Boetius

II PARTE, AVEVO POSTATO LA PRIMA PARTE IL 29 FEBBRAIO POI MI SONO SCORDATA DI POSTARE LA SECONDA, SCUSATE, LA METTO ORA, PRIMA PARTE ALLA PAG:
http://incamminoverso.unblog.fr/tag/letteratura/
dal sito:
http://www.santamelania.it/approf/sacchi/dante1.htm
Dante a settecento anni dal viaggio della “Commedia”
IN VIAGGIO VERSO DIO, di Carlo Maria Martini
La Repubblica, sabato 9 settembre 2000, pp. 1 e 50-51
Grazia e missione E tu figliuol, che per lo mortal pondo Ma l’accettazione era già avvenuta nell’incontro con Cacciaguida che, con paterna sollecitudine, lo aveva indotto a vedere con occhi nuovi le circostanze della sua vita, e ad affrontare l’esilio non come pietra d’inciampo, ma come occasione privilegiata per il realizzarsi del disegno divino su di lui. Ogni cammino cristiano è un prendere la croce per seguire Cristo; il sacrificio del suo troppo parziale progetto di felicità è per Dante in funzione di un radicale “fare la verità” possibile soltanto nella piena obbedienza a Dio, con l’umiltà del peccatore perdonato e la gratitudine di un “figlio della grazia”.
Soprattutto lo sguardo rivolto dal paradiso alle vicende umane non può essere sguardo che estrania, che sottrae alla solidarietà; il mondo resta l’aiuola che ci fa tanto feroci. La tragica vicenda terrena segnata dall’odio e dalla violenza è come placata nell’immagine dell’aiuola, ma il pronome ci riconsegna il pellegrino Dante – che pur si è liberato dai “difettivi silogismi” che fanno “in basso batter l’ali” – coinvolto nel destino dell’intera comunità umana. Il paradosso centrale della fede, il mistero dell’Incarnazione, è principio di ogni paradiso. Come testimonia anche la grande intuizione di Dostoevskij: il paradiso si realizza “oggi” se ci si rende responsabili “di tutto e per tutti” e si chiede perdono “di tutto e per tutti”, accettando con umile disponibilità il comune cammino di espiazione. L’itinerario in Deum è anche – sempre – momento di conversione; come per Dante, anche per ogni cristiano il desiderio dell’eterna beatitudine è insieme motivo per cui piangere spesso il proprio peccato percuotendosi il petto, nell’umile, e profondamente vera, convinzione che non esistono peccati soltanto “di altri”.
In particolare per chi ha maggiormente ricevuto. Ogni dono di Dio è grazia e missione insieme. Quella di Dante riceve il sigillo papale da San Pietro stesso che, di fronte al tralignare delle più alte autorità e alla conseguente degenerazione della cristianità, prospetta tutta l’urgenza del servizio alla verità per una nuova “rievangelizzazione”:
ancor giù tornerai, apri la bocca
e non asconder quel ch’io non ascondo
(XXVII 64-66)
La dilatazione dell’itinerario attraverso cieli “sensibili” permette al poeta di tracciare, nel dramma dell’eterna lotta tra bene e male, le grandi strade della santità, mostrando tutta la bellezza di una vita umana perfettamente riuscita proprio perchè pienamente cristiana. E’ la storia degli apostoli, innanzitutto, e poi di Francesco, perdutamente innamorato di colei che “con Cristo pianse in su la croce” (XI 72); di Domenico, interamente consacrato alla diffusione e alla difesa della fede; di San Pier Damiani che sopporta sereno ogni disagio “contento né pensier contemplativi” (XXI 117); di Benedetto che, a imitazione degli apostoli, inizia la sua opera “con orazione e con digiuno” (XXII 89); di Bernardo che già in questo mondo contemplando gustò la pace del cielo… E, soprattutto, la storia di Maria, la Vergine Madre che ha richiuso la piaga aperta da Eva e ora rifulge al vertice di ogni umana perfezione, specchio fedele del volto di Cristo: “Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più si somiglia” (XXXII 85 -86). In Maria, “umile e alta più che creatura”, la natura umana raggiunge il culmine della perfezione permettendo al creatore di prendere carne in lei, diventando sua creatura. L’umile fanciulla ebrea, totalmente disponibile alla grazia, manifesta ora in pienezza quanto Dio riesca a innalzare e glorificare un cuore docile:
