Epifania
GENTILE DA FABRIANO (1423),
L’adorazione dei Magi, Galleria degli Uffizi, Firenze
http://www.diocesidicapua.it/Erasmo/Biblioteca/Compendio/parte1.htm
GENTILE DA FABRIANO (1423),
L’adorazione dei Magi, Galleria degli Uffizi, Firenze
http://www.diocesidicapua.it/Erasmo/Biblioteca/Compendio/parte1.htm
dal sito:
http://www.novena.it/ravasi/2003/052003.htm
Gianfranco Ravasi
Simone, il vegliardo che abbraccia Gesù
La modesta famiglia di Nazaret si presenta un po’ spaesata nei cortili del monumentale tempio, eretto dal re Erode a Gerusalemme, per il rito della presentazione a Dio del primogenito, il neonato Gesù. Secondo la legge biblica «ogni maschio primogenito era, infatti, consacrato al Signore» (Esodo 13,2) e doveva essere riscattato con un’offerta sacrificale. L’evangelista Luca dal fondale fatto di sacerdoti, leviti, fedeli, venditori, cambiavalute e curiosi fa avanzare una coppia di anziani, Simeone e una vedova ottantaquattrenne di nome Anna.
Noi ora fisseremo la nostra attenzione su Simeone, un nome che significa: “Il Signore ha ascoltato”, e che ha la sua variante in “Simone”, nome portato anche da Pietro e da un altro discepolo di Cristo, oltre che da sei personaggi neotestamentari (Simone “fratello” di Gesù, Simone di Cirene, Simone il fariseo, Simone il lebbroso, Simone il mago, Simone il cuoiaio). Si tratta di «un uomo giusto e timorato di Dio», cioè il rappresentante di quei fedeli autentici che la Bibbia chiama anche ‘anawim, i “poveri” del Signore, o saddiqim, i “giusti”, o anche hasidim, i “pii”, che credono in Dio e attendono «il conforto di Israele», ossia alimentano la speranza di «vedere il Messia del Signore».
L’evangelista Luca al suo ritratto di Simeone (2,25-35) aggiunge due dichiarazioni solenni che questo anziano — chiamato dalla tradizione greca il Theodochos, cioè “colui che accoglie (e sorregge tra le braccia)” Gesù — pronunzia. La seconda è un oracolo severo sulla storia futura che sarà segnata e lacerata dalla presenza di questo bambino che è «qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione» (2,34). E sua madre sarà anch’essa coinvolta in questo dramma e avrà «l’anima trafitta da una spada» di sofferenza.
Noi, però, ci fermiamo di più sulla prima dichiarazione che è in realtà un dolce inno divenuto popolare nella preghiera serale liturgica della Compieta con le prime parole della versione latina, Nunc dimittir «Ora lascia, Signore, che il tuo servo / vada in pace secondo la tua parola, / perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, / da te preparata davanti a tutti i popoli, / luce per illuminare le genti / e gloria del tuo popolo Israele» (2,29-32).
Uno studioso, Douglas R. Jones, ha ipotizzato che questo pacato piccolo salmo cristiano fosse in realtà un antico canto funebre per un fedele, messo in bocca a Simeone. È noto, infatti, che altri personaggi del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca intonano cantici che sono stati rielaborati probabilmente dalla liturgia delle origini cristiane: pensiamo al Benedictus di Zaccaria, padre di Giovanni Battista, e allo stesso Magnifìcat di Maria.
La modesta famiglia di Nazaret si presenta un po’ spaesata nei cortili del monumentale tempio, eretto dal re Erode a Gerusalemme, per il rito della presentazione a Dio del primogenito, il neonato Gesù. Secondo la legge biblica «ogni maschio primogenito era, infatti, consacrato al Signore» (Esodo 13,2) e doveva essere riscattato con un’offerta sacnficale. L’evangelista Luca dal fondale fatto di sacerdoti, leviti, fedeli, venditori, cambiavalute e curiosi fa avanzare una coppia di anziani, Simeone e una vedova ottantaquattrenne di nome Anna.
