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Sant’Antonio Abate

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17 gennaio : Sant’ Antonio Abate

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Sant’ Antonio Abate 

17 gennaio 

Antonio abate è uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell’Egitto, intorno al 250, a vent’anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l’Oriente. Anche Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, sant’Atanasio, che contribuì a farne conoscere l’esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Conciliio di Nicea. Nell’iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore. (Avvenire) 

Patronato: Eremiti, Monaci, Canestrai 

Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco 

Emblema: Bastone pastorale, Maiale, Campana, Croce a T 

Martirologio Romano: Memoria di sant’Antonio, abate, che, rimasto orfano, facendo suoi i precetti evangelici distribuì tutti i suoi beni ai poveri e si ritirò nel deserto della Tebaide in Egitto, dove intraprese la vita ascetica; si adoperò pure per fortificare la Chiesa, sostenendo i confessori della fede durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, e appoggiò sant’Atanasio nella lotta contro gli ariani. Tanti furono i suoi discepoli da essere chiamato padre dei monaci. 

Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro; a questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo fu il grande movimento spirituale del ‘Monachesimo’, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere; dall’eremitaggio alla vita comunitaria; espandendosi dall’Oriente all’Occidente e diventando la grande pianta spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, s. Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu s. Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse una bella e veritiera biografia.
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”, e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada e venduto i suoi beni, affidata la sorella a una comunità di vergini, si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; dice s. Atanasio, che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, s. Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.
Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la ‘tau’ ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, s. Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, LUG, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato; è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, ma anche in base alla leggenda popolare che narra che s. Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’ e lo portò fuori insieme al maialino recuperato e lo donò all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.
È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.
Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”. 

Autore: Antonio Borrelli 

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“Padre Nostro”, l’invocazione comune di ebrei e cristiani

16/01/2008, dal sito:
http://www.zenit.org/article-13166?l=italian 

“Padre Nostro”, l’invocazione comune di ebrei e cristiani 

XIX Giornata per il dialogo ebraico-cattolico 

Di Mirko Testa

 ROMA, mercoledì, 16 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Questo giovedì si celebra la XIX Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, sul tema “Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano” (Esodo 20,7). 

Dal 1990, infatti, la Conferenza Episcopale Italiana ha dato vita a questa iniziativa coordinata con autorità ed esponenti del mondo ebraico, ed estesa anche in Europa dopo l’incontro ecumenico di Graz (Austria) nel 1998, che fa da preludio alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio). 

In questo modo la Chiesa cattolica intende rispondere ad un’esigenza di maggiore comprensione di sé attraverso la conoscenza delle sue origini ed esprimere un gesto di dialogo e di fraternità verso il popolo ebraico. 

Dal 2005, quale tema generale della Giornata, si è iniziato un programma di riflessione decennale che medita sulle “Dieci Parole” o Decalogo, rivelate a Mosè sul monte Sinai. 

Per accompagnare la ricorrenza ed illustrarne le prospettive ecclesiologiche ed ecumeniche, è stato approntato un Sussidio a firma del Vescovo Vincenzo Paglia, Presidente della Commissione Episcopale CEI per l’ecumenismo e il dialogo, e del Rabbino Giuseppe Laras, Presidente del Tribunale Rabbinico di Milano e del Nord Italia. 

Nel sussidio si ricorda che “i precetti dati al Sinai, e in particolare i Dieci Comandamenti nei quali tutti sono come riassunti e unificati, sono dati all’uomo per la sua santificazione e nel contesto dell’Alleanza di salvezza”. 

“Ciò implica che ‘per l’uomo’ la fede, l’alleanza, il culto e l’etica personale e sociale sono radicalmente unite dinanzi al Signore”, si legge ancora. 

In particolare, il Comandamento che si pone come “Terzo” nell’ordine tradizionale seguito sia da ebrei, che da cristiani ortodossi e protestanti, suona: “Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano. Poiché il Signore non lascerà impunito chi avrà pronunciato il Suo nome invano”. 

“Il Comandamento – spiega il testo – vieta l’uso sconsiderato del nome di Dio per fini falsi o superficiali”, nome che è anzitutto quello di “Avinu” (Is 63,16), “Padre nostro” (Mt 6,9), “l’invocazione più semplice e profonda che la Bibbia rivela al credente ebreo e cristiano”. 

“Il santo Nome si fa preghiera ardente e confidente, che sale dal cuore dei figli e delle figlie, come invocazione benedicente al Padre di tutti, rivoltagli ogni giorno nella Birkat ha-Torà (‘Benedizione della Torà’) ebraica e nel Pater cristiano”. 

Allo stesso tempo, però, Dio attraverso il suo “Nome santo e amorevole” esprime la relazione di Creatore e Redentore con i suoi figli. 

“Da questa fondamentale rivelazione che Dio è Creatore e Padre di tutti noi (cfr. Malachia 2, 10) – prosegue il Sussidio – discende la certezza del Suo amore eterno che si esprime in un’Alleanza irrevocabile, della quale le Dieci Parole costituiscono il sigillo etico per la condotta del popolo di Dio, figli e figlie dell’Altissimo”. 

“Il rispetto, la venerazione, l’adorazione, l’amore verso Dio – si legge ancora nel testo – si esprimono in particolare nelle forme della preghiera e della lode, personale e comunitaria, specialmente nella liturgia ebraica familiare e sinagogale, alla quale Gesù stesso prendeva normalmente parte, e dalla quale dopo di lui la Chiesa attinse per sviluppare i tesori della propria liturgia”. 