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate
(XXXIII 19-21)
Beatitudine e carità
Nel progredire del suo cammino Dante fa continuamente esperienza di come la carità sia la manifestazione più chiara e visibile della beatitudine: i santi che si chinano con affettuosa comprensione all’ascolto del pellegrino, o ne prevengono le richieste leggendole in Dio, mostrano sempre un accrescimento di gioia che si traduce in bagliori di luce, danze, indicibili armonie, mostrando così tutta la loro conformità con la “divina voglia” che è amore senza confini. La lezione più alta verrà da Bernardo nel momento decisivo quando, rivolgendosi alla mediatrice di ogni grazia con un fervore di carità che coinvolge tutti i cittadini della candida rosa, chiederà per Dante la grazia di alzare gli occhi al “sommo piacer” con l’intensità di una preghiera che non potrebbe essere più ardente nemmeno se fosse in gioco la propria “ultima salute”.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi
(XXXIII 28-30)
Desiderare per gli altri, con la stessa intensità, quanto desideriamo per noi stessi, quasi immedesimandoci: questa è carità, e questo è “paradiso”. Mentre in terra l’invidia fa sì che la partecipazione di un maggior numero allo stesso bene renda minore la pienezza di ciascuno, in paradiso amore e beatitudine si dilatano con l’accrescersi del numero dei beati. Per giungere a questo occorre unificare, ricondurre all’Uno, le diverse tendenze della nostra anima, gli “infiniti stranieri” in noi, facendo della nostra vita una casa accogliente in cui possano convivere, in pace, intelligenza e affettività, presente e futuro, desiderio del piacere e attesa della beatitudine. Soltanto delle persone “unificate” potranno ricostruire una società non fondata sulla prepotenza dell’uno sugli altri, ma sull’accoglienza e la valorizzazione di ciascuno come portatore di un dono unico, indispensabile alla pienezza della gioia di tutti. Paradiso, allora, è pace, ma non immobilismo. Perchè l’amore si alimenta continuamente, ma anche perchè la chiesa della candida rosa ama, prega e spera per noi, partecipa alla nostra storia, come aveva intuito, nella sua semplicità e profondità, Santa Teresa di Lisieux: “Passerò il mio cielo a fare del bene sulla terra”.
Beatrice
Accompagna il viaggiatore dell’assoluto in quest’ultima parte dell’umano-divino itinerario -che è viaggio compiuto anche col corpo, a ribadire la novità del mistero dell’Incarnazione che innalza l’uomo, con la sua carne e la sua storicità, nell’eterna realtà di Dio – la donna della sua giovinezza. E Beatrice lo invita a rivolgere a lei il suo sguardo proprio per essergli guida nel mondo del divino. Ciò che conduce l’uomo a Dio è sempre un’esperienza affettiva particolarmente intensa, e Beatrice è per Dante quello spazio umano in cui Dio si è fatto presente, quasi sensibile. L’incontro con l’ineffabile non comporta il dissolversi dell’io e dei suoi rapporti; nessun affetto umano è cancellato se in esso Dio non era assente. L’amore che l’uomo riversa sulla propria donna, sui figli, sugli amici, su tutto il suo prossimo, acquista senso e valore definitivi se la donna, i figli, gli amici e il prossimo sono amati in Dio. Il legame affettivo anzichè sminuirsi è riscattato da ogni egoismo e dilatato fino a comprendere anch’esso “e cielo e terra”.
Il “ritorno” a Beatrice permette a Dante di fondere l’ardore della ricerca intellettuale con il calore dell’umana esperienza, trasformando in un canto di lode alla Bellezza il suo desiderio di verità e di giustizia. Non si tratta di qualcosa a margine o eccedente la missione ricevuta; il “sacrato poema” è esso stesso segno dell’ordine di Dio nel mondo e appello agli uomini a non “torcer li piedi” dal Vero che appaga ogni intelletto, che è pure “somma beninanza” e bellezza senza pari.
