ancora una bella immagine di Natale

dal sito:
http://www.novena.it/ravasi/2005/art2005.htm
Gianfranco Ravasi (dell’anno 2005)
BEZALEÈL, L’ARCHITETTO DELL’ARCA
Nella seconda lettura della solennità di Pentecoste si proclama questa dichiarazione di san Paolo: «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito… A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (l Cor12,4.7).
Ogni dono personale e ogni capacità e funzione specifica nella comunità ecclesiale hanno, quindi, come sorgente lo Spirito di Dio. Anche compiti particolari, rilevanti o semplici, sono sempre da ricondurre al soffio vitale, ispirante e creativo dello Spirito.
È per questo che abbiamo scelto di far salire sulla ribalta della nostra ideale sfilata dei vari volti della Bibbia quello, certamente poco noto, di Bezaleèl, l’architetto dell’arca dell’alleanza, il santuario mobile che accompagnava Israele nella marcia del deserto verso la terra promessa della libertà. Nella prima presentazione che di lui si fa nel libro dell’Esodo il Signore stesso afferma: «Io ho colmato Bezaleèl dello spirito di Dio (ruah Elohìm) perché abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzazioni in oro, argento e rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro» (31,3-5).
Come è evidente, lo Spirito divino lo abilita e lo sostiene nella sua opera di artigianato sacro. Egli apparteneva alla tri bù di Giuda, era figlio di un certo Uri e nipote di Caleb, capo (con Giosuè) degli esploratori del territorio di Canaan, inviati da Mosè prima dell’approdo di Israele alla terra santa. Il nome Bezaleèl in ebraico ha un significato suggestivo: “all’ombra di Dio”, ossia sotto la protezione del Signore.
Il suo è un incarico globale di architetto e di artista nel senso più ampio possibile. Il primo suo compito è, comunque, quello di allestire «la tenda dell’incontro [tra Dio e Israele e degli ebrei tra loro, cioè il santuario mobile], l’arca della testimonianza [la cassa di acacia su cui Dio si svela], il coperchio sopra di essa e tutti gli accessori della tenda» (Esodo 31,7). L’elenco prosegue con una serie di oggetti e paramenti liturgici che egli deve approntare anche col concorso di collaboratori e di dipendenti.
Alla fine ecco che dalle sue mani esce il cuore di quel santuario, l’arca dell’alleanza costruita, come si diceva, in legno di acacia e tutta rivestita d’oro (Esodo 37,1-2). La Bibbia è molto accurata nel descriverne i particolari, proprio per la sua altissima funzione simbolica. Anche per la ricca sequenza di strumenti sacri necessari al culto, l’autore sacro sottolinea che fu lo Spirito di Dio ad agire in Bezaleèl, così da avallare la legittimità di quegli oggetti nell’uso liturgico. Mosè ripete, infatti, che «il Signore ha chiamato per nome Bezaleèl e l’ha riempito dello spirito di Dio, perché egli abbia sapienza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» (3 5,30-3 1). C’è, quindi, un’effusione dello Spirito Santo anche per l’attività manuale, per ogni opera che si faccia per Dio e per gli altri, e non solo nella profezia o nella sapienza o nella guida del popolo di Dio.
Prima e seconda lettura dall’Ufficio delle Letture (Liturgia delle ore), dal sito: http://www.maranatha.it/Ore/solenfeste/1227letPage.htm
Prima Lettura
Dalla prima lettera di san Giovanni, apostolo 1, 1 – 2, 3
Il Verbo della vita e la luce di Dio
Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.
Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato.
Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa. Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.
Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto.
Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.
Da questo sappiamo d’averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti.
Seconda Lettura
Dai «Trattati sulla prima Lettera di Giovanni» di sant’Agostino, vescovo
(Tratt. 1, 1. 3; Pl 35, 1978. 1980)
La Vita si è manifestata nella carne
«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi e ciò che le nostre mani hanno toccato del Verbo della vita» (cfr. 1 Gv 1, 1). Chi è che tocca con le mani il Verbo, se non perché «il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi?» (cfr. Gv 1, 14).
Il Verbo che si è fatto carne, per poter essere toccato con mano, cominciò ad essere carne dalla Vergine Maria; ma non cominciò allora ad essere Verbo, perché è detto: «Ciò che era fin da principio». Vedete se la lettera di Giovanni non conferma il suo vangelo, dove ora avete udito: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio» (Gv 1, 1).
Forse qualcuno prende l’espressione «Verbo della vita» come se fosse riferita a Cristo, ma non al corpo di Cristo toccato con mano. Ma fate attenzione a quel che si aggiunge: «La Vita si è fatta visibile» (1 Gv 1, 2). E’ Cristo dunque il Verbo della vita.
E come si è fatta visibile? Esisteva fin dal principio, ma non si era ancora manifestata agli uomini; si era manifestata agli angeli ed era come loro cibo. Ma cosa dice la Scrittura? «L’uomo mangiò il pane degli angeli» (Sal 77, 25).
Dunque la vita stessa si è resa visibile nella carne; si è manifestata perché la cosa che può essere visibile solo al cuore diventasse visibile anche agli occhi e risanasse i cuori. Solo con il cuore infatti può essere visto il Verbo, la carne invece anche con gli occhi del corpo. Si verificava dunque anche la condizione per vedere il Verbo: il Verbo si è fatto carne, perché la potessimo vedere e fosse risanato in noi ciò che ci rende possibile vedere il Verbo.
Disse: «Noi rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile» (1 Gv 1, 2), ossia, si è resa visibile fra di noi; o meglio, si è manifestata a noi.
