di Pinchas Lapide: Brani tratti da: « Il discorso della Montagna »
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di Pinchas Lapide
(biografia)
Pinchas Lapide (1922-1997), console d’Israele a Milano negli anni ’60, è stato una grande figura di esegeta neotestamentario ebreo, che molto si è adoperato per il dialogo ebraico cristiano. Il suo libro «Il discorso della montagna» – ritraducendo il greco del testo neotestamentario nella lingua d’origine – ricostruisce l’ambiente storico e spirituale in cui venne pronunciato il più dirompente dei discorsi di Gesù e fornisce una versione inedita delle beatitudini evangeliche. Ne pubblichiamo alcuni brani significativi che mostrano consistenza e attualità soprattutto in momenti di crisi quali quelli che stiamo oggi attraversando. Da essi emerge con grande chiarezza la connessione inscindibile tra ebraismo e cristianesimo, nonché la continuità e novità dell’insegnamento di Gesù
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Brani tratti da: « Il discorso della Montagna »
Comandamento dell’odio per il nemico?
Alla citazione frammentaria di Mt. 5,43 relativa al cosiddetto «amore per il prossimo» fa subito seguito l’accenno a un comando di odio per il nemico che è impossibile possa provenire da Gesù in persona. Si tratta del singolare imperativo «odia il tuo nemico!», che smentisce l’ethos di tutta quanta la Bibbia.
La supposizione recentemente formulata – secondo la quale questo «odio per il nemico» si riferirebbe alla regola della setta di Qumran (1QS 1,3 s.) dove si parla di «odio contro tutti i figli delle tenebre» (cioè tutti gli avversari dell’ordine) – sembrerebbe un po’ tirata per i capelli, in quanto entrambe le introduzioni «avete inteso» e «è detto» vengono usate sia nel discorso della montagna sia nella letteratura rabbinica per introdurre tradizioni bibliche.
All’epoca di Gesù la setta di Qumran era ancora troppo recente, troppo distante e troppo piccola per poter essere considerata in Galilea una norma – o un’antinorma – conosciuta.
Ciò ha nel frattempo incontrato il consenso generale. Un esempio per tutti è qui fornito dalla cattolica Bibbia di Gerusalemme che, a proposito dell’odio per il nemico che a quanto pare verrebbe imposto, riconosce: «La seconda parte di questo comandamento… non si trova, tale e quale, nella legge né si potrebbe trovare».(3)
Ancor più esplicito è Ethelbert Stauffer che per la sua famigerata degiudaizzazione di Gesù, al tempo di Hitler poteva considerarsi al di sopra di ogni sospetto di filosemitismo: «Da sempre la sinagoga ha giustamente protestato contro Mt. 5,43. Non esiste una legge che prescriva l’odio per il nemico, né nell’Antico Testamento né nel Talmud.
Non è improbabile che qui Gesù sia ricorso al verbo ebraico «odiare» nella sua seconda accezione, molto meno forte, e che ci è nota attraverso due dei suoi logia.
Riguardo alle condizioni per seguirlo Gesù dice ai discepoli: «Se uno viene a me e non odia suo padre e sua madre, sua moglie e i suoi figli, e persino la sua stessa vita, costui non può essere mio discepolo» (Lc. 14,26). Riguardo alla dinamica morire-divenire, nel discorso di commiato afferma: «Chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv. 12,25).
Qui il verbo «odiare» ha il significato biblico di stimare poco, amare meno, come ad esempio nell’oracolo di Dio: «Ho amato Giacobbe, ma ho odiato Esaù» (Mal. I, 2-3 e Rom. 9,13). Il medesimo significato si evince dal passo che si riferisce all’uomo con due mogli, «una che egli ama, e una che odia» (Deut. 21,15). A questo proposito il Talmud pone la domanda retorica: « Vi sono forse davanti a Dio gli amati e gli odiati ?» Jebamot 23a).
Questa lettura meno drastica dell’intento dichiarativo di Gesù non è certo da respingere, tuttavia sia la tradizione biblica a cui qui ci si riferisce, sia il contesto interno di questa supertesi non appoggerebbero questa eventualità. Sembrerebbe dunque più opportuno attribuire quest’affermazione denigratoria al redattore finale di Matteo, il quale non si lascia sfuggire occasione per inserire nel suo originale battute polemiche e frecciate antigiudaiche. Questa ipotesi trova sostegno anche nel parallelo lucano del cosiddetto discorso della pianura, dove questo «odio» non riceve menzione alcuna.