Noi ora fisseremo la nostra attenzione su Simeone, un nome che significa: “Il Signore ha ascoltato”, e che ha la sua variante in “Simone”, nome portato anche da Pietro e da un altro discepolo di Cristo, oltre che da sei personaggi neotestamentari (Simone “fratello” di Gesù, Simone di Cirene, Simone il fariseo, Simone il lebbroso, Simone il mago, Simone il cuoiaio). Si tratta di «un uomo giusto e timorato di Dio», cioè il rappresentante di quei fedeli autentici che la Bibbia chiama anche ‘anawim, i “poveri” del Signore, o saddiqim, i “giusti”, o anche hasidim, i “pii”, che credono in Dio e attendono «il conforto di Israele», ossia alimentano la speranza di «vedere il Messia del Signore».
L’evangelista Luca al suo ritratto di Simeone (2,25-35) aggiunge due dichiarazioni solenni che questo anziano — chiamato dalla tradizione greca il Theodochos, cioè “colui che accoglie (e sorregge tra le braccia)” Gesù — pronunzia. La seconda è un oracolo severo sulla storia futura che sarà segnata e lacerata dalla presenza di questo bambino che è «qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione» (2,34). E sua madre sarà anch’essa coinvolta in questo dramma e avrà «l’anima trafitta da una spada» di sofferenza.
Noi, però, ci fermiamo di più sulla prima dichiarazione che è in realtà un dolce inno divenuto popolare nella preghiera serale liturgica della Compieta con le prime parole della versione latina, Nunc dimittir «Ora lascia, Signore, che il tuo servo / vada in pace secondo la tua parola, / perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, / da te preparata davanti a tutti i popoli, / luce per illuminare le genti / e gloria del tuo popoio Israele» (2,29-32).
Uno studioso, Douglas R. Jones, ha ipotizzato che questo pacato piccolo salmo cristiano fosse in realtà un antico canto funebre per un fedele, messo in bocca a Simeone. È noto, infatti, che altri personaggi del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca intonano cantici che sono stati rielaborati probabilmente dalla liturgia delle origini cristiane: pensiamo al Benedictus di Zaccaria, padre di Giovanni Battista, e allo stesso Magnificat di Maria.
Tuttavia dobbiamo dire che quello di Simeone non è un addio crepuscolare e malinconico alla vita; è, invece, un saluto festoso all’alba messianica che sta per schiudersi e che vedrà come protagonista proprio quel bambino che Simeone stringe tra le braccia.
Tuttavia dobbiamo dire che quello di Simeone non è un addio crepuscolare e malinconico alla vita; è, invece, un saluto festoso all’alba messianica che sta per schiudersi e che vedrà come protagonista proprio quel bambino che Simeone stringe tra le braccia.
dal sito:
http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1975/documents/hf_p-vi_hom_19750106_it.html
SOLENNITÀ DELL’EPIFANIA DEL SIGNORE
OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI
6 gennaio 1975
Figli e Figlie, in Cristo tutti carissimi!
Ecco un giorno memorabile! Per la vostra vita : esso segna un momento, che conferma quelli decisivi della vostra vocazione, della vostra scelta ecclesiale, religiosa, missionaria negli anni venturi, che il Signore concederà al vostro pellegrinaggio nel tempo; un momento, che qualifica, cioè dà una forma, un aspetto, uno stile sia alla vostra spiritualità interiore, la vostra spiritualità missionaria, e sia alla vostra esteriore funzione professionale, nella quale sarà impegnato il vostro cuore, il vostro lavoro, la vostra dedizione al servizio della Chiesa: la vostra attività missionaria. Giorno memorabile: procuriamo di viverlo bene, con tutta l’intensità dei nostri animi, e con lo studio delle circostanze, che lo rendono singolare e degno poi di futura riflessione. Il punto focale, centrale cioè, dei nostri pensieri, adesso è quello dell’Epifania. Epifania significa manifestazione, apparizione, rivelazione. Epifania è un termine generico, astratto; esso acquista significato e valore dall’oggetto a cui si riferisce. Nel nostro caso sappiamo bene a chi ‘ed a che cosa si riferisce; esso si riferisce alla manifestazione di Gesù Cristo in questa terra, al mondo, alla umanità (Cfr. S. AUGUSTINI Sermo 200; PL 38, 1029).