«Quello dunque che abbiamo veduto e udito, lo annunziamo anche a voi» (1 Gv 1, 3). Comprenda bene il vostro amore: «Quello che abbiamo veduto e udito, lo annunziamo anche a voi». Essi videro il Signore stesso presente nella carne e ascoltarono le parole dalla bocca del Signore e lo annunziarono a noi. Anche noi perciò abbiamo udito, ma non abbiamo visto.
Siamo dunque meno fortunati di coloro che hanno visto e udito? E come mai allora aggiunge: «Perché anche voi siate in comunione con noi»? (1 Gv 1, 3). Essi hanno visto, noi no eppure siamo in comunione, perché abbiamo una fede comune.
«La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la vostra gioia sia perfetta» (cfr. 1 Gv. 1, 3-4). Afferma la pienezza della gioia nella stessa comunione, nello stesso amore, nella stessa unità.
il testo ed i riferimenti proposti da Magister sul sito:
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/184121
Sorpresa: il papa porta la curia in Brasile
Nel discorso prenatalizio alla curia romana Benedetto XVI ha ribadito le finalità del suo viaggio nel più grande paese dell’America Latina: rimettere la Chiesa in stato di missione e annunciare Gesù a tutti i popoli della terra. Anche ai musulmanidi Sandro Magister
ROMA, 24 dicembre 2007 – A sorpresa, Benedetto XVI ha dedicato quasi tutto il discorso prenatalizio alla curia romana di tre giorni fa a una riflessione sul suo viaggio in Brasile.
Nei discorsi alla curia che hanno preceduto i Natali del 2005 e del 2006 papa Joseph Ratzinger aveva argomentato tesi centralissime del suo pontificato: a cominciare dalla sua interpretazione del Concilio Vaticano II.
Questa volta, invece, egli ha concentrato il discorso proprio sul momento apparentemente meno riuscito della sua attività di papa: quel suo viaggio in Brasile, dal 9 al 14 maggio, che ha avuto scarsa risonanza nell’opinione pubblica, ha sollevato varie critiche all’interno della Chiesa e ha dato il via, ad Aparecida, a una conferenza dell’episcopato dell’America Latina anch’essa meno brillante di altre del passato.
Ma basta vedere che cosa ha detto il papa prendendo spunto dal suo viaggio in Brasile per capire come anche questa volta egli sia andato al cuore della ragione d’essere della Chiesa.
Le obiezioni che Benedetto XVI ha affrontato sono due. La prima è che ad Aparecida si sia sbagliato tema, la Chiesa si sia ritirata su questioni troppo spirituali e interiori invece di affrontare le grandi sfide della storia, in materia di giustizia, di pace, di libertà.
A questo egli ha risposto che solo l’incontro con Gesù e il suo Vangelo infonde negli uomini « quelle forze del bene senza le quali tutti i nostri programmi di ordine sociale non diventano realtà, ma – di fronte alla pressione strapotente di altri interessi contrari alla pace ed alla giustizia – rimangono solo teorie astratte ».
La seconda obiezione l’ha così formulata:
« È lecito ancora oggi ‘evangelizzare’? Non dovrebbero piuttosto tutte le religioni e concezioni del mondo convivere pacificamente e cercare di fare insieme il meglio per l’umanità, ciascuna nel proprio modo? ».
Ad essa ha risposto che sì, è giusta un’azione comune tra le diverse religioni « in difesa dell’effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana per l’edificazione di una società più giusta e solidale ». E a questo proposito ha citato la lettera dei 138 leader religiosi musulmani e la sua risposta.
Ma ciò non vieta, anzi, che Gesù sia annunciato a tutti i popoli:
« Chi ha riconosciuto una grande verità, chi ha trovato una grande gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé. [...] In Gesù Cristo è sorta per noi una grande luce, ‘la’ grande Luce: non possiamo metterla sotto il moggio, ma dobbiamo elevarla sul lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa ».
Due giorni dopo, all’Angelus di domenica 23 dicembre, Benedetto XVI ha insistito di nuovo su questo impegno missionario, citando la « Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione » diffusa il 14 dicembre scorso dalla congregazione per la dottrina della fede:
« Il documento si propone, in effetti, di ricordare a tutti i cristiani – in una situazione in cui spesso non è più chiara nemmeno a molti fedeli la stessa ragione d’essere dell’evangelizzazione – che l’accoglienza della Buona Novella nella fede spinge di per sé a comunicare la salvezza ricevuta in dono. [...] Nulla è più bello, urgente ed importante che ridonare gratuitamente agli uomini quanto gratuitamente abbiamo ricevuto da Dio! Nulla ci può esimere o sollevare da questo oneroso ed affascinante impegno. La gioia del Natale, che già pregustiamo, mentre ci colma di speranza, ci spinge al tempo stesso ad annunciare a tutti la presenza di Dio in mezzo a noi ».
Questo lo scheletro del discorso alla curia romana. Ma l’interessante è seguire l’argomentazione.
Ecco qui di seguito un ampio estratto del discorso di Benedetto XVI, letto la mattina del 21 dicembre 2007 nella Sala Clementina del palazzo Apostolico:
Tutti discepoli di Gesù. E missionari
di Benedetto XVI
[...] Un altro anno sta per finire. Come primo evento saliente di questo periodo, trascorso tanto velocemente, vorrei menzionare il viaggio in Brasile. Il suo scopo era l’incontro con la V Conferenza generale dell’episcopato dell’America Latina e dei Caraibi e conseguentemente, più in generale, un incontro con la Chiesa nel vasto continente latino-americano.
