Archive pour le 18 février, 2008

San Giuseppe

San Giuseppe dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 18 février, 2008 |Pas de commentaires »

Angelus 17.2.08 – Benedetto XVI: « Trasfigurati nella speranza »

17/02/2008, dal sito:

 

http://www.zenit.org/article-13519?l=italian

 

 Benedetto XVI: « Trasfigurati nella speranza » 

 

Discorso introduttivo alla preghiera dell’Angelus 

 

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 17 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato questa domenica da Benedetto XVI in occasione della preghiera mariana dell’Angelus, recitata insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro. 

* * * 

Cari fratelli e sorelle, 

si sono conclusi ieri qui, nel Palazzo Apostolico, gli Esercizi Spirituali che, come ogni anno, hanno visto uniti nella preghiera e nella meditazione il Papa e i suoi collaboratori della Curia Romana. Ringrazio quanti ci sono stati vicini spiritualmente: voglia il Signore ricompensarli per questa loro generosità. 

Quest’oggi, seconda domenica di Quaresima, proseguendo il cammino penitenziale, la liturgia, dopo averci presentato domenica scorsa il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto, ci invita a riflettere sull’evento straordinario della Trasfigurazione sul monte. Considerati insieme, entrambi gli episodi anticipano il mistero pasquale: la lotta di Gesù col tentatore prelude al grande duello finale della Passione, mentre la luce del suo Corpo trasfigurato anticipa la gloria della Risurrezione. 

Da una parte vediamo Gesù pienamente uomo, che condivide con noi persino la tentazione; dall’altra lo contempliamo Figlio di Dio, che divinizza la nostra umanità. In tal modo, potremmo dire che queste due domeniche fungono da pilastri su cui poggia tutto l’edificio della Quaresima fino alla Pasqua, ed anzi l’intera struttura della vita cristiana, che consiste essenzialmente nel dinamismo pasquale: dalla morte alla vita. 

La montagna – il Tabor come il Sinai – è il luogo della vicinanza con Dio. E’ lo spazio elevato, rispetto all’esistenza quotidiana, dove respirare l’aria pura della creazione. E’ il luogo della preghiera, dove stare alla presenza del Signore, come Mosè e come Elia, che appaiono accanto a Gesù trasfigurato e parlano con Lui dell’ »esodo » che lo attende a Gerusalemme, cioè della sua Pasqua. 

La Trasfigurazione è un avvenimento di preghiera: pregando Gesù si immerge in Dio, si unisce intimamente a Lui, aderisce con la propria volontà umana alla volontà di amore del Padre, e così la luce lo invade e appare visibilmente la verità del suo essere: Egli è Dio, Luce da Luce. Anche la veste di Gesù diventa candida e sfolgorante. Questo fa pensare al Battesimo, alla veste bianca che indossano i neofiti. Chi rinasce nel Battesimo viene rivestito di luce anticipando l’esistenza celeste, che l’Apocalisse rappresenta con il simbolo delle vesti candide (cfr Ap 7,9.13). 

Qui è il punto cruciale: la trasfigurazione è anticipo della risurrezione, ma questa presuppone la morte. Gesù manifesta agli Apostoli la sua gloria, perché abbiano la forza di affrontare lo scandalo della croce, e comprendano che occorre passare attraverso molte tribolazioni per giungere al Regno di Dio. La voce del Padre, che risuona dall’alto, proclama Gesù suo Figlio prediletto come nel Battesimo nel Giordano, aggiungendo: « Ascoltatelo » (Mt 17,5). 

Per entrare nella vita eterna bisogna ascoltare Gesù, seguirlo sulla via della croce, portando nel cuore come Lui la speranza della risurrezione. « Spe salvi« , salvati nella speranza. Oggi possiamo dire: « Trasfigurati nella speranza ». 

Rivolgendoci ora in preghiera a Maria, riconosciamo in Lei la creatura umana trasfigurata interiormente dalla grazia di Cristo, e affidiamoci alla sua guida per percorrere con fede e generosità l’itinerario della Quaresima. 

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:] 

Seguo con preoccupazione le persistenti manifestazioni di tensione in Libano. Da quasi tre mesi il Paese non riesce a darsi un Capo dello Stato. Gli sforzi per comporre la crisi e il sostegno offerto da numerosi esponenti di rilievo della Comunità internazionale, anche se non hanno ancora raggiunto un risultato, dimostrano l’intenzione di individuare un Presidente che sia tale per tutti i libanesi e porre così le basi per superare le divisioni esistenti. Purtroppo, non mancano anche i motivi di preoccupazione, soprattutto a causa di una inconsueta violenza verbale o di quanti addirittura pongono la loro fiducia nella forza delle armi e nella eliminazione fisica degli avversari. 

Assieme al Patriarca maronita e a tutti i Vescovi libanesi, vi chiedo di unirvi alla mia supplica a Nostra Signora del Libano, perché incoraggi i cittadini di quella cara Nazione, ed in particolare i politici, a lavorare con tenacia in favore della riconciliazione, di un dialogo veramente sincero, della pacifica convivenza e del bene di una Patria profondamente sentita come comune. 

Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai fedeli provenienti da alcune parrocchie romane, e inoltre da Cento, dall’Isola di Lipari e da Valeggio sul Mincio, questi ultimi in occasione del bicentenario della dedicazione della chiesa parrocchiale, intitolata alla Cattedra di San Pietro. Saluto inoltre la Scuola Salesiana « Edoardo Agnelli » di Torino, l’Associazione Musicale « San Leucio » di Brindisi e le Famiglie del Movimento « Tra Noi ». Un pensiero speciale va ai familiari delle persone scomparse il 4 gennaio scorso in Venezuela, con l’assicurazione della mia preghiera. A tutti auguro una buona domenica. 

 

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Leone XIII Enciclica: « Quamquam pluries » : (San Giuseppe)

dal sito: 

http://www.floscarmeli.org/modules.php?name=News&file=article&sid=186

  

Lettera enciclica
«Quamquam pluries»

di Leone XIII 

Roma, 15 agosto 1889

 

 Quantunque abbiamo già ordinato più volte che si facessero in tutto il mondo particolari preghiere e si raccomandassero a Dio nel modo più ampio gli interessi della cattolicità, tuttavia nessuno si stupirà se riteniamo opportuno anche oggi ribadire nuovamente questo stesso dovere. Nei tempi funesti, soprattutto quando il potere delle tenebre sembra possa osare tutto a danno della cattolicità, la Chiesa è sempre stata solita supplicare Dio, suo autore e garante, con maggiore fervore e perseveranza, invocando pure l’intercessione dei Santi e particolarmente dell’augusta Vergine, madre di Dio, nel patrocinio dei quali vede il massimo della propria sicurezza. Presto o tardi il frutto delle preghiere e della speranza nella bontà divina si evidenzia. 