Di per sé questa parola è comprensiva di tutto il piano rivelatore di Dio. La famosa lettera agli Ebrei si apre appunto con una visione sintetica. Come si è manifestato Dio agli uomini? Multifariam, multisque modis: a più riprese, ed in molti modi (Hebr. 1, 1). Il meraviglioso spettacolo del panorama naturale, e possiamo aggiungere, tutto il campo della creazione, il regno delle scienze, l’esperienza delle cose, la cosmologia, a chi bene la osserva, a chi penetra con l’intelligenza e con la simpatia della nostra capacità di conoscere e di individuare la ragione profonda degli esseri, sono già forme di linguaggio, mediante le quali Dio, Principio creatore dell’universo, parla a chi lo sa ascoltare: parla di potenza, parla di sapienza, parla di bellezza, parla di mistero. Per quanto miope, per quanto insensibile, l’uomo si dimostri davanti allo scenario delle cose, minime e massime che siano, microbi o astri di smisurata grandezza, un Disegno, un Pensiero, una Parola emana dagli esseri esistenti; e un’esigenza logica fondamentale reclamerebbe da lui, dall’uomo, e tanto di più quanto meglio egli è istruito ed evoluto, un riconoscimento religioso, un’adorazione, un cantico delle creature.
Citiamo un Autore, iniziato a questo confronto dell’uomo moderno con l’esplorato mondo circostante; egli scrive: «l’arricchimento e il turbamento del pensiero religioso, nel nostro tempo, derivano senza dubbio dalla rivelazione che si apre, intorno a noi ed in noi, dalla grandezza e dall’unità del Mondo. Intorno a noi, l’e Scienze del Reale distendono smisuratamente gli abissi del tempo e dello spazio, palesano incessantemente dei vincoli nuovi fra elementi dell’universo» (PIERRE TEILHARD DE CHARDIN, Le milieu divin, p. 2). Procuriamo noi religiosi, noi credenti, di non perdere di vista questo primo schermo della rivelazione naturale di Dio, ma di tenerlo presente sullo sfondo della nostra panoramica conoscitiva e spirituale, per alimentare con genuine impressioni il nostro sentimento religioso e la nostra meraviglia esistenziale circa l’opera di Dio e circa la nostra stessa vita; e per essere in migliore condizione di valutare la nuova, la gratuita, la sbalorditiva, la misteriosa epifania, che Dio si è degnato di compiere nella scena umana, mediante l’Incarnazione e la successiva economia della salvezza.
Dalla piattaforma della rivelazione naturale noi potremo meglio apprezzare l’originalità eccezionale della comparsa del Verbo di Dio stesso, «per mezzo del quale tutto è stato fatto» (Io. 1, 3), in un istante, in un angolo dell’opera sua, nel Vangelo. Il Verbo di Dio, Dio lui stesso, si è manifestato in aspetto umano. Egli ha abitato con noi. Meraviglia, delle meraviglie: Egli si è manifestato nelle sembianze più piccole e più umili, nel silenzio, nella povertà, bambino, poi giovane, poi artigiano, e finalmente Maestro e Profeta, capace di dominare miracolosamente le cose e le sofferenze umane, la morte stessa, e di presentarsi nella prospettiva preparata per secoli, quella del Messia, e più che Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, l’Agnello espiatore di tutti i peccati umani presentati al suo riscatto, il Salvatore, il Risorto per il regno di Dio e per il secolo eterno.