Prima di soffermarmi sulla Conferenza di Aparecida, vorrei parlare di alcuni momenti culminanti di quel viaggio.
Innanzitutto mi rimane nella memoria la solenne serata con i giovani nello stadio di São Paolo: in essa, nonostante le temperature rigide, ci trovammo tutti uniti da una grande gioia interiore, da un’esperienza viva di comunione e dalla chiara volontà di essere, nello Spirito di Gesù Cristo, servi della riconciliazione, amici dei poveri e dei sofferenti e messaggeri di quel bene il cui splendore abbiamo incontrato nel Vangelo. Esistono manifestazioni di massa che hanno solo l’effetto di un’autoaffermazione; in esse ci si lascia travolgere dall’ebbrezza del ritmo e dei suoni, finendo per trarre gioia soltanto da se stessi. Lì invece ci si aprì proprio l’animo; la profonda comunione che in quella sera si instaurò spontaneamente tra di noi, nell’essere gli uni con gli altri, portò con sé un essere gli uni per gli altri. Non fu una fuga davanti alla vita quotidiana, ma si trasformò nella forza di accettare la vita in modo nuovo. [...]
Rimane indimenticabile anche il giorno in cui [...] ho potuto canonizzare Frei Galvão, un figlio del Brasile, proclamandolo santo per la Chiesa universale. [...] Circa il ritorno definitivo di Cristo, nella parusía, ci è stato detto che Egli non verrà da solo, ma insieme con tutti i suoi santi. Così, ogni santo che entra nella storia costituisce già una piccola porzione del ritorno di Cristo, un suo nuovo ingresso nel tempo, che ce ne mostra l’immagine in modo nuovo e ci rende sicuri della sua presenza. Gesù Cristo non appartiene al passato e non è confinato in un futuro lontano, il cui avvento non abbiamo neppure il coraggio di chiedere. Egli arriva con una grande processione di santi. Insieme ai suoi santi è già sempre in cammino verso di noi, verso il nostro oggi.
Con particolare vivacità ricordo il giorno nella Fazenda da Esperança, in cui persone, cadute nella schiavitù della droga, ritrovano libertà e speranza. Arrivando lì, come prima cosa, ho percepito in modo nuovo la forza risanatrice della creazione di Dio. Montagne verdi circondano l’ampia vallata; indirizzano lo sguardo verso l’alto e, allo stesso tempo, danno un senso di protezione. Dal tabernacolo della chiesetta delle Carmelitane scaturisce una sorgente di acqua limpida che richiama la profezia di Ezechiele circa l’acqua che, scaturendo dal Tempio, disintossica la terra salata e fa crescere alberi che procurano la vita. Dobbiamo difendere la creazione non soltanto in vista delle nostre utilità, ma per se stessa – come messaggio del Creatore, come dono di bellezza, che è promessa e speranza. Sì, l’uomo ha bisogno della trascendenza. Solo Dio basta, ha detto Teresa d’Avila. Se Lui viene a mancare, allora l’uomo deve cercare di superare da sé i confini del mondo, di aprire davanti a sé lo spazio sconfinato per il quale è stato creato. Allora, la droga diventa per lui quasi una necessità. Ma ben presto scopre che questa è una sconfinatezza illusoria – una beffa, si potrebbe dire, che il diavolo fa all’uomo. Lì, nella Fazenda da Esperança, i confini del mondo vengono veramente superati, si apre lo sguardo verso Dio, verso l’ampiezza della nostra vita, e così avviene un risanamento. [...]
Poi vorrei ricordare l’incontro con i vescovi brasiliani nella cattedrale di São Paulo. La musica solenne che ci accompagnò rimane indimenticabile. A renderla particolarmente bella fu il fatto che venne eseguita da un coro e un’orchestra formati da giovani poveri di quella città. Quelle persone ci hanno così offerto l’esperienza della bellezza che fa parte di quei doni per mezzo dei quali vengono superati i limiti della quotidianità del mondo e noi possiamo percepire realtà più grandi che ci rendono sicuri della bellezza di Dio. [...]
E alla fine Aparecida. [...] Era cosa buona che lì ci riunissimo e lì elaborassimo il documento sul tema “Discipulos e misioneros de Jesucristo, para que en Él tengan la vida”. Certamente, qualcuno potrebbe subito fare la domanda: Ma era questo il tema giusto in quest’ora della storia che noi stiamo vivendo? Non era forse una svolta eccessiva verso l’interiorità, in un momento in cui le grandi sfide della storia, le questioni urgenti circa la giustizia, la pace e la libertà richiedono il pieno impegno di tutti gli uomini di buona volontà, e in modo particolare della cristianità e della Chiesa? Non si sarebbero dovuti affrontare piuttosto questi problemi, invece di ritrarsi nel mondo interiore della fede?
Rimandiamo, per il momento, a dopo questa obiezione. Prima di rispondere ad essa, infatti, è necessario comprendere bene il tema stesso nel suo vero significato; una volta fatto questo, la risposta all’obiezione si delinea da sé.
La parola-chiave del tema è: trovare la vita – la vita vera. Con ciò il tema suppone che questo obiettivo, su cui forse tutti sono d’accordo, viene raggiunto nel discepolato di Gesù Cristo come anche nell’impegno per la sua parola e la sua presenza. I cristiani in America Latina, e con loro quelli di tutto il mondo, vengono quindi innanzitutto invitati a ridiventare maggiormente “discepoli di Gesù Cristo” – cosa che, in fondo, già siamo in virtù del Battesimo, senza che ciò tolga che dobbiamo diventarlo sempre nuovamente nella viva appropriazione del dono di quel Sacramento.
