Dante a settecento anni dal viaggio della “Commedia” II parte
II PARTE, AVEVO POSTATO LA PRIMA PARTE IL 29 FEBBRAIO POI MI SONO SCORDATA DI POSTARE LA SECONDA, SCUSATE, LA METTO ORA, PRIMA PARTE ALLA PAG:
http://incamminoverso.unblog.fr/tag/letteratura/
dal sito:
http://www.santamelania.it/approf/sacchi/dante1.htm
Dante a settecento anni dal viaggio della “Commedia”
IN VIAGGIO VERSO DIO, di Carlo Maria Martini
La Repubblica, sabato 9 settembre 2000, pp. 1 e 50-51
Grazia e missione E tu figliuol, che per lo mortal pondo Ma l’accettazione era già avvenuta nell’incontro con Cacciaguida che, con paterna sollecitudine, lo aveva indotto a vedere con occhi nuovi le circostanze della sua vita, e ad affrontare l’esilio non come pietra d’inciampo, ma come occasione privilegiata per il realizzarsi del disegno divino su di lui. Ogni cammino cristiano è un prendere la croce per seguire Cristo; il sacrificio del suo troppo parziale progetto di felicità è per Dante in funzione di un radicale “fare la verità” possibile soltanto nella piena obbedienza a Dio, con l’umiltà del peccatore perdonato e la gratitudine di un “figlio della grazia”.
Soprattutto lo sguardo rivolto dal paradiso alle vicende umane non può essere sguardo che estrania, che sottrae alla solidarietà; il mondo resta l’aiuola che ci fa tanto feroci. La tragica vicenda terrena segnata dall’odio e dalla violenza è come placata nell’immagine dell’aiuola, ma il pronome ci riconsegna il pellegrino Dante – che pur si è liberato dai “difettivi silogismi” che fanno “in basso batter l’ali” – coinvolto nel destino dell’intera comunità umana. Il paradosso centrale della fede, il mistero dell’Incarnazione, è principio di ogni paradiso. Come testimonia anche la grande intuizione di Dostoevskij: il paradiso si realizza “oggi” se ci si rende responsabili “di tutto e per tutti” e si chiede perdono “di tutto e per tutti”, accettando con umile disponibilità il comune cammino di espiazione. L’itinerario in Deum è anche – sempre – momento di conversione; come per Dante, anche per ogni cristiano il desiderio dell’eterna beatitudine è insieme motivo per cui piangere spesso il proprio peccato percuotendosi il petto, nell’umile, e profondamente vera, convinzione che non esistono peccati soltanto “di altri”.
In particolare per chi ha maggiormente ricevuto. Ogni dono di Dio è grazia e missione insieme. Quella di Dante riceve il sigillo papale da San Pietro stesso che, di fronte al tralignare delle più alte autorità e alla conseguente degenerazione della cristianità, prospetta tutta l’urgenza del servizio alla verità per una nuova “rievangelizzazione”:
ancor giù tornerai, apri la bocca
e non asconder quel ch’io non ascondo
(XXVII 64-66)
La dilatazione dell’itinerario attraverso cieli “sensibili” permette al poeta di tracciare, nel dramma dell’eterna lotta tra bene e male, le grandi strade della santità, mostrando tutta la bellezza di una vita umana perfettamente riuscita proprio perchè pienamente cristiana. E’ la storia degli apostoli, innanzitutto, e poi di Francesco, perdutamente innamorato di colei che “con Cristo pianse in su la croce” (XI 72); di Domenico, interamente consacrato alla diffusione e alla difesa della fede; di San Pier Damiani che sopporta sereno ogni disagio “contento né pensier contemplativi” (XXI 117); di Benedetto che, a imitazione degli apostoli, inizia la sua opera “con orazione e con digiuno” (XXII 89); di Bernardo che già in questo mondo contemplando gustò la pace del cielo… E, soprattutto, la storia di Maria, la Vergine Madre che ha richiuso la piaga aperta da Eva e ora rifulge al vertice di ogni umana perfezione, specchio fedele del volto di Cristo: “Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più si somiglia” (XXXII 85 -86). In Maria, “umile e alta più che creatura”, la natura umana raggiunge il culmine della perfezione permettendo al creatore di prendere carne in lei, diventando sua creatura. L’umile fanciulla ebrea, totalmente disponibile alla grazia, manifesta ora in pienezza quanto Dio riesca a innalzare e glorificare un cuore docile:
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate
(XXXIII 19-21)
Beatitudine e carità
Nel progredire del suo cammino Dante fa continuamente esperienza di come la carità sia la manifestazione più chiara e visibile della beatitudine: i santi che si chinano con affettuosa comprensione all’ascolto del pellegrino, o ne prevengono le richieste leggendole in Dio, mostrano sempre un accrescimento di gioia che si traduce in bagliori di luce, danze, indicibili armonie, mostrando così tutta la loro conformità con la “divina voglia” che è amore senza confini. La lezione più alta verrà da Bernardo nel momento decisivo quando, rivolgendosi alla mediatrice di ogni grazia con un fervore di carità che coinvolge tutti i cittadini della candida rosa, chiederà per Dante la grazia di alzare gli occhi al “sommo piacer” con l’intensità di una preghiera che non potrebbe essere più ardente nemmeno se fosse in gioco la propria “ultima salute”.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi
(XXXIII 28-30)
Desiderare per gli altri, con la stessa intensità, quanto desideriamo per noi stessi, quasi immedesimandoci: questa è carità, e questo è “paradiso”. Mentre in terra l’invidia fa sì che la partecipazione di un maggior numero allo stesso bene renda minore la pienezza di ciascuno, in paradiso amore e beatitudine si dilatano con l’accrescersi del numero dei beati. Per giungere a questo occorre unificare, ricondurre all’Uno, le diverse tendenze della nostra anima, gli “infiniti stranieri” in noi, facendo della nostra vita una casa accogliente in cui possano convivere, in pace, intelligenza e affettività, presente e futuro, desiderio del piacere e attesa della beatitudine. Soltanto delle persone “unificate” potranno ricostruire una società non fondata sulla prepotenza dell’uno sugli altri, ma sull’accoglienza e la valorizzazione di ciascuno come portatore di un dono unico, indispensabile alla pienezza della gioia di tutti. Paradiso, allora, è pace, ma non immobilismo. Perchè l’amore si alimenta continuamente, ma anche perchè la chiesa della candida rosa ama, prega e spera per noi, partecipa alla nostra storia, come aveva intuito, nella sua semplicità e profondità, Santa Teresa di Lisieux: “Passerò il mio cielo a fare del bene sulla terra”.