Oh! Figli carissimi, voi conoscete questo grande e misterioso ciclo della rivelazione di Cristo, e sapete come messo investa tutta la terra, tutta la storia; e come la via, la verità, la vita, sia Lui, quel Gesù, di cui oggi noi, la Chiesa sua, celebriamo la manifestazione nel mondo. Avremo mai meditato abbastanza questa «storia sacra», questo disegno di Dio riguardo alla umanità, questo mistero di salvezza, da cui dipende ogni nostro destino? No, non mai abbastanza! Gli anni, tanto brevi e veloci della nostra esistenza terrena, non basterebbero a saziare il nostro studio, la nostra meditazione, la nostra contemplazione. E, sì, noi tutti non tralasceremo mai di prolungare questa indagine teologica e spirituale per tutta la durata della nostra vita. Essa sarà come la lampada accesa sul sentiero che si apre davanti. Ma ecco che una duplice conclusione, l’una e l’altra derivata dal mistero stesso dell’Epifania, si riflette, con chiarezza decisiva, sulla vostra vita vissuta. E di questa duplice conclusione, voi, Figlie e Figli carissimi, fate senz’altro programma della vostra vita.
La prima conclusione è la fede. Bisogna accettare in pieno la verità, la realtà dell’Epifania; vogliamo dire, della rivelazione di Dio, Padre e Creatore d’ogni cosa, mediante il Verbo, Figlio suo, Gesù Cristo, in virtù dello Spirito Santo, luce e forza delle anime battezzate, e fedeli a questa investitura della vita umana, associata per grazia a quella divina. Oggi è la festa del Credo. Di quel Credo, ch’è stato proclamato, come un’alleanza nuova, come una comunione vitale ineffabile, al momento del nostro battesimo. Dobbiamo oggi ripetere, con totale dedizione, con nuova convinzione, con incomparabile consolazione, il Credo, uno e cattolico, nostro e di tutti i fedeli al Cristo rivelato. Oh! noi sappiamo quale dramma relativo alla questione della Fede, dramma di ricerche, di controversie, di dubbi, di negazioni esista oggi in tanti spiriti e con un decisivo atto di fede sia non abolito, ma sia però superato. Siete missionari? E di quale missione, se non di quella della fede? È per la fede, che voi partite ed affrontate il mondo.
Diventate una gente speciale: in un mondo che sviluppa la sua scienza alla misura del proprio pensiero, voi misurate la vostra certezza sulla Parola di Dio, della quale la Chiesa, Madre e Maestra, garantisce l’autenticità. In un mondo, che sembra misurare la propria maturità razionale, in campo religioso specialmente, dalle incontentabili sottigliezze dei propri dubbi e dei propri sofismi, voi camminate diritti e sicuri, con mentalità, che chi non vi conosce potrà qualificare puramente elementare e popolare mentre essa attinge alla semplicità e alla lucidità della divina sapienza. Camminate con la logica della fede, diventata principio di pensiero e d’azione, come c’insegna S. Paolo: il giusto, cioè l’uomo buono, l’uomo autentico ex fide vivit (Rom. 1, 17; Gal. 3, 11), vive cioè traendo dalla fede i principii orientatori della propria vita.
La seconda conclusione programmatica della vostra vocazione è la necessità di Cristo, perché è Cristo; cioè perché emana da lui una attrazione obbligante a militare per la sua gloria. Chi lo ha incontrato, chi, in profondità un po’ almeno, lo abbia conosciuto, chi abbia udito l’invito incantevole e avvincente della sua voce, non può non seguirlo; e lo segue con uno spirito di fiducia e di avventura, che fa del seguace un eroe, un apostolo, anche qui come enfaticamente, ma realisticamente, conclude San Paolo: fratres nostri apostoli ecclesiarum, gloria Christi (2 Cor. 8, 23), questi nostri fratelli sono Apostoli delle Chiese, gloria di Cristo! Necessità di Cristo per se stesso; Egli ben merita l’amore, il dono, il sacrificio della vita e simultanea deriva la necessità di Cristo per gli uomini, per tutti i fratelli della terra, perché Egli, ed Egli solo è il Salvatore (Act. 4, 12), mentre l’annuncio della sua salvezza è condizionato all’azione apostolica, alla diffusione missionaria (Cfr. Rom. 10, 14 ss.). Voi, Missionari, personificate questa necessità di Cristo.