Essere discepoli di Cristo – che cosa significa? Ebbene, significa in primo luogo: arrivare a conoscerlo. Come avviene questo? È un invito ad ascoltarlo così come Egli ci parla nel testo della Sacra Scrittura, come si rivolge a noi e ci viene incontro nella comune preghiera della Chiesa, nei Sacramenti e nella testimonianza dei santi.
Non si può mai conoscere Cristo solo teoricamente. Con grande dottrina si può sapere tutto sulle Sacre Scritture, senza averLo incontrato mai. Fa parte integrante del conoscerLo il camminare insieme con Lui, l’entrare nei suoi sentimenti, come dice la Lettera ai Filippesi (2,5). Paolo descrive questi sentimenti brevemente così: avere lo stesso amore, formare insieme un’anima sola (sýmpsychoi), andare d’accordo, non fare niente per rivalità e vanagloria, non mirando ciascuno ai propri interessi soltanto, ma anche a quelli degli altri (2,2-4).
La catechesi non può mai essere solo un insegnamento intellettuale, deve sempre diventare anche un impratichirsi della comunione di vita con Cristo, un esercitarsi nell’umiltà, nella giustizia e nell’amore. Solo così camminiamo con Gesù Cristo sulla sua via, solo così si apre l’occhio del nostro cuore; solo così impariamo a comprendere la Scrittura ed incontriamo Lui.
L’incontro con Gesù Cristo richiede l’ascolto, richiede la risposta nella preghiera e nel praticare ciò che Egli ci dice. Venendo a conoscere Cristo veniamo a conoscere Dio, e solo a partire da Dio comprendiamo l’uomo e il mondo, un mondo che altrimenti rimane una domanda senza senso.
Diventare discepoli di Cristo è dunque un cammino di educazione verso il nostro vero essere, verso il giusto essere uomini.
Nell’Antico Testamento, l’atteggiamento di fondo dell’uomo che vive la parola di Dio veniva riassunto nel termine zadic – il giusto: chi vive secondo la parola di Dio diventa un giusto; egli pratica e vive la giustizia.
Nel cristianesimo, l’atteggiamento dei discepoli di Gesù Cristo veniva poi espresso con un’altra parola: il fedele. La fede comprende tutto; questa parola ora indica insieme l’essere con Cristo e l’essere con la sua giustizia. Riceviamo nella fede la giustizia di Cristo, la viviamo in prima persona e la trasmettiamo.
Il documento di Aparecida concretizza tutto ciò parlando della buona notizia sulla dignità dell’uomo, sulla vita, sulla famiglia, sulla scienza e la tecnologia, sul lavoro umano, sulla destinazione universale dei beni della terra e sull’ecologia: dimensioni nelle quali si articola la nostra giustizia, viene vissuta la fede e vengono date risposte alle sfide del tempo.
Il discepolo di Gesù Cristo deve essere anche “missionario”, messaggero del Vangelo, ci dice quel documento. Anche qui si leva un’obiezione: è lecito ancora oggi “evangelizzare”? Non dovrebbero piuttosto tutte le religioni e concezioni del mondo convivere pacificamente e cercare di fare insieme il meglio per l’umanità, ciascuna nel proprio modo?
Ebbene, è indiscutibile che dobbiamo tutti convivere e cooperare nella tolleranza e nel rispetto reciproci. La Chiesa cattolica si impegna per questo con grande energia e, con i due incontri di Assisi, ha lasciato anche indicazioni evidenti in questo senso, indicazioni che, nell’incontro a Napoli di quest’anno, abbiamo ripreso nuovamente.
Al riguardo mi piace qui ricordare la lettera gentilmente inviatami il 13 ottobre scorso da 138 leader religiosi musulmani per testimoniare il loro comune impegno nella promozione della pace nel mondo. Con gioia ho risposto esprimendo la mia convinta adesione a tali nobili intendimenti e sottolineando al tempo stesso l’urgenza di un concorde impegno per la tutela dei valori del rispetto reciproco, del dialogo e della collaborazione. Il riconoscimento condiviso dell’esistenza di un unico Dio, provvido Creatore e Giudice universale del comportamento di ciascuno, costituisce la premessa di un’azione comune in difesa dell’effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana per l’edificazione di una società più giusta e solidale.
Ma questa volontà di dialogo e di collaborazione significa forse allo stesso tempo che non possiamo più trasmettere il messaggio di Gesù Cristo, non più proporre agli uomini e al mondo questa chiamata e la speranza che ne deriva? Chi ha riconosciuto una grande verità, chi ha trovato una grande gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé. Doni così grandi non sono mai destinati ad una persona sola.
In Gesù Cristo è sorta per noi una grande luce, « la » grande Luce: non possiamo metterla sotto il moggio, ma dobbiamo elevarla sul lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa (cfr Matteo 5,15).
San Paolo è stato instancabilmente in cammino recando con sé il Vangelo. Si sentiva addirittura sotto una sorta di “costrizione” ad annunciare il Vangelo (cfr 1 Corinzi 9, 16) – non tanto a motivo di una preoccupazione per la salvezza del singolo non-battezzato, non ancora raggiunto dal Vangelo, ma perché era consapevole che la storia nel suo insieme non poteva arrivare al suo compimento finché la totalità (pléroma) dei popoli non fosse stata raggiunta dal Vangelo (cfr Romani 11,25).