Ora vi è ben noto, Venerabili Fratelli, che il tempo presente non è meno calamitoso di quelli più tristi già subiti dalla cristianità. Vediamo infatti perire in moltissimi la fede, che è il principio di tutte le virtù cristiane; vediamo raffreddarsi la carità, e la gioventù degradarsi nei costumi e nelle idee; dovunque si osteggia con violenza e con perfidia la Chiesa di Gesù Cristo; si combatte atrocemente il Pontificato; e con tracotanza ogni giorno più sfrontata si tenta di scalzare le stesse fondamenta della religione. Dove si sia precipitati e che cosa ancora si vada agitando negli animi è più noto di quanto sia necessario spiegarlo con le parole. 

In questa difficile e miserabile situazione, poiché i mali sono più forti dei rimedi umani, non resta che chiedere la guarigione alla potenza divina. Pertanto ritenemmo opportuno spronare la pietà del popolo cristiano perché implori con nuovo fervore e nuova costanza l’aiuto di Dio onnipotente. Quindi, avvicinandosi il mese di ottobre, che in passato abbiamo già decretato sacro alla Vergine Maria del Rosario, vi esortiamo calorosamente a che quest’anno tutto il mese suddetto venga celebrato con la maggior devozione, pietà e partecipazione possibili. Sappiamo bene che nella materna bontà della Vergine è pronto il rifugio, e siamo certi che le Nostre speranze non sono invano riposte in Lei. Se tante volte Ella ci fu propizia nei fortunosi tempi del cristianesimo, perché temere che non voglia ripetere gli esempi del suo potere e della sua grazia, ove sia umilmente costantemente invocata con preghiere comuni? Anzi, tanto più speriamo che in mirabile modo ci assista, quanto più a lungo volle essere pregata. 

Se non che un’altra cosa Ci siamo pure proposta, e per essa voi, Venerabili Fratelli, Ci presterete, come al solito, la vostra diligente cooperazione: per meglio rendere Iddio favorevole alle nostre preci e perché Egli, supplicato da più intercessori, porga più rapido e largo soccorso alla sua Chiesa, riteniamo che sia sommamente conveniente che il popolo cristiano si abitui a pregare con singolare devozione e animo fiducioso, insieme alla Vergine Madre di Dio, il suo castissimo sposo San Giuseppe: il che abbiamo particolari motivi di credere che debba tornare accetto e caro alla stessa Vergine. 

Quanto a questo argomento che per la prima volta trattiamo pubblicamente, ben sappiamo che la pietà popolare, poco favorevole, venne successivamente aumentando da quando i romani Pontefici, fin dai primi secoli, si impegnarono gradualmente a diffondere maggiormente e per ogni dove il culto di Giuseppe: abbiamo visto che esso è venuto aumentando ovunque in questi ultimi tempi, soprattutto da quando Pio IX, Nostro antecessore di felice memoria, su richiesta di moltissimi Vescovi, ebbe dichiarato il santissimo Patriarca patrono della Chiesa cattolica. 

Nondimeno, poiché è di tanto rilievo che il suo culto metta profonde radici nelle istituzioni e nelle abitudini cattoliche, vogliamo che il popolo cristiano anzitutto riceva nuovo impulso dalla Nostra voce e dalla Nostra autorità. 

Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere patrono speciale della Chiesa, e la Chiesa ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dal fatto che egli fu sposo di Maria e padre putativo di Gesù Cristo. Da qui derivarono tutta la sua grandezza, la grazia, la santità e la gloria. Certamente la dignità di Madre di Dio è tanto in alto che nulla vi può essere di più sublime. Ma poiché tra Giuseppe e la beatissima Vergine esistette un nodo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto nessun altro mai. Infatti il matrimonio costituisce la società, il vincolo superiore ad ogni altro: per sua natura prevede la comunione dei beni dell’uno con l’altro. Pertanto se Dio ha dato alla Vergine in sposo Giuseppe, glielo ha dato pure a compagno della vita, testimone della verginità, tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, mercé il patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei. 

Così pure egli emerge tra tutti in augustissima dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell’opinione degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde consegue che il Verbo di Dio modestamente si assoggettasse a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell’onore e quella riverenza che i figli debbono al padre loro. 

Ora, da questa doppia dignità scaturivano naturalmente quei doveri che la natura prescrive ai padri di famiglia; per cui Giuseppe fu ad un tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina famiglia. E questi compiti e uffici egli infatti esercitò finché ebbe vita. Sí impegnò a tutelare con sommo amore e quotidiana vigilanza la sua consorte e la divina prole; procacciò loro di continuo con le sue fatiche il necessario alla vita; allontanò da loro i pericoli minacciati dall’odio di un re, portandoli al sicuro altrove; nei disagi dei viaggi e nelle difficoltà dell’esilio fu compagno inseparabile, aiuto e conforto alla Vergine e a Gesù. 

Ora la casa divina, che Giuseppe con quasi patria potestà governava, era la culla della nascente Chiesa. 

La Vergine santissima, in quanto madre di Gesù Cristo, è anche madre di tutti i cristiani, da lei generati, in mezzo alle atrocissime pene del Redentore sul Calvario; così pure Gesù Cristo è come il primogenito dei cristiani, che gli sono fratelli per adozione e redenzione. 

Ne consegue che il beatissimo Patriarca si consideri protettore, in modo speciale, della moltitudine dei cristiani di cui è formata la Chiesa, cioè di questa innumerevole famiglia sparsa in tutto il mondo sulla quale egli, come sposo di Maria e padre di Gesù Cristo, ha un’autorità pressoché paterna. È dunque cosa giusta e sommamente degna del beato Giuseppe che, come egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora col suo celeste patrocinio protegga e difenda la Chiesa di Cristo. 

Queste cose, Venerabili Fratelli, come sapete, trovano riscontro in ciò che pensarono parecchi Padri della Chiesa, disaccordo con la sacra liturgia, e cioè che l’antico Giuseppe, figlio del patriarca Giacobbe, anticipasse la persona e il ministero del nostro, e col suo splendore simboleggiasse la grandezza del futuro custode della divina famiglia. Per la verità, oltre ad avere entrambi lo stesso nome, non privo di significato, corrono tra loro ben altre chiarissime rassomiglianze a voi ben note: prima di tutte quella che l’antico Giuseppe si guadagnò in modo singolare la benevolenza e la grazia del suo signore, e che, avendo da lui avuto il governo della casa, tutte le prosperità e le benedizioni piovevano, per riguardo a Giuseppe, sul suo padrone. Ma vi è di più: egli, per volontà del monarca, governò con poteri sovrani tutto il regno, e nel tempo di pubblica calamità, per mancati raccolti e per la carestia, sovvenne con così stupenda provvidenza agli Egizi e ai popoli confinanti, che il re decretò si chiamasse salvatore del mondo. 