Il sentimento opposto all’odio per il nemico è molto più familiare all’ebraismo. Hillel il Saggio, che molti studiosi considerano uno dei maestri del giovane Gesù, insegnava ai suoi discepoli: «Annovera tra gli scolari di Aronne colui che ama la pace e aspira alla pace, colui che ama le creature e fa loro conoscere la Torà» (Abot l, 12), affermazione che include chiaramente sia l’amico sia il nemico.
Nei Proverbi di Salomone è scritto: «Non rallegrarti per la caduta del tuo nemico, e se egli soccombe non gioisca il tuo cuore!» (Prov. 24,17). Dal versetto i rabbi traggono questa conclusione: «Nella Scrittura sta scritto per tre volte che in occasione della festa delle capanne bisogna gioire (Deut. 16,14 e 15; Lev. 23,40). Ma per la festa della pasqua, sebbene essa celebri la liberazione del popolo, la gioia non è menzionata in nessun passo della Scrittura. Perché? Perché in tale occasione hanno perso la vita gli egiziani «nemici» (Pesiqta rab Kahana 189a). Neppure tra le accuse che Giobbe formula contro se stesso manca questo problema di coscienza: «Ho gioito forse della disgrazia di chi mi odia e ho esultato perché lo ha colpito la sventura? No, io non ho permesso alla mia bocca di peccare maledicendo la sua anima con una imprecazione!» (Giob. 31,29 s.).
Qui è detto chiaro e tondo che il nemico è proprio colui che mi odia, dunque il mio nemico soggettivo, che oggi è mio avversario ma domani non deve esserlo più; e comunque egli non cessa di essere il mio rea’, neppure se agisce male nei miei confronti. Sta scritto infatti: «Non vendicarti e non serbare rancore!» (Lev. 19,18). E più chiaramente ancora: «Non dire: voglio ricambiare il male! Confida nel Signore ed egli ti aiuterà» (Prov. 20,22).
Salomone ripete per chi è duro d’orecchi: «Non dire: come ha fatto a me così io farò a lui; io renderò a ciascuno come si merita» (Prov. 24,29). E se poco più avanti è detto (25,22): «Il Signore ti ricompenserà», i rabbi leggono in modo diverso l’ultimo verbo (jashlim invece di jeshalem) spiegando così l’aggiunta: «II Signore lo porterà alla pace con te» (Midrash Prov. 25,22). E a proposito dei nemici mortali di Israele nella Bibbia si dice: «Non avrai in abominio l’idumeo; è tuo fratello. Non disprezzerai l’egiziano, perché tu sei stato forestiero nel suo paese» (Deut. 23,8).
In qualità di viceré d’Egitto, Giuseppe dice ai suoi fratelli contriti: « Voi avevate pensato di farmi del male, ma Dio ha pensato di farlo diventare un bene»; questo «bene» riceve immediatamente una spiegazione: «per mantenere in vita un popolo numeroso» (Gen. 50,20), espressione che si riferisce agli egiziani stessi.
Nella letteratura rabbinica l’universalità dell’amore per il prossimo spesso include esplicitamente «colui che odia»: «Non dire: amerò coloro che mi amano, e odierò coloro che mi odiano, ma ama tutti!» (Testamento di Gad 6).
A questo divieto di rivalsa i rabbi associano l’esaltazione dell’umile padronanza di sé, che pongono sullo stesso piano dell’amore per Dio: «Riguardo a coloro che vengono umiliati e non umiliano, che ascoltano le loro ingiurie e non rispondono, che agiscono per amore e gioiscono per il castigo, di costoro è detto (Giud. 5,31): ‘Coloro che amano Dio sono come il sorgere del sole nel suo splendore’» (Joma 23a; Gittin 36b).