Per giungere al suo compimento, la storia ha bisogno dell’annuncio della Buona Novella a tutti i popoli, a tutti gli uomini (cfr Marco 13,10). E di fatto: quanto è importante che confluiscano nell’umanità forze di riconciliazione, forze di pace, forze di amore e di giustizia – quanto è importante che nel “bilancio” dell’umanità, di fronte ai sentimenti ed alle realtà della violenza e dell’ingiustizia che la minacciano, vengano suscitate e rinvigorite forze antagoniste!
È proprio ciò che avviene nella missione cristiana. Mediante l’incontro con Gesù Cristo e i suoi santi, mediante l’incontro con Dio, il bilancio dell’umanità viene rifornito di quelle forze del bene, senza le quali tutti i nostri programmi di ordine sociale non diventano realtà, ma – di fronte alla pressione strapotente di altri interessi contrari alla pace ed alla giustizia – rimangono solo teorie astratte.
Così siamo tornati alle domande poste all’inizio: Ha fatto bene Aparecida, nella ricerca di vita per il mondo a dare la priorità al discepolato di Gesù Cristo e all’evangelizzazione? Era forse un ripiegamento sbagliato nell’interiorità? No! Aparecida ha deciso giustamente, perché proprio mediante il nuovo incontro con Gesù Cristo e il suo Vangelo – e solo così – vengono suscitate le forze che ci rendono capaci di dare la giusta risposta alle sfide del tempo. [...]
Papa Benedetto XVI
Udienza generale del 9/8/06 (© Libreria Editrice Vaticana)
L’insegnamento dell’apostolo Giovanni
Se c’è un argomento caratteristico che emerge negli scritti di Giovanni, questo è l’amore… Certamente Giovanni non è l’unico autore delle origini cristiane a parlare dell’amore. Essendo questo un costitutivo essenziale del cristianesimo, tutti gli scrittori del Nuovo Testamento ne parlano, sia pur con accentuazioni diverse. Se ora ci soffermiamo a riflettere su questo tema in Giovanni, è perché egli ce ne ha tracciato con insistenza e in maniera incisiva le linee principali. Alle sue parole, dunque, ci affidiamo.
Una cosa è certa: egli non ne fa una trattazione astratta, filosofica, o anche teologica, su che cosa sia l’amore. No, lui non è un teorico. Il vero amore infatti, per natura sua, non è mai puramente speculativo, ma dice riferimento diretto, concreto e verificabile a persone reali. Ebbene, Giovanni come apostolo e amico di Gesù ci fa vedere quali siano le componenti o meglio le fasi dell’amore cristiano.
Il primo riguarda la Fonte stessa dell’amore, che l’Apostolo colloca in Dio, arrivando, come abbiamo sentito, ad affermare che “Dio è amore” (1 Gv 4,16). Giovanni è l’unico autore del Nuovo Testamento a darci quasi una specie di definizione di Dio. Egli dice, ad esempio, che “Dio è Spirito” (Gv 4,24) o che “Dio è luce” (1 Gv 1,5). Qui proclama con folgorante intuizione che “Dio è amore”. Si noti bene: non viene affermato semplicemente che “Dio ama” e tanto meno che “l’amore è Dio”! In altre parole: Giovanni non si limita a descrivere l’agire divino, ma procede fino alle sue radici. Inoltre, non intende attribuire una qualità divina a un amore generico e magari impersonale; non sale dall’amore a Dio, ma si volge direttamente a Dio per definire la sua natura con la dimensione infinita dell’amore. Con ciò Giovanni vuol dire che il costitutivo essenziale di Dio è l’amore e quindi tutta l’attività di Dio nasce dall’amore ed è improntata all’amore: tutto ciò che Dio fa, lo fa per amore e con amore, anche se non sempre possiamo subito capire che questo è amore, il vero amore.
dal sito:
http://www.santiebeati.it/dettaglio/22050
Santo Stefano Primo martire
Primo martire cristiano, e proprio per questo viene celebrato subito dopo la nascita di Gesù. Fu arrestato nel periodo dopo la Pentecoste, e morì lapidato. In lui si realizza in modo esemplare la figura del martire come imitatore di Cristo; egli contempla la gloria del Risorto, ne proclama la divinità, gli affida il suo spirito, perdona ai suoi uccisori. Saulo testimone della sua lapidazione ne raccoglierà l’eredità spirituale diventando Apostolo delle genti. (Mess. Rom.)
Patronato: Diaconi, Fornaciai, Mal di testa
Etimologia: Stefano = corona, incoronato, dal greco
Emblema: Palma, Pietre
Martirologio Romano: Festa di santo Stefano, protomartire, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, che, primo dei sette diaconi scelti dagli Apostoli come loro collaboratori nel ministero, fu anche il primo tra i discepoli del Signore a versare il suo sangue a Gerusalemme, dove, lapidato mentre pregava per i suoi persecutori, rese la sua testimonianza di fede in Cristo Gesù, affermando di vederlo seduto nella gloria alla destra del Padre.
La celebrazione liturgica di s. Stefano è stata da sempre fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i “comites Christi”, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio.
Così al 26 dicembre c’è s. Stefano primo martire della cristianità, segue al 27 s. Giovanni Evangelista, il prediletto da Gesù, autore del Vangelo dell’amore, poi il 28 i ss. Innocenti, bambini uccisi da Erode con la speranza di eliminare anche il Bambino di Betlemme; secoli addietro anche la celebrazione di s. Pietro e s. Paolo apostoli, capitava nella settimana dopo il Natale, venendo poi trasferita al 29 giugno.
Del grande e veneratissimo martire s. Stefano, si ignora la provenienza, si suppone che fosse greco, in quel tempo Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse; il nome Stefano in greco ha il significato di “coronato”.
Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli e visto la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme.
Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni; qualche tempo dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica, perché secondo i primi, nell’assistenza quotidiana, le loro vedove venivano trascurate.
Allora i dodici Apostoli, riunirono i discepoli dicendo loro che non era giusto che essi disperdessero il loro tempo nel “servizio delle mense”, trascurando così la predicazione della Parola di Dio e la preghiera, pertanto questo compito doveva essere affidato ad un gruppo di sette di loro, così gli Apostoli potevano dedicarsi di più alla preghiera e al ministero.
La proposta fu accettata e vennero eletti, Stefano uomo pieno di fede e Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale.
Nell’espletamento di questo compito, Stefano pieno di grazie e di fortezza, compiva grandi prodigi tra il popolo, non limitandosi al lavoro amministrativo ma attivo anche nella predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto.
Nel 33 o 34 ca., gli ebrei ellenistici vedendo il gran numero di convertiti, sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”.
Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”.
E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano pronunziò un lungo discorso, il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’, in cui ripercorse la Sacra Scrittura dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore.
Rivolto direttamente ai sacerdoti del Sinedrio concluse: “O gente testarda e pagana nel cuore e negli orecchi, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata”.
Mentre l’odio e il rancore dei presenti aumentava contro di lui, Stefano ispirato dallo Spirito, alzò gli occhi al cielo e disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo, che sta alla destra di Dio”.
Fu il colmo, elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre, i loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione.
In realtà non fu un’esecuzione, in quanto il Sinedrio non aveva la facoltà di emettere condanne a morte, ma non fu in grado nemmeno di emettere una sentenza in quanto Stefano fu trascinato fuori dal furore del popolo, quindi si trattò di un linciaggio incontrollato.
Mentre il giovane diacono protomartire crollava insanguinato sotto i colpi degli sfrenati aguzzini, pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”, “Signore non imputare loro questo peccato”.
Gli Atti degli Apostoli dicono che persone pie lo seppellirono, non lasciandolo in preda alle bestie selvagge, com’era consuetudine allora; mentre nella città di Gerusalemme si scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani, comandata da Saulo.
Tra la nascente Chiesa e la sinagoga ebraica, il distacco si fece sempre più evidente fino alla definitiva separazione; la Sinagoga si chiudeva in se stessa per difendere e portare avanti i propri valori tradizionali; la Chiesa, sempre più inserita nel mondo greco-romano, si espandeva iniziando la straordinaria opera di inculturazione del Vangelo.
Dopo la morte di Stefano, la storia delle sue reliquie entrò nella leggenda; il 3 dicembre 415 un sacerdote di nome Luciano di Kefar-Gamba, ebbe in sogno l’apparizione di un venerabile vecchio in abiti liturgici, con una lunga barba bianca e con in mano una bacchetta d’oro con la quale lo toccò chiamandolo tre volte per nome.
Gli svelò che lui e i suoi compagni erano dispiaciuti perché sepolti senza onore, che volevano essere sistemati in un luogo più decoroso e dato un culto alle loro reliquie e certamente Dio avrebbe salvato il mondo destinato alla distruzione per i troppi peccati commessi dagli uomini.
Il prete Luciano domandò chi fosse e il vecchio rispose di essere il dotto Gamaliele che istruì s. Paolo, i compagni erano il protomartire s. Stefano che lui aveva seppellito nel suo giardino, san Nicodemo suo discepolo, seppellito accanto a s. Stefano e s. Abiba suo figlio seppellito vicino a Nicodemo; anche lui si trovava seppellito nel giardino vicino ai tre santi, come da suo desiderio testamentario.
Infine indicò il luogo della sepoltura collettiva; con l’accordo del vescovo di Gerusalemme, si iniziò lo scavo con il ritrovamento delle reliquie. La notizia destò stupore nel mondo cristiano, ormai in piena affermazione, dopo la libertà di culto sancita dall’imperatore Costantino un secolo prima.
Da qui iniziò la diffusione delle reliquie di s. Stefano per il mondo conosciuto di allora, una piccola parte fu lasciata al prete Luciano, che a sua volta le regalò a vari amici, il resto fu traslato il 26 dicembre 415 nella chiesa di Sion a Gerusalemme.
Molti miracoli avvennero con il solo toccarle, addirittura con la polvere della sua tomba; poi la maggior parte delle reliquie furono razziate dai crociati nel XIII secolo, cosicché ne arrivarono effettivamente parecchie in Europa, sebbene non si sia riusciti a identificarle dai tanti falsi proliferati nel tempo, a Venezia, Costantinopoli, Napoli, Besançon, Ancona, Ravenna, ma soprattutto a Roma, dove si pensi, nel XVIII secolo si veneravano il cranio nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, un braccio a S. Ivo alla Sapienza, un secondo braccio a S. Luigi dei Francesi, un terzo braccio a Santa Cecilia; inoltre quasi un corpo intero nella basilica di S. Loernzo fuori le Mura.
La proliferazione delle reliquie, testimonia il grande culto tributato in tutta la cristianità al protomartire santo Stefano, già veneratissimo prima ancora del ritrovamento delle reliquie nel 415.
Chiese, basiliche e cappelle in suo onore sorsero dappertutto, solo a Roma se ne contavano una trentina, delle quali la più celebre è quella di S. Stefano Rotondo al Celio, costruita nel V secolo da papa Simplicio.