Così in quell’antico Patriarca è possibile ravvisare la figura del nostro. Come quegli fu benefico e salutare per la casa del suo padrone e poi per tutto il regno, così questi, destinato alla custodia della cristianità, si deve reputare difensore e tutore della Chiesa, la quale è veramente la casa del Signore e il regno di Dio in terra. 

Tutti i cristiani, di qualsivoglia condizione e stato, hanno ben motivo di affidarsi e abbandonarsi all’amorosa tutela di San Giuseppe. In Giuseppe i padri di famiglia hanno il più sublime modello di paterna vigilanza e provvidenza; i coniugi un perfetto esemplare d’amore, di concordia e di fede coniugale; i vergini un esempio e una guida dell’integrità verginale. I nobili, posta dinanzi a sé l’immagine di Giuseppe, imparino a serbare anche nell’avversa fortuna la loro dignità; i ricchi comprendano quali siano i beni che è opportuno desiderare con ardente bramosia e dei quali fare tesoro. 

I proletari poi, gli operai e quanti sono meno fortunati, debbono, per un titolo o per diritto loro proprio, ricorrere a San Giuseppe, e da lui apprendere ciò che devono imitare. Infatti egli, sebbene di stirpe regia, unito in matrimonio con la più santa ed eccelsa tra le donne, e padre putativo del Figlio di Dio, nondimeno passa la sua vita nel lavoro, e con l’opera e l’arte sua procura il necessario al sostentamento dei suoi. 

Se si riflette in modo avveduto, la condizione abietta non è di chi è più in basso: qualsiasi lavoro dell’operaio non solo non è disonorevole, ma associato alla virtù può molto, e nobilitarsi. Giuseppe, contento del poco e del suo, sopportò con animo forte ed elevato le strettezze inseparabili da quel fragilissimo vivere, dando esempio al suo figliuolo, il quale, pur essendo signore di tutte le cose, vestì le sembianze di servo, e volontariamente abbracciò una somma povertà e l’indigenza. 

Di fronte a queste considerazioni, i poveri e quanti si guadagnano la vita col lavoro delle mani debbono sollevare l’animo, e rettamente pensare. A coloro ai quali, se è vero che la giustizia consente di potere affrancarsi dalla indigenza e levarsi a migliore condizione, tuttavia né la ragione né la giustizia permettono di sconvolgere l’ordine stabilito dalla provvidenza di Dio. Anzi, il trascendere alla violenza e compiere aggressioni in genere e tumulti è un folle sistema che spesso aggrava i mali stessi che si vorrebbero alleggerire. Quindi i proletari, se hanno buon senso, non confidino nelle promesse di gente sediziosa, ma negli esempi e nel patrocinio del beato Giuseppe, e nella materna carità della Chiesa la quale si prende ogni giorno grande cura del loro stato. 

Pertanto, Venerabili Fratelli, ripromettendoci moltissimo dalla vostra autorità e dal vostro zelo episcopale, né dubitando che le pie e buone persone intraprendano molte altre cose, e anche maggiori di quelle comandate da Noi, decretiamo che in tutto il mese di ottobre si aggiunga nella recita del Rosario, da Noi già prescritto altre volte, l’orazione a San Giuseppe, il cui testo riceverete insieme con quell’Enciclica, e così si faccia ogni anno in perpetuo. 

A coloro, poi, che devotamente reciteranno la suddetta orazione, concediamo ogni volta l’indulgenza di sette anni e altrettante quarantene. È anche proficuo e sommamente apprezzabile il consacrare, come già avviene in vari luoghi, con giornalieri esercizi di pietà il mese di marzo in onore del Santo Patriarca. Dove poi ciò non si possa fare agevolmente, sarebbe almeno desiderabile che prima della sua festa, nel tempio principale di ciascun luogo, si celebrasse un triduo di preghiere. 

Raccomandiamo inoltre a tutti i fedeli dei paesi nei quali il 19 marzo, giorno sacro a San Giuseppe, non è compreso nel novero delle feste di precetto, che non trascurino tuttavia per quanto è possibile, di santificarlo almeno privatamente, ad onore del celeste Patrono, quasi fosse giorno festivo. 

Frattanto, auspice dei celesti doni e pegno della Nostra benevolenza verso di voi, Venerabili Fratelli, impartiamo di tutto cuore nel Signore l’Apostolica Benedizione a voi, al Clero e al vostro popolo.

 

 

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 agosto 1889, anno duodecimo del Nostro Pontificato.

 

 Orazione a San Giuseppe 

A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo, e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio dopo quello della tua Santissima Sposa. 

Deh! per quel sacro vincolo di carità che ti strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio, e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, guarda, te ne preghiamo, con occhio benigno la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potere ed aiuto sovvieni ai nostri bisogni. 

Proteggi, o provvido Custode della divina Famiglia, l’eletta prole di Gesù Cristo; allontana da noi, o Padre amantissimo, la peste di errori e di vizi che ammorba il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta contro il potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore; e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del pargoletto Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità: e stendi ognora sopra ciascuno di noi il tuo patrocinio, affinché sul tuo esempio, e mercé il tuo soccorso, possiamo vivere virtuosamente, piamente morire, e conseguire l’eterna beatitudine in cielo. Così sia.

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Leone XIII Enciclica: « Quamquam pluries » : (San Giuseppe)

dal sito: 

http://www.floscarmeli.org/modules.php?name=News&file=article&sid=186

  

Lettera enciclica
«Quamquam pluries»

di Leone XIII 

Roma, 15 agosto 1889

 

 Quantunque abbiamo già ordinato più volte che si facessero in tutto il mondo particolari preghiere e si raccomandassero a Dio nel modo più ampio gli interessi della cattolicità, tuttavia nessuno si stupirà se riteniamo opportuno anche oggi ribadire nuovamente questo stesso dovere. Nei tempi funesti, soprattutto quando il potere delle tenebre sembra possa osare tutto a danno della cattolicità, la Chiesa è sempre stata solita supplicare Dio, suo autore e garante, con maggiore fervore e perseveranza, invocando pure l’intercessione dei Santi e particolarmente dell’augusta Vergine, madre di Dio, nel patrocinio dei quali vede il massimo della propria sicurezza. Presto o tardi il frutto delle preghiere e della speranza nella bontà divina si evidenzia. 

Ora vi è ben noto, Venerabili Fratelli, che il tempo presente non è meno calamitoso di quelli più tristi già subiti dalla cristianità. Vediamo infatti perire in moltissimi la fede, che è il principio di tutte le virtù cristiane; vediamo raffreddarsi la carità, e la gioventù degradarsi nei costumi e nelle idee; dovunque si osteggia con violenza e con perfidia la Chiesa di Gesù Cristo; si combatte atrocemente il Pontificato; e con tracotanza ogni giorno più sfrontata si tenta di scalzare le stesse fondamenta della religione. Dove si sia precipitati e che cosa ancora si vada agitando negli animi è più noto di quanto sia necessario spiegarlo con le parole. 

