Dante a settecento anni dal viaggio della “Commedia” (2000)
dal sito:
http://www.santamelania.it/approf/sacchi/dante1.htm
Dante a settecento anni dal viaggio della “Commedia” IN VIAGGIO VERSO DIO, di Carlo Maria Martini
La Repubblica, sabato 9 settembre 2000, pp. 1 e 50-51
L’articolo di Carlo Maria Martini, che vi presentiamo, concludeva una serie di testi proposti da “la Repubblica” nel settembre 2000, per celebrare uno strano anniversario: non della nascita o della morte del poeta, ma del suo viaggio (immaginario) nell’oltretomba, che Dante colloca, come è noto, nella Settimana Santa dell’anno 1300.
Martini propone una lettura del Paradiso da un punto di vista esclusivamente spirituale, trattando la Commedia non come il testo più venerabile della nostra tradizione letteraria, ma piuttosto come testimonianza dell’esperienza interiore di un uomo. Questa prospettiva dà alla sua lettura un’immediatezza eccezionale, e gli permette di leggere in modo nuovo, sorprendente, alcuni dei temi chiave dell’opera (uno fra tutti, la figura di Beatrice).
Il “segreto” sta proprio nell’essersi posto davanti al poema con i soli strumenti del cristiano (e del sacerdote, e del biblista…), non con quelli della critica storica. E si dimostra, così, che una lettura del genere è possibile e persino facile: basti pensare che la sola affermazione iniziale, che Martini propone quasi en passant , secondo cui la Commedia sarebbe un’illustrazione del principio agostiniano “il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”, è costata a John Freccero, uno dei massimi dantisti americani viventi, un intero libro ( Dante e la poetica della conversione ).
Guido Sacchi
“Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23, 43). E’ la promessa fatta da Gesù al ladro sulla croce e fatta a tutti coloro che volgono lo sguardo implorante a quel costato trafitto (“in quel che, forato da la lancia,/ e prima e poscia tanto sodisfece/ che d’ogne colpa vince la bilancia”) (Dante, La Divina Commedia , Paradiso , XIII 40-42). E’ la manifestazione della gloria e della misericordia di Dio; ed è la promessa che il cristiano Dante, per grazia, ha come pregustato in modo del tutto particolare. Il cammino della sua esistenza, come il viaggio raccontato nel poema sacro, è interamente sostenuto da questo desiderio di essere con Cristo, di poter contemplare la sua gloria, il suo “volto”, senza mediazioni, faccia a faccia, in quella visione-comunione in cui si placherà l’ansia di ogni umana ricerca.
Il principio agostiniano – “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finchè non riposa in te” – è alla base di tutto il pellegrinaggio della Commedia, connotato fin dall’inizio dalla ricerca di un vero “in che si queta ogne intelletto” (XXVIII 108) e dall’adesione amorosa alla Sua volontà, nella quale soltanto è la nostra pace.
Quando noi vogliamo ciò che Lui vuole, ogni nostro vero desiderio è sostenuto da Lui. Desiderio e inquietudine sono spia evidente dell’umano limite, ma si rivelano, d’altra parte, interna testimonianza dell’esistenza di un Bene che non delude, perchè anche ciò che affascina l’uomo allontanandolo da Dio non è altro che “vestigio”, traccia mal conosciuta del divino splendore.
Questo Bene, per il cristiano Dante, ha un volto.Il volto di Dio.
“Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26, 9). L’accorata invocazione accompagna integralmente l’itinerarium mentis in Deum del poeta:
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace
(XXX 100-102)
Ogni “più vedere” è scoperta, o riscoperta, di un aspetto del volto di Dio; dalla sua “gloria” che risplende in tutto l’universo, al mistero trinitario, radice di ogni essere e di ogni bene. Dio è l’eterno, il punto “a cui tutti li tempi son presenti” (XVII 18); è infinito, è Bene (che non ha fine a sé con sé misura” (XIX 51); ma soprattutto è amore, è luce che “sola e sempre amore accende” (V 9), è l’amore che muove il sole e le altre stelle, e l’intera creazione è unicamente libera, gratuita espansione dell’amore divino, nata nel giorno in cui “s’aperse in nuovi amor l’etterno amore” (XXIX 18). E questo amore ha, naturalmente, il volto cristiano del mistero trinitario.
Dante si accanisce quasi a tradurre in parole umane l’appassionata contemplazione del mistero, a volte semplicemente parafrasando le formule della fede (“e credo in tre persone etterne, e queste / credo una essenza sì una sì trina, / che soffera congiunto sono ed este ”) (XXIV 139-141), altre riducendo quasi l’immagine a numero in un supremo tentativo di sintesi (XIV 28-30), e altre ancora affidandosi all’elemento paradisiaco per eccellenza, quello della luce:
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi !
(XXXIII 124-126)L’esclamazione conclude la rappresentazione dei “tre giri / di tre colori e d’una contenenza” – uno come arcobaleno riflesso dall’altro, mentre il terzo sembra fuoco che spiri da entrambi – ma non conclude la “visione”, non è questo il fine cui tende l’ardore dell’umano desiderio. Nell’immagine riflessa Dante vede, dello stesso colore, la nostra effige: questa è la realtà “ultima”, il volto umano nel secondo cerchio. Tutto dipende dal comprendere “come si convenne l’imago / al cerchio”, come nell’eterno giro stia l’immagine di un volto umano, come abbia potuto accadere che il Verbo di Dio si sia fatto uomo. Da questo evento è sorretto ogni passo del pellegrinaggio, questa è l’ultima visione. Ora Dante sa che il mondo è finito, ma insieme conservato nell’essere per sempre; che l’esistenza umana è limitata e passeggera ma rimane vera nell’eternità di Dio; che l’uomo è un soffio, ma quanto compie nel tempo ha valore eterno.