Oggi
Il cammino e la parola del poeta-profeta sono sempre per l’oggi; l’ascesa di Dante al sommo Bene è anche in funzione del nostro “santo viaggio”. Sempre attuale e urgente risulta l’appello alla renovatio rivolto anzitutto alla chiesa e che si configura come un ritorno alla vita “apostolica”, caratterizzata essenzialmente dal primato della parola evangelica – che ha come conseguenza una totale disponibilità nei suoi confronti, fino al dono della vita -, da un forte recupero della “dimensione contemplativa” e dalla gioiosa accettazione della povertà per il regno, liberi da rimpianti e da paralizzanti sensi di colpa, e riconoscenti nei confronti di Dio che può sempre trasformare in amore vero anche i nostri troppo umani desideri.
La missione profetica e “teologica” è affidata a ogni cristiano. E se l’essere profeti esige il coraggio della “parresia”, non bisogna tuttavia dimenticare che la verità da riproporre al mondo e alla chiesa deve essere anzitutto “contemplata” in Dio. E questo è di vitale importanza per una teologia, e anche per una filosofia, che dovranno unire la passione della ricerca con il gusto della bellezza e la capacità di riconoscere i propri limiti, sottraendo la ragione a un uso distorto che mortifica il mistero ma mortifica anche la ragione stessa.
L’ideale della convivenza civile, poi, risulta chiaramente e sinteticamente indicato dalla triplice connotazione della Firenze antica: in pace, sobria e pudica. Dove sobrietà e pudore sembrano essere condizioni indispensabili alla pace e investono anche la coscienza di sè e del proprio potere, la relatività delle proprie opinioni e il bisogno dell’altro per la realizzazione del bene comune.
Per ciascuno resta soprattutto il senso della corresponsabilità, il “mai senza l’altro”, la capacità di sentire come proprio il male del mondo e di unificare l’esistenza affinchè le nostre passioni e i nostri affetti diventino capaci di costruire rapporti “ecclesiali”, di tenerci uniti come convocati da Dio, per incamminarci verso di lui e essere con lui, “oggi”, in paradiso.
12/03/2008, dal sito:
http://www.zenit.org/article-13791?l=italian
Benedetto XVI presenta le figure di Boezio e Cassiodoro
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 12 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole di saluto e il discorso pronunciati questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale, tenutasi prima nella Basilica vaticana e poi nell’Aula Paolo VI, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato su due grandi figure cristiane dell’Alto Medioevo, Boezio e Cassiodoro.
Cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di accogliervi in questa Basilica e rivolgo il mio cordiale benvenuto a questa festosa vostra assemblea, composta prevalentemente da giovani studenti. Saluto in particolare i rappresentanti dei Gruppi Folkloristici del Friuli-Venezia Giulia, gli studenti della città di Paola e gli alunni di vari Istituti scolastici provenienti da diverse Regioni d’Italia. Cari amici, la scuola oggi affronta notevoli sfide che emergono nel campo dell’educazione delle nuove generazioni. Per questo motivo la scuola non può essere soltanto luogo di apprendimento nozionistico, ma è chiamata ad offrire agli alunni l’opportunità di approfondire validi messaggi di carattere culturale, sociale, etico e religioso. Chi insegna non può non percepire anche il risvolto morale di ogni umano sapere, perché l’uomo conosce per agire e l’agire è frutto della sua conoscenza. Nell’odierna società, segnata da rapidi e profondi mutamenti voi, cari giovani che volete seguire Cristo, abbiate cura di aggiornare la vostra formazione spirituale, cercando di comprendere sempre più i contenuti della fede. Potrete così essere pronti a rispondere senza esitazioni a chi vi domanda ragione della vostra adesione al Signore. Con tali voti invoco su ciascuno di voi l’abbondanza dei doni dello Spirito e vi auguro di prepararvi bene alle prossime Feste pasquali.