Poiché ogni rivalsa prende a modello del proprio agire il comportamento altrui, in fondo a soffrirne sono due esseri fatti a immagine di Dio: tu e tuo fratello. La conclusione è evidente: «Quanti vengono tormentati e non tormentano; odono la loro infamia e non ribattono; agiscono per amore e si rallegrano per il dolore, sono questi ad amare Dio!» (Shabbat 88b). Tuttavia, poiché «colui che odia» non può restare eternamente un nemico, ma potrebbe essere semplicemente vittima di un sentimento involontario, mutevole come tutte le cose umane, rabbi Natan ne trae questa conseguenza costruttiva:
«Chi è l’eroe più grande del paese?». Egli stesso risponde a questa sua domanda pedagogica: «Colui che conquista l’amore del suo nemico» (Abot de-r. Natan 23). Non si tratta certo di qualcosa al di fuori della portata dell’uomo, come ribadiscono i rabbi osservando che la differenza tra «nemico» (‘ojeb) e «amante» (‘oheb) risiede in un’unica lettera. La domanda è: perche non dovremmo riuscire a trasformare uno jod in un he ?
Infine l’intimidazione rabbinica – pienamente in linea con Gesù – ammonisce: «Chi odia il suo rea’ fa parte di coloro che spargono il sangue» (Derek ‘ Eres rabba II).
Un esempio per tutti chiarisce come vadano tradotti nella pratica quotidiana principi così elevati: interpretando Es. 21,1 s. il Talmud stabilisce che si deve salvare il ladro che si introduce nottetempo in una casa e che per sventatezza finisce in pericolo di vita, anche se così facendo si deve profanare il sabato (Sanhedrin 72b). Rabbi Nehonja insegnava a pregare ai suoi discepoli: «La tua volontà sia… che non nasca nel cuore di nessun uomo l’odio per noi, che nessuno sia geloso di noi e che noi non siamo gelosi di nessuno… e che tutte le nostre opere siano a te gradite come suppliche» (jBerakot 4,7d). Di spirito analogo, la preghiera di Mar Bar Rabina è talmente significativa da meritare di essere ripetuta ancora oggi per ben tre volte durante la liturgia sinagogale: «Mio Dio, proteggi la mia lingua dal demonio e le mie labbra dal proferire inganni. E nei confronti di coloro che mi maledicono, ammutolisci la mia anima, e la mia anima sia come polvere per tutti» (Berakot I7a). Che non ci si accontenti della preghiera è testimoniato da un veterano di guerra giudaico del primo secolo: «Bisogna trattare con bontà anche il nemico (sconfitto)», sostiene Giuseppe per esperienza propria (Contra Apionem 2,28,209).
Ma l’aiuto, l’assistenza e la premura per il nemico compaiono già nel primo libro di Mosè: Abramo prega per Abimelek, il re di Gerar, che gli aveva portato via la moglie Sara (Gen. 20,17), e implora la guarigione del suo avversario. Giuseppe perdona i fratelli, che lo avevano venduto come schiavo, «li consolò e parlò amichevolmente con loro» (Gen. 50,18-21).
Per cinque volte Mosè prega per la prosperità del faraone e degli stessi egiziani, che avevano tenuto sottomesso per secoli il popolo d’Israele e infine avrebbero voluto annientarlo: «Il faraone disse: Vi lascerò partire …, ma non andate troppo lontano e pregate per me! Mosè rispose: …Pregherò il Signore perché domani i mosconi si ritirino dal faraone e dal suo popolo… E il Signore fece come aveva pregato Mosè» (Es. 8,24-27). Solo che per l’ennesima volta il faraone lo ingannò, poi chiese perdono, e dopo l’eliminazione di ciascuna delle prime nove piaghe regolarmente ruppe la parola data: ciò nonostante Mosè fece intercessione per lui e per il suo popolo, e venne ascoltato.
Giobbe, provato dalla sofferenza, prega parimenti per i falsi amici che gli propinano ipocrite parole di consolazione, «e il Signore esaudì Giobbe» (Giob. 42,9).