In questa difficile e miserabile situazione, poiché i mali sono più forti dei rimedi umani, non resta che chiedere la guarigione alla potenza divina. Pertanto ritenemmo opportuno spronare la pietà del popolo cristiano perché implori con nuovo fervore e nuova costanza l’aiuto di Dio onnipotente. Quindi, avvicinandosi il mese di ottobre, che in passato abbiamo già decretato sacro alla Vergine Maria del Rosario, vi esortiamo calorosamente a che quest’anno tutto il mese suddetto venga celebrato con la maggior devozione, pietà e partecipazione possibili. Sappiamo bene che nella materna bontà della Vergine è pronto il rifugio, e siamo certi che le Nostre speranze non sono invano riposte in Lei. Se tante volte Ella ci fu propizia nei fortunosi tempi del cristianesimo, perché temere che non voglia ripetere gli esempi del suo potere e della sua grazia, ove sia umilmente costantemente invocata con preghiere comuni? Anzi, tanto più speriamo che in mirabile modo ci assista, quanto più a lungo volle essere pregata. 

Se non che un’altra cosa Ci siamo pure proposta, e per essa voi, Venerabili Fratelli, Ci presterete, come al solito, la vostra diligente cooperazione: per meglio rendere Iddio favorevole alle nostre preci e perché Egli, supplicato da più intercessori, porga più rapido e largo soccorso alla sua Chiesa, riteniamo che sia sommamente conveniente che il popolo cristiano si abitui a pregare con singolare devozione e animo fiducioso, insieme alla Vergine Madre di Dio, il suo castissimo sposo San Giuseppe: il che abbiamo particolari motivi di credere che debba tornare accetto e caro alla stessa Vergine. 

Quanto a questo argomento che per la prima volta trattiamo pubblicamente, ben sappiamo che la pietà popolare, poco favorevole, venne successivamente aumentando da quando i romani Pontefici, fin dai primi secoli, si impegnarono gradualmente a diffondere maggiormente e per ogni dove il culto di Giuseppe: abbiamo visto che esso è venuto aumentando ovunque in questi ultimi tempi, soprattutto da quando Pio IX, Nostro antecessore di felice memoria, su richiesta di moltissimi Vescovi, ebbe dichiarato il santissimo Patriarca patrono della Chiesa cattolica. 

Nondimeno, poiché è di tanto rilievo che il suo culto metta profonde radici nelle istituzioni e nelle abitudini cattoliche, vogliamo che il popolo cristiano anzitutto riceva nuovo impulso dalla Nostra voce e dalla Nostra autorità. 

Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere patrono speciale della Chiesa, e la Chiesa ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dal fatto che egli fu sposo di Maria e padre putativo di Gesù Cristo. Da qui derivarono tutta la sua grandezza, la grazia, la santità e la gloria. Certamente la dignità di Madre di Dio è tanto in alto che nulla vi può essere di più sublime. Ma poiché tra Giuseppe e la beatissima Vergine esistette un nodo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto nessun altro mai. Infatti il matrimonio costituisce la società, il vincolo superiore ad ogni altro: per sua natura prevede la comunione dei beni dell’uno con l’altro. Pertanto se Dio ha dato alla Vergine in sposo Giuseppe, glielo ha dato pure a compagno della vita, testimone della verginità, tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, mercé il patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei. 

Così pure egli emerge tra tutti in augustissima dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell’opinione degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde consegue che il Verbo di Dio modestamente si assoggettasse a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell’onore e quella riverenza che i figli debbono al padre loro. 

Ora, da questa doppia dignità scaturivano naturalmente quei doveri che la natura prescrive ai padri di famiglia; per cui Giuseppe fu ad un tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina famiglia. E questi compiti e uffici egli infatti esercitò finché ebbe vita. Sí impegnò a tutelare con sommo amore e quotidiana vigilanza la sua consorte e la divina prole; procacciò loro di continuo con le sue fatiche il necessario alla vita; allontanò da loro i pericoli minacciati dall’odio di un re, portandoli al sicuro altrove; nei disagi dei viaggi e nelle difficoltà dell’esilio fu compagno inseparabile, aiuto e conforto alla Vergine e a Gesù. 

Ora la casa divina, che Giuseppe con quasi patria potestà governava, era la culla della nascente Chiesa. 

La Vergine santissima, in quanto madre di Gesù Cristo, è anche madre di tutti i cristiani, da lei generati, in mezzo alle atrocissime pene del Redentore sul Calvario; così pure Gesù Cristo è come il primogenito dei cristiani, che gli sono fratelli per adozione e redenzione. 

Ne consegue che il beatissimo Patriarca si consideri protettore, in modo speciale, della moltitudine dei cristiani di cui è formata la Chiesa, cioè di questa innumerevole famiglia sparsa in tutto il mondo sulla quale egli, come sposo di Maria e padre di Gesù Cristo, ha un’autorità pressoché paterna. È dunque cosa giusta e sommamente degna del beato Giuseppe che, come egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora col suo celeste patrocinio protegga e difenda la Chiesa di Cristo. 

Queste cose, Venerabili Fratelli, come sapete, trovano riscontro in ciò che pensarono parecchi Padri della Chiesa, disaccordo con la sacra liturgia, e cioè che l’antico Giuseppe, figlio del patriarca Giacobbe, anticipasse la persona e il ministero del nostro, e col suo splendore simboleggiasse la grandezza del futuro custode della divina famiglia. Per la verità, oltre ad avere entrambi lo stesso nome, non privo di significato, corrono tra loro ben altre chiarissime rassomiglianze a voi ben note: prima di tutte quella che l’antico Giuseppe si guadagnò in modo singolare la benevolenza e la grazia del suo signore, e che, avendo da lui avuto il governo della casa, tutte le prosperità e le benedizioni piovevano, per riguardo a Giuseppe, sul suo padrone. Ma vi è di più: egli, per volontà del monarca, governò con poteri sovrani tutto il regno, e nel tempo di pubblica calamità, per mancati raccolti e per la carestia, sovvenne con così stupenda provvidenza agli Egizi e ai popoli confinanti, che il re decretò si chiamasse salvatore del mondo. 

Così in quell’antico Patriarca è possibile ravvisare la figura del nostro. Come quegli fu benefico e salutare per la casa del suo padrone e poi per tutto il regno, così questi, destinato alla custodia della cristianità, si deve reputare difensore e tutore della Chiesa, la quale è veramente la casa del Signore e il regno di Dio in terra. 

Tutti i cristiani, di qualsivoglia condizione e stato, hanno ben motivo di affidarsi e abbandonarsi all’amorosa tutela di San Giuseppe. In Giuseppe i padri di famiglia hanno il più sublime modello di paterna vigilanza e provvidenza; i coniugi un perfetto esemplare d’amore, di concordia e di fede coniugale; i vergini un esempio e una guida dell’integrità verginale. I nobili, posta dinanzi a sé l’immagine di Giuseppe, imparino a serbare anche nell’avversa fortuna la loro dignità; i ricchi comprendano quali siano i beni che è opportuno desiderare con ardente bramosia e dei quali fare tesoro. 