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di due scrittori ecclesiastici, Boezio e Cassiodoro, che vissero in anni tra i più tribolati dell’Occidente cristiano e, in particolare, della penisola italiana. Odoacre, re degli Eruli, un’etnia germanica, si era ribellato, ponendo termine all’impero romano d’Occidente (a. 476), ma aveva poi ben presto dovuto soccombere agli Ostrogoti di Teodorico, che per alcuni decenni si assicurarono il controllo della penisola italiana. Boezio, nato a Roma nel 480 circa dalla nobile stirpe degli Anicii, entrò ancor giovane nella vita pubblica, raggiungendo già a venticinque anni la carica di senatore. Fedele alla tradizione della sua famiglia, si impegnò in politica convinto che si potessero temperare insieme le linee portanti della società romana con i valori dei popoli nuovi. E in questo nuovo tempo dell’incontro delle culture considerò come sua propria missione quella di riconciliare e di mettere insieme queste due culture, la classica romana con la nascente del popolo ostrogoto. Fu così attivo in politica anche sotto Teodorico, che nei primi tempi lo stimava molto. Nonostante questa attività pubblica, Boezio non trascurò gli studi, dedicandosi in particolare all’approfondimento di temi di ordine filosofico-religioso. Ma scrisse anche manuali di aritmetica, di geometria, di musica, di astronomia: tutto con l’intenzione di trasmettere alle nuove generazioni, ai nuovi tempi, la grande cultura greco-romana. In questo ambito, cioè nell’impegno di promuovere l’incontro delle culture, utilizzò le categorie della filosofia greca per proporre la fede cristiana, anche qui in ricerca di una sintesi fra il patrimonio ellenistico-romano e il messaggio evangelico. Proprio per questo, Boezio è stato qualificato come l’ultimo rappresentante della cultura romana antica e il primo degli intellettuali medievali.
La sua opera certamente più nota è il De consolatione philosophiae, che egli compose in carcere per dare un senso alla sua ingiusta detenzione. Era stato infatti accusato di complotto contro il re Teodorico per aver assunto la difesa in giudizio di un amico, il senatore Albino. Ma questo era un pretesto: in realtà Teodorico, ariano e barbaro, sospettava che Boezio avesse simpatie per l’imperatore bizantino Giustiniano. Di fatto, processato e condannato a morte, fu giustiziato il 23 ottobre del 524, a soli 44 anni. Proprio per questa sua drammatica fine, egli può parlare dall’interno della propria esperienza anche all’uomo contemporaneo e soprattutto alle tantissime persone che subiscono la sua stessa sorte a causa dell’ingiustizia presente in tanta parte della ‘giustizia umana’. In quest’opera, nel carcere cerca la consolazione, cerca la luce, cerca la saggezza. E dice di aver saputo distinguere, proprio in questa situazione, tra i beni apparenti – nel carcere essi scompaiono – e i beni veri, come come l’autentica amicizia che anche nel carcere non scompaiono. Il bene più alto è Dio: Boezio imparò – e lo insegna a noi – a non cadere nel fatalismo, che spegne la speranza. Egli ci insegna che non governa il fato, governa la Provvidenza ed essa ha un volto. Con la Provvidenza si può parlare, perché la Provvidenza è Dio. Così, anche nel carcere gli rimane la possibilità della preghiera, del dialogo con Colui che ci salva. Nello stesso tempo, anche in questa situazione egli conserva il senso della bellezza della cultura e richiama l’insegnamento dei grandi filosofi antichi greci e romani come Platone, Aristotile – aveva cominciato a tradurre questi greci in latino – Cicerone, Seneca, ed anche poeti come Tibullo e Virgilio.
La filosofia, nel senso della ricerca della vera saggezza, è secondo Boezio la vera medicina dell’anima (lib. I). D’altra parte, l’uomo può sperimentare l’autentica felicità unicamente nella propria interiorità (lib. II). Per questo, Boezio riesce a trovare un senso nel pensare alla propria tragedia personale alla luce di un testo sapienziale dell’Antico Testamento (Sap 7,30-8,1) che egli cita: « Contro la sapienza la malvagità non può prevalere. Essa si estende da un confine all’altro con forza e governa con bontà eccellente ogni cosa » (Lib. III, 12: PL 63, col. 780). La cosiddetta prosperità dei malvagi, pertanto, si rivela menzognera (lib. IV), e si evidenzia la natura provvidenziale dell’adversa fortuna. Le difficoltà della vita non soltanto rivelano quanto quest’ultima sia effimera e di breve durata, ma si dimostrano perfino utili per individuare e mantenere gli autentici rapporti fra gli uomini. L’adversa fortuna permette infatti di discernere i falsi amici dai veri e fa capire che nulla è più prezioso per l’uomo di un’amicizia vera. Accettare fatalisticamente una condizione di sofferenza è assolutamente pericoloso, aggiunge il credente Boezio, perché « elimina alla radice la possibilità stessa della preghiera e della speranza teologale che stanno alla base del rapporto dell’uomo con Dio » (Lib. V, 3: PL 63, col. 842).
