The Garden of Delights
Jeroen Bosch
central panel from The Garden of Delights, Madrid, Museo Nacional del Prado
Jeroen Bosch
central panel from The Garden of Delights, Madrid, Museo Nacional del Prado
dal sito:
http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010328_massimo-confessore_it.html
La misericordia di Dio verso coloro che si pentono dei loro peccati
« Tutti i predicatori della verità, tutti i ministri della grazia divina e quanti dall’inizio fino a questi nostri garni hanno parlato a noi della volontà salvifica di Dio, dicono che nulla è tanto caro a Dio e tanto conforme al suo amore quanto la conversione degli uomini mediante un sincero pentimento dei peccati.
E proprio per ricondurre a sé gli uomini Dio fece cose straordinarie, anzi diede la massima prova della sua infinita bontà. Per questo il Verbo del Padre, con un atto di inesprimibile umiliazione e con un atto di incredibile condiscendenza si fece carne e si degnò di abitare tra noi. Fece, patì e disse tutto quello che era necessario a riconciliare noi, nemici e avversari di Dio Padre. Richiamò di nuovo alla vita noi che ne eravamo stati esclusi.
Il Verbo divino non solo guarì le nostre malattie con la potenza dei miracoli, ma prese anche su di sé l’infermità delle nostre passioni, pagò il nostro debito mediante il supplizio della croce, come se fosse colpevole, lui innocente.
Ci liberò da molti e terribili peccati. Inoltre con molti esempi ci stimolò ad essere simili a lui nella comprensione, nella cortesia e nell’amore perfetto verso i fratelli. Per questo disse: « Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi » (Lc 5, 32). E ancora: « Non sono i sani che hanno bisogno del.:medico, ma i malati » (Mt 9, 12). Disse inoltre di essere venuto a cercare la pecorella smarrita e di essere stato mandato alle pecore perdute della casa di Israele. Parimenti, con la parabola della dramma perduta, alluse, sebbene velatamente, a un aspetto particolare della sua missione: egli venne per ricuperare l’immagine divina deturpata dal peccato. Ricordiamo poi quello che dice in un’altra sua parabola: « Così vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito … » (Lc 15, 7). Il buon samaritano del vangelo curò con olio e vino e fasciò le ferite di colui che era incappato nei ladri ed era stato spogliato di tutto e abbandonato sanguinante e mezzo morto sulla strada. Lo pose sulla sua cavalcatura, lo portò all’albergo, pagò quanto occorreva e promise di provvedere al resto. Cristo è il buon samaritano dell’umanità.
Dio è quel padre affettuoso, che accoglie il figliol prodigo, si china su di lui, è sensibile al suo pentimento, lo abbraccia, lo riveste di nuovo con gli ornamenti della sua paterna gloria e non gli rimprovera nulla di quanto ha commesso. Richiama all’ovile la pecorella che si era allontanata dalle cento pecore di Dio. Dopo averla trovata che vagava sui colli e sui monti, non la riconduce all’ovile a forza di spintoni e urla minacciose, ma se la pone sulle spalle e la restituisce incolume al resto del gregge con tenerezza e amore. Dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed io vi darò riposo (cfr. Mt 11, 28). E ancora: « Prendete il mio giogo sopra di voi » (Mt 11, 29). Il giogo sono i comandamenti o la vita vissuta secondo i precetti evangelici. Riguardo al peso poi, forse pesante e molesto al penitente, soggiunge: « Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero » (Mt 11, 30). Insegnandoci la giustizia e la bontà di Dio, ci comanda: Siate santi, siate perfetti, siate misericordiosi come il Padre vostro celeste (cfr. Lc 6, 36); « Perdonate e vi sarà perdonato » (Lc 6, 37) e ancora: « Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro » (Mt 7, 12).«
Dalle « Lettere » di san Massimo Confessore, abate (Lett. 11; PG 91, 454-455)
dal sito:
http://puglialive.net/home/news_det.php?nid=10274
La Paternità spirituale in Divo Barsotti – Fiera del Levante – Bari
domenica 17 febbraio, ore 9.30 – 15.30
La Comunità dei figli di Dio celebrerà a Bari domenica 17 febbraio il secondo anniversario della morte del suo fondatore con una giornata di studio dal tema: “La paternità spirituale in Divo Barsotti”.