Beatrice
Accompagna il viaggiatore dell’assoluto in quest’ultima parte dell’umano-divino itinerario -che è viaggio compiuto anche col corpo, a ribadire la novità del mistero dell’Incarnazione che innalza l’uomo, con la sua carne e la sua storicità, nell’eterna realtà di Dio – la donna della sua giovinezza. E Beatrice lo invita a rivolgere a lei il suo sguardo proprio per essergli guida nel mondo del divino. Ciò che conduce l’uomo a Dio è sempre un’esperienza affettiva particolarmente intensa, e Beatrice è per Dante quello spazio umano in cui Dio si è fatto presente, quasi sensibile. L’incontro con l’ineffabile non comporta il dissolversi dell’io e dei suoi rapporti; nessun affetto umano è cancellato se in esso Dio non era assente. L’amore che l’uomo riversa sulla propria donna, sui figli, sugli amici, su tutto il suo prossimo, acquista senso e valore definitivi se la donna, i figli, gli amici e il prossimo sono amati in Dio. Il legame affettivo anzichè sminuirsi è riscattato da ogni egoismo e dilatato fino a comprendere anch’esso “e cielo e terra”.
Il “ritorno” a Beatrice permette a Dante di fondere l’ardore della ricerca intellettuale con il calore dell’umana esperienza, trasformando in un canto di lode alla Bellezza il suo desiderio di verità e di giustizia. Non si tratta di qualcosa a margine o eccedente la missione ricevuta; il “sacrato poema” è esso stesso segno dell’ordine di Dio nel mondo e appello agli uomini a non “torcer li piedi” dal Vero che appaga ogni intelletto, che è pure “somma beninanza” e bellezza senza pari.
Oggi
Il cammino e la parola del poeta-profeta sono sempre per l’oggi; l’ascesa di Dante al sommo Bene è anche in funzione del nostro “santo viaggio”. Sempre attuale e urgente risulta l’appello alla renovatio rivolto anzitutto alla chiesa e che si configura come un ritorno alla vita “apostolica”, caratterizzata essenzialmente dal primato della parola evangelica – che ha come conseguenza una totale disponibilità nei suoi confronti, fino al dono della vita -, da un forte recupero della “dimensione contemplativa” e dalla gioiosa accettazione della povertà per il regno, liberi da rimpianti e da paralizzanti sensi di colpa, e riconoscenti nei confronti di Dio che può sempre trasformare in amore vero anche i nostri troppo umani desideri.
La missione profetica e “teologica” è affidata a ogni cristiano. E se l’essere profeti esige il coraggio della “parresia”, non bisogna tuttavia dimenticare che la verità da riproporre al mondo e alla chiesa deve essere anzitutto “contemplata” in Dio. E questo è di vitale importanza per una teologia, e anche per una filosofia, che dovranno unire la passione della ricerca con il gusto della bellezza e la capacità di riconoscere i propri limiti, sottraendo la ragione a un uso distorto che mortifica il mistero ma mortifica anche la ragione stessa.
L’ideale della convivenza civile, poi, risulta chiaramente e sinteticamente indicato dalla triplice connotazione della Firenze antica: in pace, sobria e pudica. Dove sobrietà e pudore sembrano essere condizioni indispensabili alla pace e investono anche la coscienza di sè e del proprio potere, la relatività delle proprie opinioni e il bisogno dell’altro per la realizzazione del bene comune.
Per ciascuno resta soprattutto il senso della corresponsabilità, il “mai senza l’altro”, la capacità di sentire come proprio il male del mondo e di unificare l’esistenza affinchè le nostre passioni e i nostri affetti diventino capaci di costruire rapporti “ecclesiali”, di tenerci uniti come convocati da Dio, per incamminarci verso di lui e essere con lui, “oggi”, in paradiso.

Vous pouvez laisser une réponse.
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.