La perorazione finale del De consolatione philosophiae può essere considerata una sintesi dell’intero insegnamento che Boezio rivolge a se stesso e a tutti coloro che si dovessero trovare nelle sue stesse condizioni. Scrive così in carcere: « Combattete dunque i vizi, dedicatevi ad una vita virtuosa orientata dalla speranza che spinge in alto il cuore fino a raggiungere il cielo con le preghiere nutrite di umiltà. L’imposizione che avete subìto può tramutarsi, qualora rifiutiate di mentire, nell’enorme vantaggio di avere sempre davanti agli occhi il giudice supremo che vede e sa come stanno veramente le cose » (Lib. V, 6: PL 63, col. 862). Ogni detenuto, per qualunque motivo sia finito in carcere, intuisce quanto sia pesante questa particolare condizione umana, soprattutto quando essa è abbrutita, come accadde a Boezio, dal ricorso alla tortura. Particolarmente assurda è poi la condizione di chi, ancora come Boezio che la città di Pavia riconosce e celebra nella liturgia come martire della fede, viene torturato a morte senza alcun altro motivo che non sia quello delle proprie convinzioni ideali, politiche e religiose. Boezio, simbolo di un numero immenso di detenuti ingiustamente di tutti i tempi e di tutte le latitudini, è di fatto oggettiva porta di ingresso alla contemplazione del misterioso Crocifisso del Golgota.
Contemporaneo di Boezio fu Marco Aurelio Cassiodoro, un calabrese nato a Squillace verso il 485, che morì pieno di giorni, a Vivarium intorno al 580. Anch’egli, uomo di alto livello sociale, si dedicò alla vita politica e all’impegno culturale come pochi altri nell’occidente romano del suo tempo. Forse gli unici che gli potevano stare alla pari in questo suo duplice interesse furono il già ricordato Boezio, e il futuro Papa di Roma, Gregorio Magno (590-604). Consapevole della necessità di non lasciare svanire nella dimenticanza tutto il patrimonio umano e umanistico, accumulato nei secoli d’oro dell’Impero Romano, Cassiodoro collaborò generosamente, e ai livelli più alti della responsabilità politica, con i popoli nuovi che avevano attraversato i confini dell’Impero e si erano stanziati in Italia. Anche lui fu modello di incontro culturale, di dialogo, di riconciliazione. Le vicende storiche non gli permisero di realizzare i suoi sogni politici e culturali, che miravano a creare una sintesi fra la tradizione romano-cristiana dell’Italia e la nuova cultura gotica. Quelle stesse vicende lo convinsero però della provvidenzialità del movimento monastico, che si andava affermando nelle terre cristiane. Decise di appoggiarlo dedicando ad esso tutte le sue ricchezze materiali e le sue forze spirituali.
Concepì l’idea di affidare proprio ai monaci il compito di recuperare, conservare e trasmettere ai posteri l’immenso patrimonio culturale degli antichi, perché non andasse perduto. Per questo fondò Vivarium, un cenobio in cui tutto era organizzato in modo tale che fosse stimato come preziosissimo e irrinunciabile il lavoro intellettuale dei monaci. Egli dispose che anche quei monaci che non avevano una formazione intellettuale non dovevano occuparsi solo del lavoro materiale, dell’agricoltura, ma anche trascrivere manoscritti e così aiutare nel trasmettere la grande cultura alle future generazioni. E questo senza nessuno scapito per l’impegno spirituale monastico e cristiano e per l’attività caritativa verso i poveri. Nel suo insegnamento, distribuito in varie opere, ma soprattutto nel trattato De anima e nelle Institutiones divinarum litterarum, la preghiera (cfr PL 69, col. 1108), nutrita dalla Sacra Scrittura e particolarmente dalla frequentazione assidua dei Salmi (cfr PL 69, col. 1149), ha sempre una posizione centrale quale nutrimento necessario per tutti. Ecco, ad esempio, come questo dottissimo calabrese introduce la sua Expositio in Psalterium: « Respinte e abbandonate a Ravenna le sollecitazioni della carriera politica segnata dal sapore disgustoso delle preoccupazioni mondane, avendo goduto del Salterio, libro venuto dal cielo come autentico miele dell’anima, mi tuffai avido come un assetato a scrutarlo senza posa per lasciarmi permeare tutto di quella dolcezza salutare dopo averne avuto abbastanza delle innumerevoli amarezze della vita attiva » (PL 70, col. 10).