Oggi, come ieri. Se, infatti, da un lato, il Missionario cattolico dovrà riconoscere quanto vi è di vero e di santo anche nelle altre religioni (Cfr. Nostra Aetate, 2) e, in particolare, i tesori di fede e di grazia, che le Chiese e le comunità cristiane, da noi pur troppo tuttora separate, ancora conservano ed alimentano, e se nel suo zelo apostolico egli dovrà astenersi da ogni sleale proselitismo, resta pur sempre vera la parola del recente Concilio ecumenico, che «solo per mezzo della Chiesa cattolica di Cristo, la quale è lo strumento generale della salvezza, si può ottenere ogni pienezza di mezzi salutari» (Unitatis Redintegratio, 3). Così dicendo, noi non facciamo . . . del trionfalismo. Noi cerchiamo, voi ben lo sapete, d’interpretare il sistema storico-sociale, cioè ecclesiale, che il Signore ha stabilito per la diffusione del Vangelo e per l’edificazione della sua Chiesa; e voi, Missionari, operai e collaboratori della Gerarchia apostolica, siete i cruciferi, i portatori della Croce, mandati nel mondo. Per questo vi sarà oggi consegnato, da noi benedetto, il Crocifisso: umile crocifisso, segno di pazienza e di confortante coraggio per voi; segno di fede, di liberazione e di gaudio a quanti voi avrete l’onorifico ministero di predicarlo e di portarlo.
dal sito:
http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=11149&theme=3&size=A
02/01/2008 14:57
VATICANO
Papa: Noi, contemporanei dei pastori davanti alla Madre di Dio e al Bambino
Nella prima udienza generale del 2008 Benedetto XVI spiega la devozione a Maria, Madre di Dio e con accenti ecumenici apre a protestanti e ortodossi. Gli auguri del 2008 “sotto il segno della Vergine Maria”.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Una catechesi tutta “natalizia” quella proclamata da Benedetto XVI oggi alla sua prima Udienza del mercoledì nel 2008. Scostandosi dal programma usuale – in cui egli presenta varie figure di padri della Chiesa dei primi secoli – egli ha dedicato oggi il suo incontro coi pellegrini nell’aula Paolo VI a comprendere la “presenza di Maria nella vita della Chiesa e nella nostra esistenza personale”.
“In questi giorni di festa – ha detto il papa – ci siamo soffermati a contemplare nel presepe la rappresentazione della Natività. Al centro di questa scena troviamo la Vergine Madre che offre Gesù Bambino alla contemplazione di quanti si recano ad adorare il Salvatore: i pastori, la gente povera di Betlemme, i Magi venuti dall’Oriente. Più tardi, nella festa della ‘Presentazione del Signore’, che celebreremo il 2 febbraio, saranno il vecchio Simeone e la profetessa Anna a ricevere dalle mani della Madre il piccolo Bambino e ad adorarlo. La devozione del popolo cristiano ha sempre considerato la nascita di Gesù e la divina maternità di Maria come due aspetti dello stesso mistero dell’incarnazione del Verbo divino e perciò non ha mai considerato la Natività come una cosa del passato. Noi siamo « contemporanei » dei pastori, dei magi, di Simeone e di Anna, e mentre andiamo con loro siamo pieni di gioia, perchè Dio ha voluto essere il Dio con noi ed ha una madre, che è la nostra madre”.
La riflessione del pontefice si è incentrata proprio sul titolo di “Madre di Dio” (Theotokos) dato alla Vergine Maria fin dal III secolo e ufficialmente decretato con il concilio di Efeso (431 d.C.). “Con quel titolo” egli ha spiegato, si sottolinea “che Cristo è Dio ed è realmente nato come uomo da Maria”: si preserva così “la sua unità di vero Dio e di vero uomo”.
Il ragionare del papa ha sapore ecumenico: mostrando il carattere “cristologico” della devozione a Maria Madre di Dio e il suo legame con la fede della Chiesa primitiva, egli risponde in qualche modo a critiche protestanti che spesso irridono il “devozionismo mariano” dei cattolici.