La stessa cosa avviene per il giovane Davide, che risparmia il re Saul quando lo ha tra le mani, inerme, sebbene più volte questi avesse cercato di farlo uccidere. «Io non ho peccato contro di te», dice il pastorello al suo mortale nemico e sovrano, «tu invece mi dai la caccia per prendermi la vita» (1 Sam. 24,12). Che con questa sua magnanimità Davide non costituisse un’eccezione tra i sovrani d’Israele è testimoniato dalla storia del re degli aramei Ben-Hadad, che combatte per anni guerre contro Israele finché il re Acab riuscì a sconfiggerlo e a mettere in fuga il suo esercito. La narrazione prosegue così: «Ben-Hadad fuggì in città e si nascose… Allora i suoi ministri gli dissero: Ecco, abbiamo sentito che i re della casa d’Israele sono re clementi’:.. Forse ti lascerà in vita… E si recarono dal re d ‘Israele e dissero: Il tuo servo Ben-Hadad ti manda a dire: Lasciami in vita! …Ma Acab disse: …Egli è mio fratello! …Allora Ben-Hadad si recò da lui. E Acab lo lasciò salire sul suo carro…, concluse con lui un’alleanza e lo lasciò andare» (1Re 20,30-34).
Dopo che Geremia ha inutilmente predicato nella sua città natale la pacifica sottomissione a Nabucodonosor, re di Babilonia, la città santa viene distrutta, il tempio ridotto in macerie e «il popolo che era rimasto nella città venne soggiogato come bestiame e deportato in prigionia» (2 Re 25,8 ss.).
Intorno all’anno 594 a.C. il profeta scrive «ai deportati», ai quali i dominatori babilonesi chiedevano di «cantare e di gioire di cuore» (Sal. 137,3). «Cercate il meglio della città (Babilonia) in cui vi ho fatto deportare!». Così parla Dio attraverso la sua bocca, per poi chiedere agli esiliati di intercedere per i loro oppressori: «E pregate il Signore per essa! Dal suo benessere infatti dipende il vostro benessere» (Ger. 29,7).
Gli eventi storici diedero ragione a Geremia: la preghiera degli esiliati venne esaudita, e la diaspora babilonese conobbe uno dei maggiori periodi di fioritura nella storia ebraica.
Giustamente il sinodo regionale della Chiesa Evangelica in Renania nel regolamento dell’11.1.1980 «Per il rinnovamento del rapporto tra cristiani ed ebrei» conclude: «Nella tradizione ebraica e in quella cristiana l’amore di Dio abbraccia tutte le sue creature. In quanto immagine di Dio e suo partner, l’uomo deve improntare il suo agire a questo modello divino». Nell’ebraismo e nel cristianesimo, perciò, egli non può «sottrarre il suo amore al prossimo, neppure se questi è il suo nemico, perché anche il nemico è una creatura amata di Dio. Non deve quindi stupire se nell’ebraismo già prima di Gesù, contemporaneamente a lui e dopo di lui all’uomo si comanda di amare il suo nemico… Non è dunque giustificato affermare che soltanto Gesù, ‘attraverso il precetto dell’amore per il nemico’, avrebbe liberato da ogni limite il comandamento dell’amore per il prossimo».
E comunque va sottolineato che, nonostante i numerosi paralleli e analogie nella letteratura ebraica che allargano l’amore per il prossimo sino a includere anche i più distanti, e che proclamano tutte le creature di Dio degne di amore, tuttavia non vi è nel patrimonio educativo ebraico un solo comando esplicito riguardante l’amore per il nemico. Quindi l’imperativo «amate i vostri nemici!» nel linguaggio dei teologi è un lascito strettamente gesuanico.
È forse diventato anche un atteggiamento pratico caratteristico dei cristiani, come lasciano intendere numerose prediche e conferenze ? Cercando casi dimostrabili di amore per i nemici, il teologo Ethelbert Stauffer ne ha trovati solo quattro: «Gesù stesso, che già in croce riusciva a pregare: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!» (Lc. 23,34). Il martire Stefano, che muore dicendo: «Signore, non imputare: loro questo peccato!» (Atti 7,60). Giacomo, fratello di Gesù, che nell’ora della morte prega così: «lo prego, Signore, Dio, Padre, perdona loro perche non sanno quello che fanno».