La ricerca di Dio, tesa alla sua contemplazione – annota Cassiodoro -, resta lo scopo permanente della vita monastica (cfr PL 69, col. 1107). Egli aggiunge però che, con l’aiuto della grazia divina (cfr PL 69, col. 1131.1142), una migliore fruizione della Parola rivelata si può raggiungere con l’utilizzazione delle conquiste scientifiche e degli strumenti culturali « profani » già posseduti dai Greci e dai Romani (cfr PL 69, col. 1140). Personalmente, Cassiodoro si dedicò a studi filosofici, teologici ed esegetici senza particolare creatività, ma attento alle intuizioni che riconosceva valide negli altri. Leggeva con rispetto e devozione soprattutto Girolamo ed Agostino. Di quest’ultimo diceva: « In Agostino c’è talmente tanta ricchezza che mi sembra impossibile trovare qualcosa che non sia già stato abbondantemente trattato da lui« (cfr PL 70, col. 10). Citando Girolamo invece esortava i monaci di Vivarium: « Conseguono la palma della vittoria non soltanto coloro che lottano fino all’effusione del sangue o che vivono nella verginità, ma anche tutti coloro che, con l’aiuto di Dio, vincono i vizi del corpo e conservano la retta fede. Ma perché possiate, sempre con l’aiuto di Dio, vincere più facilmente le sollecitazioni del mondo e i suoi allettamenti, restando in esso come pellegrini continuamente in cammino, cercate anzitutto di garantirvi l’aiuto salutare suggerito dal primo salmo che raccomanda di meditare notte e giorno la legge del Signore. Il nemico non troverà infatti alcun varco per assalirvi se tutta la vostra attenzione sarà occupata da Cristo » (De Institutione Divinarum Scripturarum, 32: PL 69, col. 1147). È un ammonimento che possiamo accogliere come valido anche per noi. Viviamo infatti anche noi in un tempo di incontro delle culture, di pericolo della violenza che distrugge le culture, e del necessario impegno di trasmettere i grandi valori e di insegnare alle nuove generazioni la via della riconciliazione e della pace. Questa via troviamo orientandoci verso il Dio con il volto umano, il Dio rivelatosi a noi in Cristo.
10/03/2008, dal sito:
http://www.zenit.org/article-13769?l=italian
Indirizzo di saluto dell’Arcivescovo Ravasi a Benedetto XVI
ROMA, lunedì, 10 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’indirizzo di saluto di monsignor Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, a Benedetto XVI in occasione dell’udienza di sabato al termine della Plenaria di questo Dicastero della Santa Sede.
Santità,
non è senza emozione che, come ultimo chiamato fra tutti (cf. 1 Corinzi 15, 8), do voce all’ideale famiglia dei membri, dei consultori e del personale del Pontificio Consiglio della Cultura che è ora riunita davanti a Lei per esprimerLe l’affetto del cuore, la condivisione nei pensieri e la sintonia nelle speranze. Alle spalle c’è un percorso di analisi e studio iniziato già col mio caro e stimato predecessore, il cardinale Paul Poupard, e proseguito attraverso una ricerca che è approdata nei giorni scorsi all’assemblea plenaria del dicastero con le sue riflessioni e coi suoi dialoghi vivi e intensi.
È stato un itinerario ramificato condotto all’interno di un orizzonte complesso e variegato, quello della secolarizzazione, fenomeno per altro già compaginato con le stesse origini della storia cristiana, come attesta il severo monito paolino, indirizzato ai cristiani di Roma, a «non conformarsi al secolo presente» (Romani 12, 2), stingendo la propria identità spirituale e culturale in un modello capace di spegnere il fremito della fede, di snervare l’ardore della carità, di annebbiare la ricerca della verità. È una tentazione che si ripresenta costantemente e che si insinua fortemente nelle nostre comunità cristiane ove crescono sempre più, come ai tempi dell’Apostolo, i vari Dema che «preferiscono il secolo presente» (2 Timoteo 4,10), incapaci di essere nel mondo senza diventare del mondo.