I proletari poi, gli operai e quanti sono meno fortunati, debbono, per un titolo o per diritto loro proprio, ricorrere a San Giuseppe, e da lui apprendere ciò che devono imitare. Infatti egli, sebbene di stirpe regia, unito in matrimonio con la più santa ed eccelsa tra le donne, e padre putativo del Figlio di Dio, nondimeno passa la sua vita nel lavoro, e con l’opera e l’arte sua procura il necessario al sostentamento dei suoi. 

Se si riflette in modo avveduto, la condizione abietta non è di chi è più in basso: qualsiasi lavoro dell’operaio non solo non è disonorevole, ma associato alla virtù può molto, e nobilitarsi. Giuseppe, contento del poco e del suo, sopportò con animo forte ed elevato le strettezze inseparabili da quel fragilissimo vivere, dando esempio al suo figliuolo, il quale, pur essendo signore di tutte le cose, vestì le sembianze di servo, e volontariamente abbracciò una somma povertà e l’indigenza. 

Di fronte a queste considerazioni, i poveri e quanti si guadagnano la vita col lavoro delle mani debbono sollevare l’animo, e rettamente pensare. A coloro ai quali, se è vero che la giustizia consente di potere affrancarsi dalla indigenza e levarsi a migliore condizione, tuttavia né la ragione né la giustizia permettono di sconvolgere l’ordine stabilito dalla provvidenza di Dio. Anzi, il trascendere alla violenza e compiere aggressioni in genere e tumulti è un folle sistema che spesso aggrava i mali stessi che si vorrebbero alleggerire. Quindi i proletari, se hanno buon senso, non confidino nelle promesse di gente sediziosa, ma negli esempi e nel patrocinio del beato Giuseppe, e nella materna carità della Chiesa la quale si prende ogni giorno grande cura del loro stato. 

Pertanto, Venerabili Fratelli, ripromettendoci moltissimo dalla vostra autorità e dal vostro zelo episcopale, né dubitando che le pie e buone persone intraprendano molte altre cose, e anche maggiori di quelle comandate da Noi, decretiamo che in tutto il mese di ottobre si aggiunga nella recita del Rosario, da Noi già prescritto altre volte, l’orazione a San Giuseppe, il cui testo riceverete insieme con quell’Enciclica, e così si faccia ogni anno in perpetuo. 

A coloro, poi, che devotamente reciteranno la suddetta orazione, concediamo ogni volta l’indulgenza di sette anni e altrettante quarantene. È anche proficuo e sommamente apprezzabile il consacrare, come già avviene in vari luoghi, con giornalieri esercizi di pietà il mese di marzo in onore del Santo Patriarca. Dove poi ciò non si possa fare agevolmente, sarebbe almeno desiderabile che prima della sua festa, nel tempio principale di ciascun luogo, si celebrasse un triduo di preghiere. 

Raccomandiamo inoltre a tutti i fedeli dei paesi nei quali il 19 marzo, giorno sacro a San Giuseppe, non è compreso nel novero delle feste di precetto, che non trascurino tuttavia per quanto è possibile, di santificarlo almeno privatamente, ad onore del celeste Patrono, quasi fosse giorno festivo. 

Frattanto, auspice dei celesti doni e pegno della Nostra benevolenza verso di voi, Venerabili Fratelli, impartiamo di tutto cuore nel Signore l’Apostolica Benedizione a voi, al Clero e al vostro popolo.

 

 

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 agosto 1889, anno duodecimo del Nostro Pontificato.

 

 Orazione a San Giuseppe 

A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo, e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio dopo quello della tua Santissima Sposa. 

Deh! per quel sacro vincolo di carità che ti strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio, e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, guarda, te ne preghiamo, con occhio benigno la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potere ed aiuto sovvieni ai nostri bisogni. 

Proteggi, o provvido Custode della divina Famiglia, l’eletta prole di Gesù Cristo; allontana da noi, o Padre amantissimo, la peste di errori e di vizi che ammorba il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta contro il potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore; e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del pargoletto Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità: e stendi ognora sopra ciascuno di noi il tuo patrocinio, affinché sul tuo esempio, e mercé il tuo soccorso, possiamo vivere virtuosamente, piamente morire, e conseguire l’eterna beatitudine in cielo. Così sia.

Publié dans:Papi, San Giuseppe |on 18 février, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : Tutti a vedere il « sacro teatro dei cieli ». Un teologo fa da guida

dal sito: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/190141

Tutti a vedere il « sacro teatro dei cieli ». Un teologo fa da guida

Il teologo è Enrico Maria Radaelli. Il suo ultimo libro dal titolo « Ingresso alla bellezza » è la prova che una grande teologia cattolica continua a essere viva, negli anni di Joseph Ratzinger teologo e papa

di Sandro Magister 

ROMA, 15 febbraio 2008 – A predicare in curia gli esercizi spirituali di Quaresima, Benedetto XVI ha chiamato quest’anno il biblista Albert Vanhoye, da lui definito « grande esegeta » e fatto cardinale.

Lo scorso anno aveva chiamato a predicare gli esercizi il cardinale Giacomo Biffi, altro teologo da lui grandemente stimato.

Uno dei più importanti libri di teologia degli ultimi anni, pubblicato di recente in più lingue, è quello di Leo Scheffczyk, « Il mondo della fede cattolica. Verità e forma ». Anche Scheffczyk, scomparso nel 2005, fu fatto cardinale. Il libro è introdotto da un’intervista a Benedetto XVI.

Sono i segni che una grande teologia cattolica continua a essere viva, negli anni di Joseph Ratzinger teologo e papa.

È una teologia tanto profonda e solida quanto poco rumorosa. Il rumore circonda opere più eccitanti ma confuse, come il libro di Vito Mancuso « L’anima e il suo destino », di cui ha dato conto www.chiesa una settimana fa.

Al riparo da simili rumori ma con grande lungimiranza, ad esempio, in Italia l’editrice Jaca Book sta pubblicando gli imponenti « opera omnia » del più insigne studioso al mondo di teologia medievale, Inos Biffi, professore emerito alle facoltà teologiche di Milano e di Lugano. Nessuna parentela tra lui e l’omonimo cardinale, che lo ha amico e lo ritiene senza ombra di dubbio il più grande teologo italiano vivente.

Editorialmente, Inos Biffi è in buona e sceltissima compagnia. Prima di lui la Jaca Book ha pubblicato le opere complete di due altri giganti della teologia cattolica del XX secolo: Henri De Lubac e Hans Urs von Balthasar.