All’evento, in programma dalle 9.30 alla Fiera del Levante, interverranno Padre Roberto Fusco, Superiore della Fraternità Francescana di Betania; S.E. Monsignor Francesco Cacucci, Arcivescovo di Bari-Bitonto; Padre Serafino Tognetti, Superiore generale della Comunità dei figli di Dio.
Alle 10 si discuterà della “paternità spirituale nella Chiesa Orientale” con Padre Germano Marani, Padre spirituale al Russicum, professore al Pontificio Istituto Orientale e all’Università Gregoriana di Roma. A seguire “La paternità spirituale nel pensiero e nella vita di don Divo Barsotti” con Monsignor Giovanni Speciale, Prefetto degli Studi dell’Istituto Teologico “Guttadauro” di Caltanissetta.
L’approfondimento sulla “Rilevanza e necessità della paternità spirituale nella Chiesa contemporanea” con il Professor Giancarlo Cesana, Ordinario di Igiene Generale ed Applicata dell’Università di Milano – Bicocca, Membro Consiglio Presidenza della Fraternità di Comunione e Liberazione, sarà preceduto da un intermezzo musicale a cura del Maestro Felice Iafisco e del soprano Tina de Luca.
Alle 15 in cattedrale, prima della Concelebrazione Eucaristica presieduta da S.E. Monsignor Francesco Cacucci, l’ultimo momento di approfondimento dal tema “Oltre la parola, Divo Barsotti poeta”.
Il capoluogo pugliese è stato scelto per la sua straordinaria unione con l’Oriente cristiano. La Comunità dei figli di Dio è cattolica, ma legata a santi della cristianità Orientale e in particolare russi, come San Sergio di Radonez, patrono della Russia, a cui è intitolata la casa madre a Firenze. Tra le preghiere della Comunità, poi, ce ne sono alcune proprie della Liturgia Orientale.
I figli di Dio contano gruppi in tutti e cinque i Continenti. Gli ultimi sono sorti in Nuova Zelanda, Sri Lanka, Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Australia, Benin in Africa e Medjugorie. Complessivamente i Consacrati (monaci nel mondo) sono 2.500, dei quali 2.200 in Italia. In Puglia ci sono gruppi a San Severo, Foggia, San Giovanni Rotondo, Palo del Colle, Modugno, Mola di Bari, S.Spirito, Bari, Brindisi, Oria, Mesagne e Lecce.
Divo Barsotti – è nato a Palaia (PI) nel 1914. Pochi anni dopo l’ordinazione sacerdotale, per interessamento di Giorgio La Pira, del quale era molto amico, si è trasferito a Firenze, dove ha iniziato la sua attività di predicatore e di scrittore. La sua produzione letteraria è notevolissima: più di 160 libri, molti dei quali tradotti in lingue straniere, tra cui il russo e il giapponese; diverse centinaia di articoli su quotidiani e riviste di spiritualità. Ha scritto commenti alla Sacra Scrittura, studi su vite di santi, opere di spiritualità, diari e poesie. Insignito di diversi riconoscimenti letterari fra cui quello della Presidenza del Consiglio. Unanimamente riconosciuto come mistico, ha predicato gli Esercizi Spirituali in Vaticano a Paolo VI e alla curia romana, ricevuto da Papa Giovanni Paolo II e negli ultimi anni della sua vita riconosciuto dalla Chiesa Universale come uomo di Dio ed ultimo mistico del’ 900. E’ stato inserito tra le dieci personalità religiose più eminenti del ‘900. Si stanno raccogliendo testimonianze e documenti per il processo di beatificazione. Divo Barsotti ha fondato la “Comunità dei figli di Dio”, formata da uomini e donne, giovani e anziani, sposati e non sposati, sacerdoti e laici che vivono nel mondo e religiosi che vivono in case di vita comune, uniti in un’unica famiglia religiosa di monaci mediante una consacrazione alla quale si donano “al Verbo, alla Vergine Madre e alla Chiesa”. Il Padre è morto a Settignano (FI) il 15 febbraio 2006.
Segreteria organizzativa del convegno 380.3161034, 080.2467221, www.figlididio.it, segreteriacfd@cheapnet.it
dal sito:
http://www.santamelania.it/approf/sacchi/dante1.htm
Dante a settecento anni dal viaggio della “Commedia” IN VIAGGIO VERSO DIO, di Carlo Maria Martini
La Repubblica, sabato 9 settembre 2000, pp. 1 e 50-51
L’articolo di Carlo Maria Martini, che vi presentiamo, concludeva una serie di testi proposti da “la Repubblica” nel settembre 2000, per celebrare uno strano anniversario: non della nascita o della morte del poeta, ma del suo viaggio (immaginario) nell’oltretomba, che Dante colloca, come è noto, nella Settimana Santa dell’anno 1300.