La città di Dio e la città dell’uomo
D’altra parte soltanto lasciando che lo sguardo sprofondi sempre maggiormente nella luce di Dio, in quel volto che sempre “eccede” la nostra capacità di comprensione e di amore, è possibile scoprire la vera immagine di quelle realtà che portano impresse il suo sigillo, a cominciare da quella santa sposa che Cristo fece sua “ad alte grida” e col suo “sangue benedetto”. In Dio Dante riscopre il vero volto della chiesa voluta da Cristo, la chiesa degli apostoli, costruita unicamente sul “verace fondamento” della parola del Maestro: nella buona battaglia per la diffusione della fede il vangelo soltanto fu “scudo e lancia”. Senza oro né argento, “magri e scalzi, / prendendo il cibo da qualunque ostello” (XXI 128-129), Pietro e Paolo sparsero il buon seme della parola fecondandolo con il loro sangue; e così fecero Lino, Anacleto, Sisto, Pio, Callisto, Urbano… Questa chiesa amarono e servirono Benedetto, Francesco, e tutti gli altri che non hanno deviato dal loro insegnamento.
Quasi riflesso civile della chiesa “apostolica” e “monastica” è la Firenza antica, dove, nella primitiva cerchia delle mura, una campana segna ancora le ore conferendo un senso profondamente religioso al trascorrere del tempo, e la felicità pacifica dei vecchi cittadini sembra strettamente collegata alla sobrietà della loro vita: non vestiti tanto vistosi da imporsi alla considerazione più delle persone stesse, non case vuote, non camere testimoni di lusso e di lussuria. Le donne lavorano tranquille in casa e si occupano amorevolmente dei propri bambini, parlano con loro e ne calmano il pianto adattandosi alla tenera lingua infantile. In questa Firenze di riposata convivenza civile, senza odi, tra cittadini fidati, dove tutto cooperava a una semplice ma solida vita familiare e politica, vivere era dolce. L’ombra della fede, per la quale anche il trisavolo Cacciaguida ha sacrificato la propria esistenza passando dal martirio alla pace del paradiso, si estende protettiva sulla vita pubblica, persuadendo al rispetto dei valori.
Certo nessuno vede tanto chiaramente anche il male quanto chi vede tutto in Dio. Il volto della chiesa e dello stato è orribilmente sfigurato da quella insaziabile cupidigia considerata da San Paolo una specie di idolatria. La casa del Signore corre sempre il rischio di diventare “spelonca di ladri”, soprattutto quando sono fuorviati, e fuorvianti, gli stessi pastori. I privilegi sono venduti e falsificati, le divisioni lacerano anche la chiesa, le offerte sono sottratte ai poveri che ne sono i legittimi proprietari, la Scrittura è trascurata o contraffatta e i predicatori, per orgoglio o vanità, raccontano le favole di una superficiale sapienza mondana tesa unicamente a solleticare l’uditorio; e pochi ormai salgono la santa “scala di Giacobbe” nel silenzio orante dei chiostri, mentre fede e innocenza sembrano appannaggio soltanto dei bambini.
La sete dei facili guadagni e l’inurbamento incontrollato sembrano aver travolto definitivamente anche la possibilità di una sicura e serena convivenza civile. Falsità, superbia, “la lussuria e ‘l viver molle”, avarizia e viltà hanno contagiato gli stessi principi. Quando la città dell’uomo è ridotta a luogo di scambi economici, perdendo di vista la necessità di relazioni simboliche, affettive, culturali e religiose, diventa inevitabilmente “noverca”, matrigna, lasciando il cittadino orfano, sradicato.
Ma il cristiano Dante, il figlio della chiesa militante dotato di più grande speranza, ha la grazia di poter contemplare la luce del trionfo di Cristo che con la sua Pasqua ha nuovamente riaperto agli uomini la via del cielo: ancora una volta l’intervento divino raddrizzerà la barca di Pietro “e vero frutto verrà dopo ‘l fiore” (XXVII 148). La storia è guidata da una Provvidenza che è sapienza e amore, e nulla può impedire la salvezza, se non il definitivo uso distorto del dono grande e terribile della propria libertà. Entrano in paradiso Raab, la prostituta, e la debole Piccarda; gli spiriti “attivi” con il loro amore per la fama e per la gloria e il vecchio Salomone con i suoi cedimenti; Romeo che abbandona il proprio posto perchè ingiustamente calunniato e Folchetto con la sua inclinazione amorosa. La salvezza viene dalla fede in Cristo, ma nessuno ne è escluso a priori, come testimonia la presenza del pagano Rifeo; piuttosto il monito è ancora quello evangelico, rivolto a chi dice “Signore, Signore” e che si troverà, nel giorno del giudizio , “assai men prope / a lui, che tal che non conosce Cristo” (XIX 107-108).

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