Ancora oggi in Italia vi sono ben 14 Comuni che portano il suo nome; nell’arte è stato sempre raffigurato indossando la ‘dalmatica’ la veste liturgica dei diaconi; suo attributo sono le pietre della lapidazione, per questo è invocato contro il mal di pietra, cioè i calcoli ed è il patrono dei tagliapietre e muratori.
dal sito:
http://www.korazym.org/news1.asp?Id=26877
Angelus 26 dicembre 2007
Le parole del papa
Cari fratelli e sorelle!
All’indomani del Natale, la liturgia ci fa celebrare la « nascita al cielo » del primo martire, santo Stefano. « Pieno di fede e di Spirito Santo » (At 6,5), egli fu scelto come diacono nella Comunità di Gerusalemme, insieme con altri sei discepoli di cultura greca. Con la forza che gli veniva da Dio, Stefano compiva numerosi miracoli ed annunciava nelle sinagoghe il Vangelo con « sapienza ispirata ». Fu lapidato alle porte della città e morì, come Gesù, invocando il perdono per i suoi uccisori (At 7,59-60). Il legame profondo che unisce Cristo al suo primo martire Stefano è la Carità divina: lo stesso Amore che spinse il Figlio di Dio a spogliare se stesso e a farsi obbediente fino alla morte di croce (cfr Fil 2,6-8), ha poi spinto gli Apostoli e i martiri a dare la vita per il Vangelo.
Bisogna sempre rimarcare questa caratteristica distintiva del martirio cristiano: esso è esclusivamente un atto d’amore, verso Dio e verso gli uomini, compresi i persecutori. Perciò noi oggi, nella santa Messa, preghiamo il Signore che ci insegni « ad amare anche i nostri nemici sull’esempio di [Stefano] che morendo pregò per i suoi persecutori » (Orazione « colletta »). Quanti figli e figlie della Chiesa nel corso dei secoli hanno seguito questo esempio! Dalla prima persecuzione a Gerusalemme a quelle degli imperatori romani, fino alle schiere dei martiri dei nostri tempi. Non di rado, infatti, anche oggi giungono notizie da varie parti del mondo di missionari, sacerdoti, vescovi, religiosi, religiose e fedeli laici perseguitati, imprigionati, torturati, privati della libertà o impediti nell’esercitarla perché discepoli di Cristo e apostoli del Vangelo; a volte si soffre e si muore anche per la comunione con la Chiesa universale e la fedeltà al Papa.
Nella Lettera Enciclica Spe salvi (cfr n. 37), ricordando l’esperienza del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin (morto nel 1857), faccio notare che la sofferenza è trasformata in gioia mediante la forza della speranza che proviene dalla fede. Il martire cristiano, come Cristo e mediante l’unione con Lui, « accetta nel suo intimo la croce, la morte e la trasforma in un’azione d’amore. Quello che dall’esterno è violenza brutale, dall’interno diventa un atto d’amore che si dona totalmente. La violenza così si trasforma in amore e quindi la morte in vita » (Omelia a Marienfeld – Colonia, 20 agosto 2005). Il martire cristiano attualizza la vittoria dell’amore sull’odio e sulla morte.
Preghiamo per quanti soffrono a motivo della fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. Maria Santissima, Regina dei Martiri, ci aiuti ad essere testimoni credibili del Vangelo, rispondendo ai nemici con la forza disarmante della verità e della carità.
dal sito:
http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=176039
Messaggio di Natale Urbi et Orbi del Santo Padre Benedetto XVI
Un giorno santo è spuntato per noi: venite tutti ad adorare il Signore; oggi una splendida luce è discesa sulla terra”
Cari fratelli e sorelle!
“Un giorno santo è spuntato per noi”. Un giorno di grande speranza: oggi è nato il Salvatore dell’umanità! La nascita di un bambino porta normalmente una luce di speranza a quanti lo attendono trepidanti. Quando nacque Gesù nella grotta di Betlemme, una “grande luce” apparve sulla terra; una grande speranza entrò nel cuore di quanti lo attendevano: “lux magna”, canta la liturgia di questo giorno di Natale. Non fu certo “grande” alla maniera di questo mondo, perché a vederla, dapprima, furono solo Maria, Giuseppe e alcuni pastori, poi i Magi, il vecchio Simeone, la profetessa Anna: coloro che Dio aveva prescelto. Eppure, nel nascondimento e nel silenzio di quella notte santa, si è accesa per ogni uomo una luce splendida e intramontabile; è venuta nel mondo la grande speranza portatrice di felicità: “il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria” (Gv 1,14)
“Dio è luce – afferma san Giovanni – e in lui non ci sono tenebre” (1 Gv 1,5). Nel Libro della Genesi leggiamo che quando ebbe origine l’universo, “la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”. “Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu” (Gn 1,2-3). La Parola creatrice di Dio – Dabar in ebraico, Verbum in latino, Logos in greco – è Luce, sorgente della vita. Tutto è stato fatto per mezzo del Logos e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste (cfr Gv 1,3). Ecco perchè tutte le creature sono fondamentalmente buone, e recano in sé l’impronta di Dio, una scintilla della sua luce. Tuttavia, quando Gesù nacque dalla Vergine Maria, la Luce stessa è venuta nel mondo: “Dio da Dio, Luce da Luce”, professiamo nel Credo. In Gesù Dio ha assunto ciò che non era rimanendo ciò che era: “l’onnipotenza entrò in un corpo infantile e non fu sottratta al governo dell’universo” (cfr Agostino, Serm 184, 1 sul Natale). Si è fatto uomo Colui che è il creatore dell’uomo per recare al mondo la pace. Per questo, nella notte di Natale, le schiere degli Angeli cantano: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli / e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2,14).