Martini propone una lettura del Paradiso da un punto di vista esclusivamente spirituale, trattando la Commedia non come il testo più venerabile della nostra tradizione letteraria, ma piuttosto come testimonianza dell’esperienza interiore di un uomo. Questa prospettiva dà alla sua lettura un’immediatezza eccezionale, e gli permette di leggere in modo nuovo, sorprendente, alcuni dei temi chiave dell’opera (uno fra tutti, la figura di Beatrice).
Il “segreto” sta proprio nell’essersi posto davanti al poema con i soli strumenti del cristiano (e del sacerdote, e del biblista…), non con quelli della critica storica. E si dimostra, così, che una lettura del genere è possibile e persino facile: basti pensare che la sola affermazione iniziale, che Martini propone quasi en passant , secondo cui la Commedia sarebbe un’illustrazione del principio agostiniano “il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”, è costata a John Freccero, uno dei massimi dantisti americani viventi, un intero libro ( Dante e la poetica della conversione ).
Guido Sacchi
“Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23, 43). E’ la promessa fatta da Gesù al ladro sulla croce e fatta a tutti coloro che volgono lo sguardo implorante a quel costato trafitto (“in quel che, forato da la lancia,/ e prima e poscia tanto sodisfece/ che d’ogne colpa vince la bilancia”) (Dante, La Divina Commedia , Paradiso , XIII 40-42). E’ la manifestazione della gloria e della misericordia di Dio; ed è la promessa che il cristiano Dante, per grazia, ha come pregustato in modo del tutto particolare. Il cammino della sua esistenza, come il viaggio raccontato nel poema sacro, è interamente sostenuto da questo desiderio di essere con Cristo, di poter contemplare la sua gloria, il suo “volto”, senza mediazioni, faccia a faccia, in quella visione-comunione in cui si placherà l’ansia di ogni umana ricerca.
Il principio agostiniano – “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finchè non riposa in te” – è alla base di tutto il pellegrinaggio della Commedia, connotato fin dall’inizio dalla ricerca di un vero “in che si queta ogne intelletto” (XXVIII 108) e dall’adesione amorosa alla Sua volontà, nella quale soltanto è la nostra pace.
Quando noi vogliamo ciò che Lui vuole, ogni nostro vero desiderio è sostenuto da Lui. Desiderio e inquietudine sono spia evidente dell’umano limite, ma si rivelano, d’altra parte, interna testimonianza dell’esistenza di un Bene che non delude, perchè anche ciò che affascina l’uomo allontanandolo da Dio non è altro che “vestigio”, traccia mal conosciuta del divino splendore.
Questo Bene, per il cristiano Dante, ha un volto.Il volto di Dio.
“Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26, 9). L’accorata invocazione accompagna integralmente l’itinerarium mentis in Deum del poeta:
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace
(XXX 100-102)
Ogni “più vedere” è scoperta, o riscoperta, di un aspetto del volto di Dio; dalla sua “gloria” che risplende in tutto l’universo, al mistero trinitario, radice di ogni essere e di ogni bene. Dio è l’eterno, il punto “a cui tutti li tempi son presenti” (XVII 18); è infinito, è Bene (che non ha fine a sé con sé misura” (XIX 51); ma soprattutto è amore, è luce che “sola e sempre amore accende” (V 9), è l’amore che muove il sole e le altre stelle, e l’intera creazione è unicamente libera, gratuita espansione dell’amore divino, nata nel giorno in cui “s’aperse in nuovi amor l’etterno amore” (XXIX 18). E questo amore ha, naturalmente, il volto cristiano del mistero trinitario.
Dante si accanisce quasi a tradurre in parole umane l’appassionata contemplazione del mistero, a volte semplicemente parafrasando le formule della fede (“e credo in tre persone etterne, e queste / credo una essenza sì una sì trina, / che soffera congiunto sono ed este ”) (XXIV 139-141), altre riducendo quasi l’immagine a numero in un supremo tentativo di sintesi (XIV 28-30), e altre ancora affidandosi all’elemento paradisiaco per eccellenza, quello della luce:
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi !
(XXXIII 124-126)L’esclamazione conclude la rappresentazione dei “tre giri / di tre colori e d’una contenenza” – uno come arcobaleno riflesso dall’altro, mentre il terzo sembra fuoco che spiri da entrambi – ma non conclude la “visione”, non è questo il fine cui tende l’ardore dell’umano desiderio. Nell’immagine riflessa Dante vede, dello stesso colore, la nostra effige: questa è la realtà “ultima”, il volto umano nel secondo cerchio. Tutto dipende dal comprendere “come si convenne l’imago / al cerchio”, come nell’eterno giro stia l’immagine di un volto umano, come abbia potuto accadere che il Verbo di Dio si sia fatto uomo. Da questo evento è sorretto ogni passo del pellegrinaggio, questa è l’ultima visione. Ora Dante sa che il mondo è finito, ma insieme conservato nell’essere per sempre; che l’esistenza umana è limitata e passeggera ma rimane vera nell’eternità di Dio; che l’uomo è un soffio, ma quanto compie nel tempo ha valore eterno.
La città di Dio e la città dell’uomo
D’altra parte soltanto lasciando che lo sguardo sprofondi sempre maggiormente nella luce di Dio, in quel volto che sempre “eccede” la nostra capacità di comprensione e di amore, è possibile scoprire la vera immagine di quelle realtà che portano impresse il suo sigillo, a cominciare da quella santa sposa che Cristo fece sua “ad alte grida” e col suo “sangue benedetto”. In Dio Dante riscopre il vero volto della chiesa voluta da Cristo, la chiesa degli apostoli, costruita unicamente sul “verace fondamento” della parola del Maestro: nella buona battaglia per la diffusione della fede il vangelo soltanto fu “scudo e lancia”. Senza oro né argento, “magri e scalzi, / prendendo il cibo da qualunque ostello” (XXI 128-129), Pietro e Paolo sparsero il buon seme della parola fecondandolo con il loro sangue; e così fecero Lino, Anacleto, Sisto, Pio, Callisto, Urbano… Questa chiesa amarono e servirono Benedetto, Francesco, e tutti gli altri che non hanno deviato dal loro insegnamento.
Quasi riflesso civile della chiesa “apostolica” e “monastica” è la Firenza antica, dove, nella primitiva cerchia delle mura, una campana segna ancora le ore conferendo un senso profondamente religioso al trascorrere del tempo, e la felicità pacifica dei vecchi cittadini sembra strettamente collegata alla sobrietà della loro vita: non vestiti tanto vistosi da imporsi alla considerazione più delle persone stesse, non case vuote, non camere testimoni di lusso e di lussuria. Le donne lavorano tranquille in casa e si occupano amorevolmente dei propri bambini, parlano con loro e ne calmano il pianto adattandosi alla tenera lingua infantile. In questa Firenze di riposata convivenza civile, senza odi, tra cittadini fidati, dove tutto cooperava a una semplice ma solida vita familiare e politica, vivere era dolce. L’ombra della fede, per la quale anche il trisavolo Cacciaguida ha sacrificato la propria esistenza passando dal martirio alla pace del paradiso, si estende protettiva sulla vita pubblica, persuadendo al rispetto dei valori.
Certo nessuno vede tanto chiaramente anche il male quanto chi vede tutto in Dio. Il volto della chiesa e dello stato è orribilmente sfigurato da quella insaziabile cupidigia considerata da San Paolo una specie di idolatria. La casa del Signore corre sempre il rischio di diventare “spelonca di ladri”, soprattutto quando sono fuorviati, e fuorvianti, gli stessi pastori. I privilegi sono venduti e falsificati, le divisioni lacerano anche la chiesa, le offerte sono sottratte ai poveri che ne sono i legittimi proprietari, la Scrittura è trascurata o contraffatta e i predicatori, per orgoglio o vanità, raccontano le favole di una superficiale sapienza mondana tesa unicamente a solleticare l’uditorio; e pochi ormai salgono la santa “scala di Giacobbe” nel silenzio orante dei chiostri, mentre fede e innocenza sembrano appannaggio soltanto dei bambini.