L ‘ultimo caso è più recente: «Il 20 ottobre 1958 la Grande Camera Penale del Tribunale del Voivodato di Varsavia apre il processo contro il Gauleiter (4) Erich Koch. L’ accusato viene tradotto dal carcere di Varsavia. Il primo giorno di udienza Koch dichiara: ‘Se sono ancora in vita lo devo esclusivamente a una grande donna, la dottoressa della prigione, dott.ssa Kaminska’. La dott.ssa Kaminska è ebrea».(5)
Volendo essere franchi, bisogna aggiungere che anche gli altri tre erano ebrei! E non sono rimasti gli unici. Tanti sopravvissuti ai campi di concentramento hanno cercato scrivendo di dare uno sfogo ai loro sentimenti repressi, e la breve poesia dell’ebrea Ilse Blumenthal Weiss ne è un chiaro esempio:
Non riesco a odiare
mi picchiano, mi prendono a calci.
Non riesco a odiare.
Posso solo espiare,
per te e per me.
Non riesco a odiare
mi strangolano.
Mi tirano pietre.
Non riesco a odiare.
Posso solo piangere
amaramente.
Ad Auschwitz, Jules Isaac, lo storico e pedagogo ebreo francese, perse la famiglia intera. Ciononostante, nel 1947 con l’opera Jesus und Israel riuscì a porre la prima pietra di un’intesa tra ebrei e cristiani. Fu proprio questo libro a indurre successivamente papa Giovanni XXIII – a quell’epoca ancora nunzio a Parigi – a inserire il rapporto tra chiesa ed ebraismo nell’ordine del giorno del concilio Vaticano II. L’ultimo capitolo del volume si conclude con una domanda aperta: «Il bagliore del forno crematorio di Auschwitz è per me il faro che guida tutti i miei pensieri. Oh, fratelli miei ebrei, e anche voi, fratelli miei cristiani, non credete che esso si confonda con un altro bagliore, quello della croce sul Golgota?».(6)
Leo Baeck è stato l’ultima grande mente del rabbinato tedesco. Per tre volte gli fu offerta la possibilità di emigrare per mettere in salvo sé e la famiglia. Per tre volte rifiutò l’offerta, che gli appariva come una fuga dalla sua missione. Volle rimanere con il suo popolo in qualità di maestro «finché anche un solo ebreo rimarrà in Germania», come si narrerà in seguito in una storia del lager. Le SS lo impiegarono come cavallo da tiro per tirare ogni giorno il carro carico dei secchi delle latrine.
Ciononostante, in baracche di legno, in magazzini o a cielo aperto, ogni sera teneva conferenze su Platone e Kant, su Isaia, Giobbe e Gesù – un discorso della montagna, durato anni, proveniente dal fondovalle dell’abbandono, che con fermezza testimoniava la buona novella di entrambi i testamenti: «Il nostro Padre nei cieli non è morto – anche se uomini a sua immagine sono diventati dei bruti!». Quando i russi liberarono il campo di concentramento di Theresienstadt, di cui fino all’ultimo egli rimase il fulcro spirituale, rabbi Baeck faceva parte, per caso o per provvidenza, dei prigionieri – 9.000 su 140.000 – che riuscirono a sopravvivere agli orrori del lager.
«Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!» (Lc. 23,34). Così pregò un tempo per i suoi torturatori rabbi Jeshua sulla croce romana. Nel 1945 rabbi Baeck mise in campo tutta la sua influenza personale per proteggere i sorveglianti e tutto il corpo di guardia da atti di vendetta e non appena si fu ripreso spiritualmente e fisicamente, fu tra i primi a promuovere la riconciliazione fra tedeschi ed ebrei. La sua preghiera, che risale ai primi anni del dopoguerra, non ha bisogno di commento:
«Sia pace agli uomini di cattiva volontà, e sia posta fine a ogni vendetta e a ogni discorso di punizione e castigo… È impossibile misurare le atrocità; esse sono al di là di ogni confine della comprensione umana, e innumerevoli sono i martiri… Perciò, o Dio, non misurare con la bilancia della giustizia le loro sofferenze, per non imputarle ai loro boia chiedendone un conto terribile, ma agisci diversamente! Accredita piuttosto ai boia e ai delatori e ai traditori e a tutti i malvagi e metti loro in conto tutto il coraggio e la forza d’animo degli altri, il loro accontentarsi, la loro nobile dignità, il loro tacito