A differenza della sana secolarità che ha una sua corretta identità e autonomia, nella città secolarizzata – in cui ora viviamo, pensiamo e operiamo – Dio non viene necessariamente sfrattato ma è reso irrilevante o imprigionato in forme meramente sacrali o magiche. Come affermava un saggio appena edito sull’attuale Secular Age, «la ricerca individuale della felicità nella cultura dei consumi assorbe quasi interamente il nostro tempo e le nostre energie», relegando la persona umana solo entro le frontiere del contingente e dell’immediato, privandola di ogni anelito o inquietudine trascendente. Nella recente Lettera alla Diocesi di Roma sul compito urgente dell’educazione Lei, Santità, delineava e denunciava «un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita».
Eppure continuiamo ad essere certi della verità che «l’uomo supera infinitamente l’uomo», per usare la celebre espressione pascaliana, e che la Chiesa ha davanti a sé, proprio in quella città secolarizzata, spazi aperti per far germogliare un nuovo umanesimo cristiano e per far brillare una fede autentica, limpida e pura. Là potrà far risuonare in modo nuovo e incisivo la Parola di Dio, capace di fecondare i deserti dell’indifferenza e della superficialità e di essere come fuoco e spada che infrange il rifiuto e l’ostilità. Là si potranno riproporre con vigore i grandi valori morali e i temi escatologici, riportando nel dibattito culturale il potente e grandioso elaborato intellettuale dei secoli passati. Là si dovrà ritessere con rigore e vigore il dialogo rispettoso tra scienza e fede.
A queste sfide alle quali Lei, Santità, costantemente spinge la Chiesa è nostro desiderio dedicarci, a partire da questi giorni di riflessione e di confronto. Ma soprattutto a partire dalla Sua parola, che ora attendiamo con slancio e passione, e dalla Sua benedizione apostolica. Saranno come una luce che ci accompagnerà e guiderà nel nostro percorso di ricerca e di testimonianza lungo le vie della città secolare e secolarizzata che si diramano davanti a noi.
[S. E. Mons. Gianfranco RAVASI]
dal sito:
http://levangileauquotidien.org/
Saint Cyrille de Jérusalem (313-350), évêque de Jérusalem, docteur de l’Église
Catechesi, n° 5
« Sei tu più grande del nostro padre Abramo ? »
Ci sarebbe tanto da dire sulla fede. Ci contenteremo di ricordare l’esempio veterotestamentario di Abramo, di cui siamo figli per la fede. Egli non fu giustificato solo per le opere senza la fede: aveva fatto tante opere giuste, ma non fu chiamato amico di Dio se non quando credette e compì ogni sua opera per fede; perché ebbe fede lasciò i genitori e perché ebbe fede abbandonò la patria, la terra e la casa. Sarai giustificato anche tu come lui! Egli aveva perduto ogni speranza di paternità, perché tanto lui ormai vecchio quanto sua moglie Sara vecchia anche lei non erano più nella possibilità fisica di procreare; ma ebbe fede nella promessa fattagli da Dio, che benché vecchio avrebbe avuto una posterità. Comprendeva bene di avere un corpo che era ormai impotente, eppure non vacillò nella fede ma fece credito all’onnipotenza di Colui che gli aveva fatto la promessa; così per le vie estinte dell’uno e dell’altro corpo miracolosamente gli nacque un figlio…
Di fatto, se storicamente non possiamo tutti dire Abramo padre secondo la carne, lo fu secondo la fede che ci rende tutti suoi figli. In che senso e in quale modo? Mentre gli uomini considerano non credibile l’annunzio della risurrezione dei morti e altrettanto incredibile la nascita d’un figlio da vecchi considerati quasi morti, noi invece con una fede simile a quella di Abramo crediamo che Cristo morto inchiodato sul legno della croce è risuscitato, e per la fede diventando figli di Abramo entriamo a far parte della sua stirpe di adozione. Con la fede riceviamo quindi anche un sigillo spirituale simile al suo, circoncisi col battesimo dallo Spirito Santo.