Un’altra editrice, Città Nuova, ha in corso la pubblicazione degli « opera omnia » di un terzo grande teologo della seconda metà del Novecento, Bernard J. F. Lonergan.

Ma c’è di più. La teologia cattolica sta segnando al suo attivo anche nuovi autori e nuovi libri di prima grandezza.

È il caso di Enrico Maria Radaelli, col saggio « Ingresso alla bellezza ». 

* * * 
La tesi portante di « Ingresso alla bellezza » è che il Figlio di Dio non ha solo un « nome » ma due, inscindibilmente connessi. È « Logos » ma anche « Imago ». È verbo ma anche immagine, volto, specchio del divino pensiero. È verità ma anche bellezza del vero.

« Ingresso alla bellezza » è dunque una via maestra per entrare nel mistero del Dio trinitario e incarnato. La bellezza è l’apparire dell’invisibile verità. E, viceversa, l’indicibile dei divini misteri si manifesta negli splendori della liturgia, dell’arte, della musica, della poesia. Sulla copertina del libro c’è un un dipinto di Lorenzo Lotto con un giovane Apollo dormiente ai confini dell’arcano, con le Muse che mimano le sublimi realtà.

L’illustrazione in alto a questa pagina è invece di un pittore del Seicento, Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccia. È un particolare degli affreschi della cupola e della volta della chiesa di Roma dedicata al Santissimo Nome di Gesù, ossia, teologicamente, proprio al duplice nome di « Logos » e « Imago ». Dalla visione di questo « sacro teatro dei cieli » prende il via un articolo dell’autore di « Ingresso alla bellezza », Enrico Maria Radaelli, pubblicato su « L’Osservatore Romano » del 4-5 febbraio 2008.

L’articolo è riprodotto integralmente più sotto e sintetizza con molta efficacia lo spirito e i contenuti del libro. Il quale spazia dalla teologia propriamente detta alla filosofia, dalla Sacra Scrittura alla liturgia, dalla storia alla linguistica, dall’arte alla musica. Memorabili, ad esempio, le pagine sul pittore Michelangelo da Caravaggio e sul musicista Claudio Monteverdi.

Radaelli non è un teologo d’accademia né ha ricevuto gli ordini sacri. Non appartiene all’organico delle università pontificie. È però discepolo di uno dei più acuti intelletti cattolici del Novecento, anche lui semplice laico senza cattedre, lo svizzero Romano Amerio. L’uno e l’altro hanno rivolto e rivolgono critiche severe alle derive secolarizzanti della Chiesa nell’ultimo secolo, alle confusioni nel campo dell’ecumenismo e del rapporto tra le religioni, alle « devastazioni » in campo liturgico. Sempre però in obbedienza al magistero gerarchico e a quella Grande Tradizione senza il cui respiro – insegna Benedetto XVI – non c’è teologia cattolica degna di questo nome.

Quanto alla prossimità tra l’insegnamento di Joseph Ratzinger e le tesi di « Ingresso alla bellezza », è rivelatore quanto ha detto il papa pochi giorni fa, nell’incontro del 7 febbraio col clero di Roma.

Rispondendo alla domanda di un prete che è anche pittore, Benedetto XVI ha detto:

« L’Antico Testamento vietava ogni immagine e doveva vietarlo in un mondo pieno di divinità. Esso viveva nel grande vuoto che era anche rappresentato dall’interno del tempio, dove, in contrasto con altri templi, non c’era nessuna immagine, ma solo il trono vuoto della Parola, la presenza misteriosa del Dio invisibile, non circoscritto da nostre immagini.

« Ma poi questo Dio misterioso [si fa carne in Gesù,] appare con un volto, con un corpo, con una storia umana che, nello stesso tempo, è una storia divina. Una storia che continua nella storia dei santi, dei martiri, dei santi della carità e della parola, che sono sempre esplicazione, continuazione nel Corpo di Cristo di questa sua vita divina e umana, e ci dà le immagini fondamentali nelle quali – al di là di quelle superficiali che nascondono la realtà – possiamo aprire lo sguardo verso la Verità stessa. In questo senso mi sembra eccessivo il periodo iconoclastico del dopo Concilio [Vaticano II], che aveva tuttavia un suo senso, perchè era forse necessario liberarsi da una superficialità delle troppe immagini.

« Adesso torniamo alla conoscenza del Dio che si è fatto uomo. Come ci dice la lettera agli Efesini, Lui è la vera immagine. E in questa vera immagine vediamo – oltre le apparenze che nascondono la verità – la Verità stessa: ‘Chi vede me vede il Padre’. In questo senso possiamo ritrovare un’arte cristiana e anche ritrovare le essenziali e grandi rappresentazioni del mistero di Dio nella tradizione iconografica della Chiesa. E così potremo riscoprire l’immagine vera, [...] la presenza di Dio nella carne ».

__________

Come scoprire nell’edificio sacro il volto dell’Eterno

Da « L’Osservatore Romano » del 4-5 febbraio 2008

di Enrico Maria Radaelli

Alzare lo sguardo e trovarmi come in paradiso fu un tutt’uno: santi e sante, angeli, potenti arcangeli, cherubini, serafini giocosi, rosei, veloci; una festa radiosa, schiere lontane e vicine; tra le nubi papi eccelsi, giovani martiri, severi dottori, estatiche vergini, austeri eremiti; tutti lì, uomini e angeli innumerevoli, sparsi nell’aere dei cieli fino a salire ai cerchi più alti: ecco i patriarchi antichi, il Battista, la Maddalena, gli Apostoli, lo splendore della Vergine, e, al centro, il cuore abbagliante della vita: l’eterna Trinità.

Non ero « fuori di me », ma sotto la volta della cupola della chiesa del Gesù a Roma, a rimirare il grande affresco del Baciccia a nome appunto « La visione del Cielo », uno tra i più belli e ricchi tra tutti quelli disseminati nella Città dei Papi.

Non ero in mistico rapimento dunque, ma in quella mirabile estasi di massa alla quale accedono adoranti i fedeli da duemila anni, allorché, durante i divini misteri, un Dio davvero discende e – come dice Romano Amerio – quel Dio davvero si prende. Da mille e mille anni, siano catacombe o cattedrali, la liturgia trinitaria che si svolge nei cieli discende tra le sue greggi sotto le forme delle sacre Specie. Discende la liturgia e si sostanzia il Cristo, liturgo e vittima. E la Chiesa, con la saggezza di sposa sua e di madre dei chiamati ai sacrosanti misteri, procura di rendere queste greggi sempre edotte della cosa: non solo ammaestrandole con la più veritiera dottrina, ma anche conducendo i loro sensi quasi a toccare la realtà procurata, a metterle, come diceva suor Elisabetta della Trinità, « faccia a faccia pur nelle tenebre » con la Gloria di Dio.