La sete dei facili guadagni e l’inurbamento incontrollato sembrano aver travolto definitivamente anche la possibilità di una sicura e serena convivenza civile. Falsità, superbia, “la lussuria e ‘l viver molle”, avarizia e viltà hanno contagiato gli stessi principi. Quando la città dell’uomo è ridotta a luogo di scambi economici, perdendo di vista la necessità di relazioni simboliche, affettive, culturali e religiose, diventa inevitabilmente “noverca”, matrigna, lasciando il cittadino orfano, sradicato.
Ma il cristiano Dante, il figlio della chiesa militante dotato di più grande speranza, ha la grazia di poter contemplare la luce del trionfo di Cristo che con la sua Pasqua ha nuovamente riaperto agli uomini la via del cielo: ancora una volta l’intervento divino raddrizzerà la barca di Pietro “e vero frutto verrà dopo ‘l fiore” (XXVII 148). La storia è guidata da una Provvidenza che è sapienza e amore, e nulla può impedire la salvezza, se non il definitivo uso distorto del dono grande e terribile della propria libertà. Entrano in paradiso Raab, la prostituta, e la debole Piccarda; gli spiriti “attivi” con il loro amore per la fama e per la gloria e il vecchio Salomone con i suoi cedimenti; Romeo che abbandona il proprio posto perchè ingiustamente calunniato e Folchetto con la sua inclinazione amorosa. La salvezza viene dalla fede in Cristo, ma nessuno ne è escluso a priori, come testimonia la presenza del pagano Rifeo; piuttosto il monito è ancora quello evangelico, rivolto a chi dice “Signore, Signore” e che si troverà, nel giorno del giudizio , “assai men prope / a lui, che tal che non conosce Cristo” (XIX 107-108).
dal sito:
http://levangileauquotidien.org/
Sant’Antonio di Padova (circa 1195 – 1231), francescano, dottore della Chiesa
Discorsi per la domenica
« Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore »
« Amerai il Signore Dio tuo ». Dio ‘tuo’, viene detto; e questo è un motivo per amarlo maggiormente; amiamo infatti molto di più ciò che è nostro di ciò che ci è estraneo. Certo che il Signore Dio tuo merita di essere amato; si è fatto tuo servo, perché tu gli appartenessi e non arrossissi nel servirlo… Durante trent’anni, il Dio tuo si è fatto tuo servo, a causa dei tuoi peccati, per strapparti alla schiavitù del diavolo. Amerai dunque il Signore Dio tuo. Colui che ti ha creato si è fatto tuo servo, per causa tua; a te ha dato se stesso interamente affinché tu potessi darti a te stesso. Mentre eri infelice, ha rifatto la tua felicità, ti ha dato se stesso per renderti a te stesso.
Amerai dunque il Signore Dio tuo « con tutto il tuo cuore ». ‘Tutto’: non puoi tenere per te alcuna parte di te. Egli vuole l’offerta di tutto te stesso. Ha riscattato tutto in te, con tutta la sua persona, per possedere tutto te stesso, lui solo. Amerai dunque il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore. Non tenere, come Ananià e Saffira, una parte di te, poiché allora potresti perire come loro. Ama dunque totalmente e non in parte. Dio infatti non ha diverse parti; è tutto in tutto. Non vuole nessuna spartizione nel tuo essere, colui che è tutto intero nel suo Essere. Se riservi una parte di te, sei tuo, e non suo.
Vuoi dunque possedere tutto? Dàgli ciò che sei e ti darà ciò che è. Non avrai più nulla di tuo ; ma avrai in pienezza sia Lui che te.
giovedì della III settimana del tempo ordinario,
Ufficio delle letture, liturgia delle ore;
Seconda Lettura
Dal trattato «L’orazione» di Tertulliano, sacerdote
(Cap. 28-29; CCL 1, 273-274)
Ostia spirituale
L’orazione è un sacrificio spirituale, che ha cancellato gli antichi sacrifici. «Che m’importa», dice, dei vostri sacrifici senza numero? Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Chi richiede da voi queste cose? » (cfr. Is 1, 11).
Quello che richiede il Signore, l’insegna il vangelo: «Verrà l’ora», dice, «in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. Dio infatti è Spirito» (Gv 4, 23) e perciò tali adoratori egli cerca.
Noi siamo i veri adoratori e i veri sacerdoti che, pregando in spirito, in spirito offriamo il sacrificio della preghiera, ostia a Dio appropriata e gradita, ostia che egli richiese e si provvide.