impegnarsi malgrado tutto, la speranza che non si dà per vinta, e il coraggioso sorriso che ha fatto asciugare le lacrime, e tutti i sacrifici, tutto l’amore ardente, …tutti i cuori tormentati e straziati che però sono rimasti saldi e sempre fiduciosi, di fronte alla morte e nella morte, sì, anche le ore della debolezza più profonda… Tutto ciò, o Dio, deve contare davanti a te come riscatto per il perdono della colpa, deve contare per una risurrezione della giustizia – deve contare tutto il bene, e non il male. E che nel ricordo dei nostri nemici noi non siamo più le loro vittime, non più il loro incubo e fantasma, ma piuttosto il loro aiuto, perché cessi il loro furore… Solo questo si esige da loro e che noi, una volta che tutto sia finito, possiamo tornare a vivere come uomini tra uomini, e che scenda di nuovo la pace su questa povera terra, sugli uomini di buona volontà, e che la pace scenda anche sugli altri».(7)
Tutto ciò che ci ha lasciato Itzchaq Katznelson, ebreo credente, direttore del ginnasio cittadino di Lodz, è una poesia intitolata Il dolore dell’ultimo ebreo. Essa fu scritta lungo la strada per Maidanek sul retro di tre buste, e sebbene l’autore sapesse che la sua meta finale sarebbe stata la camera a gas, non un pensiero di vendetta, non una parola d’odio uscì dalle sue labbra. Ciò che è riuscito a trasmetterci suona piuttosto come una teologia della sofferenza espiatrice vicaria che irradia tutta la sua grandezza d’animo. Ecco che cosa scrive:
Salito sulla croce è il mio popolo,
che espia per la colpa del mondo.
Se mai il mio è stato un popolo eletto
perché soffrisse per altri
allora adesso, allora adesso!
poiché non è ancora mai morto un ebreo
purificato come ciascuno di quelli che ci appaiono piccoli
a Varsavia, a Vilnius o a Wohlhynien.
Perché da ogni ebreo grida inorridito
un Geremia – ognuno è un asso quanto a delusione – che piange per tutti.
Durante la prima intervista rilasciata da Menachem Begin al giornalista tedesco Hans-Joachim Schilde, che si svolse a Gerusalemme il 3 novembre 1978, al primo ministro fu chiesto: «Ma dopo Auschwitz lei riesce ancora a credere in Dio?». Rispose: «Sì, ci riesco, perché Auschwitz è la nostra offerta per la giustizia di Dio in questo mondo. Credo nella direzione di Dio nella politica. Se Hitler non avesse sterminato gli ebrei, avrebbe forse vinto la guerra. Se non ci fosse la divina provvidenza, Hitler avrebbe costruito per primo la bomba atomica… e in tal caso il nostro mondo sarebbe un unico immenso carcere. Sarebbe cominciata l’era delle tenebre… In questa lotta per la sopravvivenza dell’umanità, noi ebrei abbiamo offerto il sacrificio maggiore… Forse era il prezzo da pagare per non far vincere Hitler».
Il Salmo 109, attribuito a Davide, parla di nemici spietati. Il v. 4 proclama: «poiché io li amo, loro mi sono ostili; io però prego». Il midrash rabbinico applica questa espressione al destino di dolore di tutto Israele: «Invece di amarmi, essi mi odiano», così dice Israele alle nazioni. «Dovreste amarci, perché abbiamo offerto per voi settanta sacrifici nel tempio di Gerusalemme; ma voi non ci amate, anzi, ci odiate; ciononostante noi preghiamo per voi!» (Midrash e Jalqut Shimoni su Sal. 109,4).
Se l’amore concreto per il nemico appartiene al cuore del cristianesimo, allora talvolta mi è difficile capire chi sia più vicino a Gesù, se i fratelli carnali dell’ebraismo, oppure i discepoli battezzati che provengono dal mondo dei gentili. (8)
(3) Bologna 1974, nota a Mt. 5,43.
(4) [Capo dell'organizzazione nazionalsocialista di un distretto].
(5) Die Botschaft Jesu,Bern 1959,146.
(6) Jesus und Israel, Wien 1968,463.
(7) Leo Baeck in Angst-Sicherung-Geborgenheit, di Th. Bevet, Bielefeld 1975
(8) Un esempio contemporaneo, simile a quelli citati, può essere Padre Massimiliano
Kolbe, morto nel campo di Oswiipcim nel 1941 e, più recenti ancora, numerosi casi di
missionari uccisi in Africa [n.d.r]

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