…l’elogio della «debolezza».

dal sito: 

http://www.atma-o-jibon.org/italiano/home_it.htm  

INTERVISTA 

Esce un libro di Vittorino Andreoli che tesse l’elogio della «debolezza».


Un «j’accuse» verso i potenti che calpestano i diritti e la dignità degli altri.
A colloquio con l’autore. 

 L’ultima virtù, la fragilità   «Non gli uomini della guerra fanno la storia, ma quelli veramente saggi».
«Gandhi non è stato « premier » e Gesù si è lasciato crocifiggere». 

Lucia Bellaspiga
(« Avvenire », 25/1/’08) 

Vittorino Andreoli, uno dei più autorevoli psichiatri italiani, punto di riferimento per comprendere drammi umani e comportamenti estremi, è un uomo « fragile ». Una « contraddizione »? Un colpo di scena? Niente affatto: «Ho dedicato il mio tempo alla follia, alla sofferenza che sdoppia le identità e fa di un uomo uno « schizofrenico ». Un lavoro che molti ritengono esclusivo dei forti, degli uomini di ferro… Ebbene, se ho aiutato i miei matti è grazie alla mia fragilità». L’uomo potente, « granitico », non dà spazio agli altri perché non ha crepe, solo il fragile sa comprendere e amare i « frammenti » di un uomo spezzato e metterli insieme. Perché è di vetro e sa frangersi lasciando entrare l’amore. « L’uomo di vetro » è l’ultimo libro di Andreoli (« Rizzoli », 180 pagine, 12 euro), un inno sincero a «la forza della fragilità» (è il « sottotitolo »), e una feroce denuncia di potenti e « tracotanti »: loro sì i veri deboli. 

Una lucida « disamina » del mondo d’oggi ma anche un libro altamente « autobiografico ». 

«Ma questo fa parte dell’essere psichiatra: non posso parlare degli altri se non mi metto in gioco. Questo libro è nato dalla mole impressionante di interventi che mi vengono chiesti: ho capito che la gente mi percepisce come il grande « luminare », l’uomo forte, così ho sentito il bisogno di rivendicare la mia fragilità. È lei che mi permette di essere un medico». 

Un « elogio della fragilità » va decisamente « controcorrente », oggi. 

«Ci hanno a lungo insegnato a nascondere le nostre paure, ci hanno detto che piangere è una debolezza. La realtà è opposta: solo l’uomo fragile prova l’amore, l’amicizia, la solidarietà, perché ha bisogno dell’altro e lo ammette. Il potente crede di bastare a se stesso e così non sa amare: l’uomo di ferro è freddo, evita il confronto, se si lega all’altro è per « sottometterlo ». Non c’è nulla di più simile alla fragilità dell’amore, quando ami non sei più capace di vivere senza l’amato, lo invochi, ti senti incompleto. I due si cercano ed è bellissima l’idea che l’amore sia lo scambio di due fragilità». 

« Socraticamente » lei identifica il fragile con l’uomo saggio, colui che sa di non essere perfetto. Al contrario oggi il « tracotante » vince. 

«È vero, io conosco molti saggi ma non sono noti a un mondo che si lascia colpire solo dai potenti, da chi fa « baccano », spesso con le armi per conquistare terre e uomini. Il potente si fonda sulla cultura del nemico, si regge solo su un « antagonista » da eliminare, per lui l’altro è solo un pericolo. Il saggio invece non ama il potere, desidera solo vivere sereno e la serenità ha come premessa di non avere nemici. Non teme nulla, e per questo è deriso dal potente, fieramente circondato da « guardie del corpo » che gettano occhiate in giro per individuare nemici nascosti ovunque». 

Un’immagine molto reale, non « metaforica ». 

«L’avanzamento delle società, checché se ne dica, è nelle mani dei saggi, mai dei politici con i loro missili intelligenti o le mine antiuomo. Sono stati i saggi antichi a rimanere seduti la notte a osservare le stelle, mentre i potenti andavano a « depredare ». Finché dominerà la logica della guerra e il sistema della conquista, anche se tutti la definiscono difesa, sarà segno inequivocabile che la saggezza è estranea al mondo e che i saggi sono uomini sereni ma emarginati. Eppure sono loro i veri forti, mentre i potenti vivono nella paura e si difendono con la violenza». 

C’è molto Machiavelli, qui… 

«Infatti Machiavelli deve educare il « Principe » al potere. Io la vedo come lui, ma dalla prospettiva opposta, io educherei all’amore: la nostra società è in « agonia », vive di dominio, di successo, di denaro, non c’è più tempo per piccole modifiche, è ora di « capovolgimenti » o andiamo a morire. Un’utopia? Può essere, certo i potenti non mollano, ma la vera storia è fatta tutta dai fragili, dai « perdenti »: Gandhi non è mai stato un « premier », Cristo si è lasciato crocifiggere, sono loro che cambiano il mondo». 

Un affascinante capitolo ci porta a individuare chi è uomo e chi no. 

«Non lo è chi aspira ad avere cose e « soggiogare » persone, chi non si vergogna della sua incoerenza e la chiama « flessibilità », chi violenta un bambino per una « convulsione » di piacere, chi pensa di essere perfetto e colloca tutti gli altri nella « pattumiera » del mondo: i campi di concentramento oggi sono nelle strade, dove circolano uomini senza essere visti. Chi lascia che dall’altra parte del mondo i bambini muoiano senza cibo e senza un farmaco perché lì non circola moneta di valore, chi non si cura della solitudine dei vecchi… Il mondo è pieno di « non uomini »». 

Chi è uomo, allora? 

«Chi sa cos’è il dolore perché ne è stato colpito e non ha dimenticato, chi non si ritiene onnipotente, chi sa gridare aiuto, cantare inni di speranza a un Signore che forse non c’è ma che sente il bisogno di pregare». 

Ma se la fragilità è la somma delle virtù, anche Dio non può che essere di vetro. 

«Quello che prego è un dio della fragilità, un dio « minore », che sappia amare e capire, un dio piccolo che aiuti con la propria paura, che affermi che questo mondo è malato.
Il dio dei « despoti » è freddo, irritabile, genera timore: io voglio un dio che abbia paura della morte anche se è eterno, che conosca l’angoscia, la voglia di accarezzare mentre si produce un lamento di dolore…». 

Ma questo è Gesù Cristo. 

«È certo lui l’immagine che più si avvicina alla mia fragilità: ha pianto, ha rimproverato Dio che è nei cieli, ha sofferto in croce, è stato insultato, ha agito nell’impotenza, è stato lasciato solo a sudare sangue nei « Getsemani ». È lui il mio Dio, ma l’incontro non è ancora avvenuto: ho aspettato tanto, mi sono « profumato » nell’attesa e ancora non è venuto nessuno. Il mio terrore? Morire senza aver capito nulla, senza la grazia che trasforma il dramma in benedizione. Un « aldilà » con un dio potente anziché fragile». 

Publié dans : Approfondimenti |le 15 février, 2008 |Pas de Commentaires »

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