È per tale intima e religiosa necessità, infatti, che ben presto le pareti e le volte delle sacre stanze destinate all’Eucaristia — a partire da quelle nascoste nelle catacombe, poi dei templi pagani convertiti alla Trinità, poi di tutti gli edifici sacri di ogni dimensione e fattezza, sparsi ovunque si diffondesse la cristianità — si dilatano facendo largo ai santi, si dissolvono e trapuntano di stelle, si squarciano dando posto non solo al glorioso passato della Chiesa militante, come coi cortei di vergini e di martiri delle basiliche di Ravenna, ma pure al futuro, già arcanamente presente, della Chiesa trionfante, ai festosi cieli delle cupole che stiamo vedendo, a significare, nella rappresentazione pittorica, la loro effettiva se pur nascosta discesa.

Quanto era stato realmente ricevuto nei cuori era ciò da cui i cuori erano circondati; la realtà invisibile sull’altare era visibile intorno all’altare, e i fedeli perdonavano il dolce inganno suggerito dagli artisti, ben sapendo che gli occhi vedevano cieli « finti » — che ispiravano realtà arcanamente già vive — ma non « falsi », ossia che non sbagliavano realtà. Dunque cieli « profetici » di realtà a venire, mentre le loro bocche ricevevano cieli « veri » e i loro cuori si allargavano a una realtà già presente in tutta la sua divinità e in tutta la sua umanità.

La realtà eucaristica, intorno alla quale si radunano i popoli facendo Ekklesia, adunanza di chiamati, Chiesa, sollecita da subito il suo insegnamento e al tempo stesso la sua visibilità. Se fosse necessario, la Chiesa vergherebbe in oro zecchino, come già faceva a suo tempo nei codici medievali, i caratteri delle pagine di dottrina, in modo da far risaltare la nobiltà, la somma superiorità, anzi la divinità che esse sottendono.

In qualche modo, Verità e Bellezza sono accompagnate dalla stessa premura: la Verità di irrompere in pienezza nei cuori, la Bellezza di rifulgere nel suo splendore sui muri.

L’ispirazione di dare agli edifici sacri la forma di croce nasce direttamente dalla sacralità dell’Eucaristia, sicché ai fedeli pare quasi di introdursi direttamente nel legno della croce e nel corpo stesso di Cristo — al quale davvero accederanno — quasi potesse verosimilmente avvenire quel mistico inserimento nel sacramento ecclesiale, anticipo d’eternità.

Nel Quattrocento Filippo Brunelleschi aggiunge ai muri che con la loro disposizione cruciforme rimandano fisicamente al mistero dell’incarnazione, la figurazione architettonica dell’altro e più alto mistero, la Trinità, e reinventa nella cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze la cupola quale « luogo cosmico » per incrociare adeguatamente i bracci longitudinale e trasversale della basilica cristiana proprio lì dove batte il cuore di Cristo, lì dove si compie il Sacrificio, dando così modo alla chiesa di trasfondere nei suoi fedeli altri necessari ed eccelsi pensieri: lì dove l’Alto discende sull’altare, « alzate gli occhi », o fedeli, e « vedrete » tutto ciò che attraverso l’altare vi è entrato nel cuore.

Con il ricorso alla cupola il geniale architetto — come poi tutti i grandi e meno grandi architetti rinascimentali e barocchi — dà modo alla chiesa di poter suggerire alla cristianità forse la più compiuta e profonda metafora della Trinità che si possa avere sotto le vestigia dell’arte, almeno da come ci viene descritta nelle pagine specialmente di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, per illustrare con la massima verosimiglianza l’indicibile e sommo arcano dove batte il cuore di Cristo. Il cuore di Cristo batte infatti per il Padre, quel Padre che l’ha generato « prima dell’aurora » (Salmo 109, 3), quel Padre a cui offre il proprio sacrificio per aprirne le cateratte di misericordia — che sono poi in realtà egli stesso: il Cristo.

Che cosa dicono infatti della Trinità quei grandi dottori della Chiesa? San Tommaso, in specie, raccogliendo nel « De Trinitate » della sua « Summa Theologiæ » (I, 27-43) la più compiuta formulazione di tutte le verità scritte dai santi teologi sull’argomento, ci offre la sintesi più esauriente e in qualche modo a noi più comprensibile, per concludere che la santissima Trinità è simile a una mente che con le sue operazioni pensa e ama.

Anche sant’Agostino accenna alla stessa analogia, in particolare nel suo « De Trinitate », X, 10, 18, che infatti sarà d’ispirazione agli sviluppi dell’altro dottore, l’Angelico. Naturalmente il mistero trinitario si eleva al di là di ogni figura, almeno per il fatto che quanto viene assimilato a una mente è in realtà una Persona, cosa valevole anche per un pensiero, altra Persona, e per la stessa loro « spirazione », che è la Terza. Ma l’analogia proposta dai due dottori resta utile almeno « per chiarire — riassume bene Battista Mondin nel suo ‘Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino’ — come in Dio sia possibile a un tempo la sussistenza di tre individui distinti e l’identità della natura, senza cadere nel politeismo ».

Si potrà apprezzare ancor più l’opera materna della Chiesa allorché essa, dopo aver sviluppato adeguatamente la similitudine in teologia, mettendo al lavoro le sue menti più alte e sante, la traslocherà dai libri ai muri nell’influsso che avrà sui suoi artisti, di modo che la Chiesa parrà quasi una sconfinata Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana, dove libri e quadri sono accostati in un unico insieme, e la Trinità potrà essere adorata sia sui libri, sia poi quando gli uomini alzeranno gli sguardi sul gran cupolaio romano, verso le potenti curve della cupola di San Pietro, sia quando un parroco di paese alzerà gli occhi verso l’umile cupoletta della sua chiesuola di campagna.

Ma cerchiamo di capire la relazione tra la cupola e il mistero trinitario e, ancor prima, di capire come questo sia stato spiegato da san Tommaso.

Una mente che intende — dice l’Aquinate — genera o emana un pensiero, che è il « logos », il « verbum ». La mente è il principio — prima del quale altro non c’è — del pensiero che spira da essa, e questo è il motivo per cui la Persona divina da cui è generato l’Unigenito si chiama « Padre »: perché una mente ha la paternità del pensiero che ne viene generato.

Ma ciò nasce dalla mente — il pensiero — non sarebbe di per sé un pensiero ma un nulla se non rispecchiasse in sé la mente da cui procede, se non riflettesse la sua natura. Non si avrebbe il pensiero, se esso non fosse la perfetta immagine della mente da cui spira.

È così che accanto al « Logos », o « Verbum », emerge con forza il concetto di « Imago »: il nome, lo specchio, il volto, solo grazie al quale è perfettamente sorretta la somiglianza tra Figlio e Padre. Come spiega san Tommaso: « Il Figlio procede come Verbo, e il concetto di verbo implica somiglianza di specie con il soggetto da cui procede [e che è il Padre] » (« Summa Theologiae » I, 35, 2).