Questa vittima, dedicata con tutto il cuore, nutrita dalla fede, custodita dalla verità, integra per innocenza, monda per castità, coronata dalla carità, dobbiamo accompagnare all’altare di Dio con il decoro delle opere buone tra salmi e inni, ed essa ci impetrerà tutto da Dio.
Che cosa infatti negherà Dio alla preghiera che procede dallo spirito e dalla verità, egli che così l’ha voluta? Quante prove della sua efficacia leggiamo, sentiamo e crediamo!
L’antica preghiera liberava dal fuoco, dalle fiere e dalla fame, eppure non aveva ricevuto la forma da Cristo.
Quanto è più ampio il campo d’azione dell’orazione cristiana! La preghiera cristiana non chiamerà magari l’angelo della rugiada in mezzo al fuoco, non chiuderà le fauci ai leoni, non porterà il pranzo del contadino all’affamato, non darà il dono di immunizzarsi dal dolore, ma certo dà la virtù della sopportazione ferma e paziente a chi soffre, potenzia le capacità dell’anima con la fede nella ricompensa, mostra il valore grande del dolore accettato nel nome di Dio.
Si sente raccontare che in antico la preghiera infliggeva colpi, sbaragliava eserciti nemici, impediva il beneficio della pioggia ai nemici. Ora invece si sa che la preghiera allontana ogni ira della giustizia divina, è sollecita dei nemici, supplica per i persecutori. Ha potuto strappare le acque al cielo, e impetrare anche il fuoco. Solo la preghiera vince Dio. Ma Cristo non volle che fosse causa di male e le conferì ogni potere di bene.
Perciò il suo unico compito è richiamare le anime dei defunti dallo stesso cammino della morte, sostenere i deboli, curare i malati, liberare gli indemoniati, aprire le porte del carcere, sciogliere le catene degli innocenti. Essa lava i peccati, respinge le tentazioni, spegne le persecuzioni, conforta i pusillanimi, incoraggia i generosi, guida i pellegrini, calma le tempeste, arresta i malfattori, sostenta i poveri, ammorbidisce il cuore dei ricchi, rialza i caduti, sostiene i deboli, sorregge i forti.
Pregano anche gli angeli, prega ogni creatura. Gli animali domestici e feroci pregano e piegano le ginocchia e, uscendo dalle stalle o dalle tane, guardano il cielo non a fauci chiuse, ma facendo vibrare l’aria di grida nel modo che a loro è proprio. Anche gli uccelli quando si destano, si levano verso il cielo, e al posto delle mani aprono le ali in forma di croce e cinguettano qualcosa che può sembrare una preghiera.
Ma c’è un fatto che dimostra più di ogni altro il dovere dell’orazione. Ecco, questo: che il Signore stesso ha pregato.
A lui sia onore e potenza nei secoli dei secoli. Amen.
di Gianfranco Ravasi
(da Avvenire, Agora’, 24 novembre 2002)
Tutti i giornali hanno dato notizia di un articolo apparso sul numero di ottobre-novembre 2002 della Biblical Archaeology Review in cui un noto studioso francese, André Lemaire, informava sulla scoperta dell’iscrizione aramaica: “Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù”, incisa sul lato di un’urna funeraria databile al I sec. d.C. e appartenente a una collezione privata. In attesa di una documentazione più ampia e specifica (la rivista in questione, anche se settoriale, è divulgativa), l’attenzione s’è spostata sull’antica questione dei “fratelli” di Gesù. Ricostruiamo gli antefatti storici della questione, partendo da un paio di passi marciani. Gesù passa dal suo villaggio, Nazaret. E’ sabato e va da buon ebreo in sinagoga ove tiene un discorso che impressiona tutti. Scattano subito le reazioni tipiche di un piccolo paese e lo stupore si trasforma in ironia e sospetto: “Da dove gli vengono queste doti? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui con noi?” (Mc 6, 2-3). Fin dalle origini cristiane ci si è interrogati proprio sull’identità di questi “fratelli e sorelle” rispetto ai quali Gesù sembra prendere le distanze anche in un’altra occasione. Un giorno, infatti, gli comunicano: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano!” E Gesù: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” Poi, dopo aver girato lo sguardo sugli uditori, continua: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi fa la volontà di Dio, costui è per me fratello, sorella e madre” (Mc 3, 31-35). Anche lo storico giudaico Giuseppe Flavio (I sec.) nella sua opera Antichità giudaiche (XX, 200) parla di Giacomo, responsabile della Chiesa di Gerusalemme, come di un “fratello di Gesù detto il Cristo”. Una prima e antica identificazione di questi “fratelli” appare in uno scritto apocrifo (cioè non accolto nel Canone delle Sacre Scritture) composto nel II secolo, il cosiddetto Protovangelo di Giacomo. In esso Giuseppe, al momento del matrimonio con Maria, confessa: “Ho figli e sono vecchio, mentre lei è una ragazza!” (9,2). I “fratelli” di Gesù sarebbero per quest’opera “fratellastri”, nati da un precedente matrimonio di Giuseppe. Sempre nel II secolo un autore cristiano di origine palestinese, un certo Egesippo, nelle sue Memorie parla di “parenti” di Gesù che furono processati dai Romani sotto l’imperatore Domiziano, quindi sul finire del I secolo. Questa tesi fu accolta anche dal famoso traduttore latino della Bibbia, san Girolamo, che nei “fratelli” e nelle “sorelle” di Gesù vide in pratica i cugini, cioè gli appartenenti al clan familiare di Maria. Egli sostenne questa tesi nell’opera De perpetua virginitate polemizzando aspramente contro un tale Elvidio, suo contemporaneo (IV secolo), che affermava trattarsi invece di figli avuti da Maria e Giuseppe successivamente rispetto a Gesù, tesi sostenuta anche da alcuni esegeti moderni. Uno degli argomenti addotti era la frase del Vangelo di Luca in cui si dice che Maria “diede alla luce il suo primogenito”, Gesù (2, 7). E’, però, da notare che il termine “primogenito” ha di per sé valore giuridico e sottolinea i diritti biblici connessi alla primogenitura. Curiosamente in un documento aramaico del I secolo si parla di una madre (di nome Maria essa pure) che morì dando alla luce “il suo figlio primogenito”.
L’esegesi storico-critica moderna ha fatto notare poi che nell’aramaico o nell’ebraico il termine “fratello” (‘aha’ e ‘ah’ ) indica sia il fratello, sia il cugino, sia il nipote, sia l’alleato: nella Genesi Abramo chiama il nipote Lot “fratello” (13, 8), come fa Labano col nipote Giacobbe (29, 15). Inoltre l’espressione “fratelli del Signore” nel Nuovo Testamento (Atti 1, 14; 1Corinzi 9, 5) designa un gruppo ben definito, quello dei cristiani di origine giudaica legati al clan nazaretano di Cristo. Essi costituirono una specie di comunità a sé stante, dotata di una sua autorevolezza al punto tale da poter proporre un proprio candidato come primo “vescovo” di Gerusalemme, Giacomo (Atti 15, 13; 21, 18). Nel brano sopra citato (Marco 3, 31-35) Gesù sembra ridimensionare i loro privilegi e ridurli all’orizzonte più generale e più significativo della fedeltà alla volontà del Signore. Per altro essi non sono mai chiamati, come Gesù “figli di Maria”. A questo punto, però, entra in scena la nostra iscrizione ove si avrebbe “figlio di Giuseppe” e quindi si inviterebbe a considerare Giacomo come fratello carnale di Gesù, magari come figlio avuto da Maria dopo aver generato Gesù. Prescindendo dal discorso teologico sulla verginità di Maria attestata dalla fede cristiana antica, e rimanendo nell’ambito puramente storico-critico, bisogna essere in realtà molto cauti. Lo stesso Lemaire riconosce che “tenendo conto del numero di abitanti di Gerusalemme (ca. 80.000) e dell’onomastica dell’epoca, vi potevano essere almeno una ventina di Giacomo che avevano un padre chiamato Giuseppe e un fratello denominato Gesù”, trattandosi di nomi comunissimi. Supponendo pure che l’espressione “fratello di Gesù” – piuttosto inattesa in un’epigrafe funeraria – sia stata introdotta proprio per rimandare a Cristo, figura nota, non si potrebbe però storicamente escludere né la tesi della paternità solo legale di Giuseppe nei confronti di Gesù, paternità attestata dal Vangelo di Matteo, né la tesi di una precedente prole di Giuseppe, attestata dall’antica tradizione apocrifa.
Brugmansia suaveolens
http://www.ubcbotanicalgarden.org/potd/2008/02/brugmansia_suaveolens.php#002454