Il pontefice ha anche spiegato che “dal titolo di ‘Madre di Dio’ derivano poi tutti gli altri titoli con cui la Chiesa onora la Madonna”, fra cui anche quello di “Immacolata Concezione” e di “Assunta”. Proprio i dogmi dell’Immacolata e dell’Assunta sono quelli che il mondo ortodosso non accetta perché proclamati quando la Chiesa era già divisa. Ma mostrando il loro legame con il titolo di Theotokos (che gli ortodossi accettano) egli mostra che è possibile anche su questo una comunione più piena.
Tutti questi “titoli” o “privilegi”, ha spiegato Benedetto XVI, “non sono concessi per allontanare Maria da noi, ma al contrario per renderla vicina; infatti, essendo totalmente con Dio, questa Donna è vicinissima a noi e ci aiuta come madre e come sorella”. Proprio guardando a questa “vicinanza”, “durante il Concilio Vaticano II, il 21 novembre 1964, Paolo VI attribuì solennemente a Maria il titolo di ‘Madre della Chiesa’”.
Il papa ha così concluso: “Cari fratelli e sorelle, in questi primi giorni dell’anno, siamo invitati a considerare attentamente l’importanza della presenza di Maria nella vita della Chiesa e nella nostra esistenza personale. Affidiamoci a Lei perchè guidi i nostri passi in questo nuovo periodo di tempo che il Signore ci dona da vivere, e ci aiuti ad essere autentici amici del suo Figlio e così anche coraggiosi artefici del suo Regno nel mondo, Regno della luce e della verità. Buon Anno a tutti! È questo l’augurio che desidero rivolgere a voi qui presenti e ai vostri cari in questa prima Udienza generale del 2008. Che il nuovo anno, iniziato sotto il segno della Vergine Maria, ci faccia sentire più vivamente la sua presenza materna, così che, sostenuti e confortati dalla protezione della Vergine, possiamo contemplare con occhi rinnovati il volto del suo Figlio Gesù e camminare più speditamente sulle vie del bene”.
Santa Teresa Benedetta della Croce [Edith Stein] (1891-1942), carmelitana, martire, compatrona d’Europa
Le Nozze dell’Agnello, 14/9/1940
« L’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo »
Nell’Apocalisse, l’apostolo Giovanni scrive: « Poi vidi ritto in mezzo al trono… un Agnello, come immolato » (Ap 5,6). Mentre contemplava questa visione un ricordo rimaneva ben vivo in lui: quello del giorno indimenticabile in cui, lungo il Giordano, Giovanni il Battista aveva designato Gesù come « l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo »…
Per quale motivo però il Signore in persona aveva scelto l’agnello per essere il suo simbolo per eccellenza? E perché si mostrava ancora sotto questa apparenza, sul trono eterno della gloria? Perché era innocente come un agnello e umile come un agnello e perché era venuto per essere « come agnello condotto al macello » (Is 53,7). L’apostolo Giovanni aveva contemplato anche questo, quando il Signore si era lasciato legare le mani al monte degli Ulivi, e si era lasciato inchiodare sulla croce al Gòlgolta. Lì, al Gòlgota, il vero sacrificio della riconciliazione era stato adempiuto. Gli antichi sacrifici avevano perso la loro forza e, come il sacerdozio antico, stavano per cessare, dal momento che il Tempio sarebbe stato distrutto. Tutto questo, Giovanni l’ha vissuto. Per questo non si è stupito al vedere l’Agnello sul trono…
Come l’Agnello doveva venire ucciso per essere innalzato sul trono della gloria, così, per tutti coloro che sono stati scelti per « il banchetto delle nozze dell’Agnello » (Ap 19,9), il cammino verso la gloria passa attraverso la sofferenza e la croce. Coloro che vogliono unirsi all’Agnello devono lasciarsi fissare con lui sulla croce. Tutti coloro che sono segnati dal sangue dell’Agnello (cfr Es 12,7) vi sono chiamati, e questi sono tutti i battezzati. Ma non tutti comprendono la chiamata e la seguono.