Nel caso della Trinità il pensiero generato dalla mente del Padre è il pensiero che dice tutto della mente da cui nasce e di cui è lo specchio fedele e completo. È il pensiero dell’ »essere », in conformità a ciò che Dio dice di sé quando alla domanda su chi Egli sia, quale sia il suo Nome, Egli risponde: « Io sono Colui che sono » (Esodo 3, 14). La mente è la realtà forte dell’essere; e il pensiero generato dalla mente esprime l’ »essere », ossia ne è il Verbo, è la Parola infinita, positiva, forte, di « Io sono Colui che sono ».

La cosa si capisce meglio se torniamo alla nostra cupola, che, tra l’altro, possiamo riscontrare anche piuttosto somigliante alla testa di un uomo. La cupola si erge alta nel cielo, incurvandosi verso il centro, verso la lanterna da dove riceve la luce. Le sue pietre scaricano le loro forze lungo i costoloni, e questi le scaricano potentemente verso il basso, in modo tale che, ricevendo più giù, sotto il tiburio, le spinte contrarie dei bracci delle navate su cui poggia, esse vengano corrette nella loro traiettoria e restino all’interno dell’area di appoggio, e ciò va notato, perché tutto questo potente costrutto viene così a costituire in qualche modo il corrispettivo architettonico di quello che nella Trinità è dato dalla persona del Padre: la potente stanzialità dell’ »Essere », e ciò non a caso, poiché da sempre la pietra è stata chiamata dall’uomo a testimoniare la solida fermezza dell’eternità; si pensi per esempio a tutte le volte che Giacobbe alza grandi pietre per stabilire che lì, in quei certi luoghi, « per sempre » sarà ricordato il Signore che gli ha parlato.

La volta della cupola è, dunque, nella sua possanza il Padre, e come il Padre essa è. E potentemente è, voltando il cielo in una larga immensità tenuta in piedi da pilastri immani. Ed ecco che, ancora come il Padre, la volta della cupola spira dalla potenza delle pietre l’affresco dei cieli, emana cioè il Figlio, genera sull’infinita superficie del suo « essere » il Pensiero che rispecchia il Padre e la sua potenza. Come lo genera? Con la più esaustiva illustrazione della sua essenza, cioè di tutto ciò che il Padre rimira in sé. Quello che vediamo, quasi fossimo nella Mente del Padre, è il Logos, è la visione della Gloria di Dio come la vede in sé Dio, e ciò per via quasi di una trasudazione di figure e colori dalle pietre della cupola — ecco l’azione dello Spirito Santo — perché le pietre della cupola « parlano », e rivelano in cosa consista la beatitudine del proprio celestiale firmamento.

Struttura architettonica e affresco sono tutt’uno. Sicché la cupola quasi spira ed emana l’affresco e l’affresco esprime e manifesta la volta della cupola. L’affresco si vede, la cupola non si vede, come quando Gesù dice: « Chi vede Me vede il Padre » (Giovanni 14, 9). Chi vede il « Logos », « Imago » e Affresco del Padre, vede il Padre che l’ha generato, vede la divina Cupola che l’Essere dà a sé e alla sua intellettuale spirazione.

L’analogia della cupola mette in campo con forza quella che senza dubbio si presenta come una delle più significative scoperte teologiche di san Tommaso d’Aquino, non mai però successivamente scavata nei notevolissimi suoi risvolti scientifici e filosofici. Parlo del secondo Nome del Figlio, « Imago », che, sulla base qualificata delle Sacre Scritture (Giovanni 14, 9; Colosses, 1, 15; Ebrei 1, 3), l’Angelico pone con autorità accanto al primo nome, « Logos », tanto quanto la rappresentazione di un pensiero va posta accanto al pensiero, il volto di un concetto accanto al concetto, l’espressione di una nozione accanto alla nozione. Come potrebbe infatti un pensiero esprimersi – ossia, dall’etimo, « premersi fuori di sé » – se non attraverso il suo volto, la sua effigie, la sua immagine? Anzi, si deduce da san Tommaso, un pensiero neanche esisterebbe se non si formulasse in un suo volto: sarebbe un nerume, uno sgorbio, un rumore.

Nell’epoca che stiamo passando — di relativismo, di debolezza e scoordinamento dell’arte dalla religione — l’avere il Figlio due Nomi e non uno, ossia essere il Figlio tanto la « Imago » quanto il « Verbum » del Padre, permette di ristabilire un legame forte, soprannaturale, tra Bellezza e Verità.

La similitudine della cupola non può ovviamente soddisfare in tutto, ma sembra la più riuscita raffigurazione associabile alla Trinità in architettura, e, non a caso, segnala con ineguagliata forza icastica la cattolicità di un edificio.

Sarebbe dunque anche un atto notevolmente religioso reinventare la cupola in termini attuali, ricchi come siamo oggi di materiali elastici quasi fatti apposta per piegarsi alle esigenze, diciamo così, « trinitarie ». L’importante è che ne sia preservato il carattere di sacro « teatro dei Cieli », rispettata la proporzione aurea — misura quasi sacra, per la sua stretta attinenza al « Logos » —, esaltato il mistero aureo della Trinità, dalla cui sublime liturgia può discendere la più superba arte. Davvero una « trinoliturgica » arte, per rendere alla Verità la più adeguata divina Bellezza. 

Publié dans:Sandro Magister |on 18 février, 2008 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 18 février, 2008 |Pas de commentaires »

« Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro »

dal sito: 

http://levangileauquotidien.org/

San Clemente di Roma, papa dal 90 al 100 circa
Lettera ai Corinzi, 49-50

« Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro »

Chi ama Cristo osserva i suoi comandamenti. Chi è in grado di parlare della carità di Dio ? Chi saprebbe dire la sua incomparabile bellezza ? L’altezza a cui giunge la carità è inenarrabile. La carità ci rende una sola cosa con Dio, « la carità copre una moltitudine di peccati » (1 Pt 4,8)… Per la carità che ebbe verso di noi, il nostro Signore Gesù Cristo diede per volontà divina il suo sangue per noi e il suo corpo per il nostro, e la sua vita per la nostra vita.

Voi capite, carissimi, quanto grande e meravigliosa sia la carità, e come non sia possibile spiegare la sua perfezione. Chi merita di essere trovato in essa all’infuori di quelli che Dio avrà stimato degni ? Preghiamo dunque, e chiediamo alla sua misericordia di essere trovati nella carità perfetta, senza alcuna parzialità umana. Tutte le generazioni, da Adamo fino a oggi, sono passate : ma quelli che per grazia di Dio si sono perfezionati nella carità ottengono il posto riservato ai giusti e all’avvento del regno di Dio saranno riconosciuti…

Amici, beati noi se avremo adempiuto nell’unione della carità i precetti del Signore, di modo che per la carità ci siano rimessi i peccati.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 18 février, 2008 |Pas de commentaires »

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