“Oggi una splendida luce è discesa sulla terra”. La Luce di Cristo è portatrice di pace. Nella Messa della notte la liturgia eucaristica si è aperta proprio con questo canto: “Oggi la vera pace è scesa a noi dal cielo” (Antifona d’ingresso). Anzi, solo la “grande” luce apparsa in Cristo può donare agli uomini la “vera” pace: ecco perchè ogni generazione è chiamata ad accoglierla, ad accogliere il Dio che a Betlemme si è fatto uno di noi.
Questo è il Natale! Evento storico e mistero di amore, che da oltre duemila anni interpella gli uomini e le donne di ogni epoca e di ogni luogo. E’ il giorno santo in cui rifulge la “grande luce” di Cristo portatrice di pace! Certo, per riconoscerla, per accoglierla ci vuole fede, ci vuole umiltà. L’umiltà di Maria, che ha creduto alla parola del Signore, e ha adorato per prima, china sulla mangiatoia, il Frutto del suo grembo; l’umiltà di Giuseppe, uomo giusto, che ebbe il coraggio della fede e preferì obbedire a Dio piuttosto che tutelare la propria reputazione; l’umiltà dei pastori, dei poveri ed anonimi pastori, che accolsero l’annuncio del messaggero celeste e in fretta raggiunsero la grotta dove trovarono il bambino appena nato e, pieni di stupore, lo adorarono lodando Dio (cfr Lc 2,15-20). I piccoli, i poveri in spirito: ecco i protagonisti del Natale, ieri come oggi; i protagonisti di sempre della storia di Dio, i costruttori infaticabili del suo Regno di giustizia, di amore e di pace.
Nel silenzio della notte di Betlemme Gesù nacque e fu accolto da mani premurose. Ed ora, in questo nostro Natale, in cui continua a risuonare il lieto annuncio della sua nascita redentrice, chi è pronto ad aprirgli la porta del cuore? Uomini e donne di questa nostra epoca, anche a noi Cristo viene a portare la luce, anche a noi viene a donare la pace! Ma chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto e orante? Chi attende l’aurora del giorno nuovo tenendo accesa la fiammella della fede? Chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi avvolgere dal fascino del suo amore? Sì! È per tutti il suo messaggio di pace; è a tutti che viene ad offrire se stesso come certa speranza di salvezza.
La luce di Cristo, che viene ad illuminare ogni essere umano, possa finalmente rifulgere, e sia consolazione per quanti si trovano nelle tenebre della miseria, dell’ingiustizia, della guerra; per coloro che vedono ancora negata la loro legittima aspirazione a una più sicura sussistenza, alla salute, all’istruzione, a un’occupazione stabile, a una partecipazione più piena alle responsabilità civili e politiche, al di fuori di ogni oppressione e al riparo da condizioni che offendono la dignità umana. Vittime dei sanguinosi conflitti armati, del terrorismo e delle violenze di ogni genere, che infliggono inaudite sofferenze a intere popolazioni, sono particolarmente le fasce più vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani. Mentre le tensioni etniche, religiose e politiche, l’instabilità, le rivalità, le contrapposizioni, le ingiustizie e le discriminazioni, che lacerano il tessuto interno di molti Paesi, inaspriscono i rapporti internazionali. E nel mondo va sempre più crescendo il numero dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati anche a causa delle frequenti calamità naturali, conseguenza spesso di preoccupanti dissesti ambientali.
In questo giorno di pace, il pensiero va soprattutto laddove rimbomba il fragore delle armi: alle martoriate terre del Darfur, della Somalia e del nord della Repubblica Democratica del Congo, ai confini dell’Eritrea e dell’Etiopia, all’intero Medio Oriente, in particolare all’Iraq, al Libano e alla Terrasanta, all’Afghanistan, al Pakistan e allo Sri Lanka, alla regione dei Balcani, e alle tante altre situazioni di crisi, spesso purtroppo dimenticate. Il Bambino Gesù porti sollievo a chi è nella prova e infonda ai responsabili di governo la saggezza e il coraggio di cercare e trovare soluzioni umane, giuste e durature. Alla sete di senso e di valore che avverte il mondo oggi, alla ricerca di benessere e di pace che segna la vita di tutta l’umanità, alle attese dei poveri Cristo, vero Dio e vero Uomo, risponde con il suo Natale. Non temano gli individui e le nazioni di riconoscerlo e di accoglierlo: con Lui “una splendida luce” rischiara l’orizzonte dell’umanità; con Lui si apre “un giorno santo” che non conosce tramonto. Questo Natale sia veramente per tutti un giorno di gioia, di speranza e di pace!
“Venite tutti ad adorare il Signore”. Con Maria, Giuseppe e i pastori, con i magi e la schiera innumerevole di umili adoratori del neonato Bambino, che lungo i secoli hanno accolto il mistero del Natale, anche noi, fratelli e sorelle di ogni continente, lasciamo che la luce di questo giorno si diffonda dappertutto: entri nei nostri cuori, rischiari e riscaldi le nostre case, porti serenità e speranza nelle nostre città, dia al mondo la pace. E’ questo il mio augurio per voi che mi ascoltate. Augurio che si fa preghiera umile e fiduciosa al Bambino Gesù, perché la sua luce disperda ogni tenebra dalla vostra vita e vi ricolmi dell’amore e della pace. Il Signore, che ha fatto risplendere in Cristo il suo volto di misericordia, vi appaghi della sua felicità e vi renda messaggeri della sua bontà. Buon Natale.