“Perciò nella proclamazione e nell’ascolto della Parola di Dio, così come nella recita e nel canto di Salmi e Inni, i cristiani possono tuttora apprendere e godere di quegli stessi tesori spirituali, che costituiscono e nutrono la vita di fede e di fedeltà ebraica ai doni di grazia divini”, conclude poi. 

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Benedetto XVI: una ragione sorda alla fede cristiana inaridisce

16/01/2008, dal sito:

http://www.zenit.org/article-13167?l=italian 

 Benedetto XVI: una ragione sorda alla fede cristiana inaridisce 

Allocuzione del Papa per l’incontro all’Università “La Sapienza” 

Di Mirko Testa

 CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 16 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Una cultura occidentale che, preoccupata della sua laicità e in nome di una “presunta purezza” della ragione, diventi sorda alle verità della fede cristiana rischia di inaridere, sostiene il Papa. 

E’ quanto si legge nel testo dell’allocuzione che Benedetto XVI avrebbe pronunciato nel corso della visita all’Università « La Sapienza » di Roma, prevista il 17 gennaio per l’inaugurazione dell’anno accademico e in seguito annullata a causa delle proteste di un gruppo di docenti e studenti dell’Ateneo. 

Nel discorso preparato per l’occasione, il Papa parla del particolare legame tra fede cristiana e ricerca della verità, come parte integrante della natura e della missione dell’Università, sin dalla sua nascita in epoca medievale. Infatti, la stessa Università “La Sapienza” venne fondata da Papa Bonifacio VIII nel 1303. 

Ponendo come premessa quella di parlare in qualità di “rappresentante di una comunità credente”, “che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità”, si chiede: “Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università?”. 

A questa domanda risponde spiegando che il suo compito sicuramente non è quello di “cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà”, ma di “mantenere desta la sensibilità per la verità”. 

Il Vescovo di Roma infatti intede “invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro”. 

A questo proposito, il Papa mette quindi in luce i presupposti di “ragionevolezza” su cui si fonda il cristianesimo chiamando in causa uno dei più influenti filosofi politici del Novecento, l’americano John Rawls. 

Infatti, questo pensatore, ha spiegato Benedetto XVI, “pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione ‘pubblica’, vede tuttavia nella loro ragione ‘non pubblica’ almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono”. 

Anche un altro grande filosofo tedesco, Jürgen Habermas, che nella sua ultima produzione ha esplorato il rapporto tra religione e Stato liberaldemocratico, ha parlato “della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico”, sottolinea il Pontefice. 

In particolare, continua Benedetto XVI, Rawls “vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina”. 

“In questa affermazione – osserva – mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato”. 

Infatti, i cristiani dei primi secoli “hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati”, ma “come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica” e una indagine “sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano”. 

Essi, “dovevano [...] riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera”, che “ha come scopo la conoscenza del bene”. 

In seguito, grazie anche all’apporto di San Tommaso D’Aquino e al confronto con le filosofie ebraiche ed arabe, nell’ambito dell’Università medievale venne messa in luce “l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze”. 

“Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza”, spiega Benedetto XVI. 

Tuttavia, nei tempi moderni, con il dischiudersi di “nuove dimensioni del sapere” nelle scienze naturali grazie al metodo scientifico-sperimentale, il mondo occidentale corre il rischio che “l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità”. 

“Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita”. 

“Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola”, afferma il Papa 

“Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma”, conclude poi. 

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buona notte

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« Gesù stese la mano e lo toccò »

dal sito: 

http://levangileauquotidien.org/

Giovanni Paolo II
Da una omelia per i giovani

« Gesù stese la mano e lo toccò »

Il gesto affettuoso di Gesù che si avvicina ai lebbrosi, confortandoli e guarendoli, trova nella Passione la sua piena e misteriosa espressione. Suppliziato, sfigurato dal sudore di sangue, dalla flagellazione, dalla corona di spine, dalla crocifissione, abbandonato dal popolo immemore dei suoi benefici, nella sua Passione Gesù si identifica con i lebbrosi; diventa la loro immagine e il loro simbolo, come ne aveva avuto l’intuizione il profeta Isaia nel contemplare il mistero del Servo del Signore: « Non ha apparenza né bellezza. Disprezzato e reietto dagli uomini, come uno davanti al quale ci si copre la faccia… E noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato » (Is 53,2-4). Ma proprio dalle piaghe del corpo suppliziato di Gesù e dalla potenza della sua risurrezione sgorgano la vita e la speranza per tutti gli uomini colpiti dal male e dalle infermità.

La Chiesa è sempre stata fedele alla sua missione di annunciare la parola di Cristo unita al gesto di misericordia solidale nei confronti dei più umili, degli ultimi. Lungo i secoli si è avuto un crescendo di dedizione sconvolgente e straordinaria in favore di quanti erano colpiti dalle malattie umanamente più repellenti. La storia mette nettamente in luce il fatto che per primi i cristiani si sono preoccupati del problema dei lebbrosi. L’esempio di Cristo ha fatto scuola; è stato fecondo in gesti di solidarietà, di dedizione, di generosità e di carità desinteressata.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 17 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

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