamo decisamente la vita verso un’adesione generosa e convinta ai disegni del Padre celeste; rinnoviamo il nostro « sì » alla volontà divina come ha fatto Gesù con il sacrificio della croce. I suggestivi riti del Giovedì Santo, del Venerdì Santo, il silenzio ricco di preghiera del Sabato Santo e la solenne Veglia Pasquale ci offrono l’opportunità di approfondire il senso e il valore della nostra vocazione cristiana, che scaturisce dal Mistero Pasquale e di concretizzarla nella fedele sequela di Cristo in ogni circostanza, come ha fatto Lui, sino al dono generoso della nostra esistenza. 

Far memoria dei misteri di Cristo significa anche vivere in profonda e solidale adesione all’oggi della storia, convinti che quanto celebriamo è realtà viva ed attuale. Portiamo dunque nella nostra preghiera la drammaticità di fatti e situazioni che in questi giorni affliggono tanti nostri fratelli in ogni parte del mondo. Noi sappiamo che l’odio, le divisioni, le violenze non hanno mai l’ultima parola negli eventi della storia. Questi giorni rianimano in noi la grande speranza: Cristo crocifisso è risorto e ha vinto il mondo. L’amore è più forte dell’odio, ha vinto e dobbiamo associarci a questa vittoria dell’amore. Dobbiamo quindi ripartire da Cristo e lavorare in comunione con Lui per un mondo fondato sulla pace, sulla giustizia e sull’amore. In quest’impegno, che tutti ci coinvolge, lasciamoci guidare da Maria, che ha accompagnato il Figlio divino sulla via della passione e della croce e ha partecipato, con la forza della fede, all’attuarsi del suo disegno salvifico. Con questi sentimenti, formulo fin d’ora i più cordiali auguri di lieta e santa Pasqua a tutti voi, ai vostri cari e alle vostre Comunità. 

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:] 

Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. Auguro a ciascuno di vivere con intensa partecipazione il Triduo Pasquale, per celebrare con più salda fede il mistero della morte e risurrezione di Cristo. 

Il mio pensiero va ora ai giovani, ai malati e agli sposi novelli, ai quali formulo uno speciale augurio pasquale. A voi, cari giovani, auguro di non avere paura a seguire Cristo, anche quando vi invita a percorrere con lui la via difficile della croce. A voi, cari malati, la meditazione della Passione di Gesù, mistero di sofferenza trasfigurata dall’amore, rechi conforto e consolazione. E in voi, cari sposi novelli, la morte e la risurrezione del Signore rinnovi la gioia e l’impegno del vostro patto nuziale. 

Seguo con grande trepidazione le notizie, che in questi giorni giungono dal Tibet. Il mio cuore di Padre sente tristezza e dolore di fronte alla sofferenza di tante persone. Il mistero della passione e morte di Gesù, che riviviamo in questa Settimana Santa, ci aiuta ad essere particolarmente sensibili alla loro situazione. 

Con la violenza non si risolvono i problemi, ma solo si aggravano. Vi invito ad unirvi a me nella preghiera. Chiediamo a Dio onnipotente, fonte di luce, che illumini le menti di tutti e dia a ciascuno il coraggio di scegliere la via del dialogo e della tolleranza. 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 20 mars, 2008 |Pas de commentaires »

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