Archive pour le 29 décembre, 2007

La Sacra Famiglia

La Sacra Famiglia dans immagini sacre 2734

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Publié dans:immagini sacre |on 29 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

di Gianfranco Ravasi: I cieli narrano… (Salmo 19)

dal sito: 

http://www.apostoline.it/riflessioni/salmi/Salmo19.htm

Gianfranco Ravasi 

I cieli narrano… (Salmo 19)

 L’estate col trionfo del sole evoca al lettore attento della Bibbia alcune pagine tutte intrise di luce, di calore, di splendore. È il caso del Salmo 19 (18 nella numerazione della liturgia), illuminato da due dischi solari, quello dell’astro naturale che incombe anche sulla nostra estate e sulle nostre vacanze e quello della parola di Dio i cui « comandi sono limpidi, danno luce agli occhi ». Il salmo è affacciato, allora, proprio su questi due soli, quello che brilla nel nostro cielo (vv. 2-7) e quello che risplende all’orizzonte delle nostre coscienze (vv. 8-15). Un rabbino medievale, grande studioso della Bibbia, di nome Kimchì, affermava che « come il mondo non si illumina e vive se non per opera del sole, così l’anima non si sviluppa e non raggiunge la sua pienezza di vita se non attraverso la parola di Dio ». E in questi anni più vicini a noi il pastore protestante e teologo D. Bonhoeffer, che è stato impiccato nei campi di concentramento nazisti, scriveva: « Il salmo 19 non può parlare della magnificenza del corso degli astri senza pensare, con uno slancio improvviso e nuovo, alla magnificenza della rivelazione della legge di Dio ».  

Noi ci fermeremo a contemplare il primo sole, quello della natura, così come ce lo dipinge il poeta biblico nella prima parte della sua lirica-preghiera. Se questa strofa può essere letta proprio nella cornice di una luminosa giornata estiva, essa però non si riduce ad un idillio paesaggistico. Il sole e il mondo sono sempre agli occhi del credente « creazione », sono quasi una misteriosa parola sussurrata da Dio all’uomo. Il celebre astronomo Keplero nella sua opera Armonia cosmica, dopo aver citato il nostro salmo, scriveva: « Ti ringrazio, mio Dio, nostro creatore, di avermi mostrato la bellezza della tua creazione e così io gioisco dell’opera delle tue mani. Ecco, io ho compiuto l’opera alla quale mi sono sentito chiamato: ho annunciato agli uomini lo splendore delle tue opere. Nella misura in cui il mio spirito limitato le ha potute comprendere, gli uomini ne leggeranno qui le prove ». Ascoltiamo anche noi le parole del salmista: 

I cieli narrano la gloria di Dio 

e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento.  Il giorno al giorno ne affida il messaggio 

e la notte alla notte ne trasmette notizia.  Non è linguaggio e non sono parole 

di cui non si oda il suono.  Per tutta la terra si diffonde la loro voce 

e ai confini del mondo la loro parola.  Là pose una tenda per il sole 

che esce come sposo dalla stanza nuziale,  esulta come prode che percorre la via. 

Egli sorge da un estremo del cielo  e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: 

nulla si sottrae al suo calore (vv. 2-7).  Si intravedono facilmente all’interno di questa strofa,che costituisce il primo movimento del salmo, alcuni simboli applicati al sole: nuziale, militare, atletico. Il sole, infatti, tanto celebrato soprattutto in Egitto in seguito ad una riforma religiosa di stampo monoteistico imposta dal faraone Akhnaton (XIV sec, a. C.), è dipinto dal poeta biblico come un eroe guerriero che, dopo essere uscito dalla stanza nuziale ove ha trascorso la notte (il grembo delle tenebre), inizia la sua folle corsa sull’orizzonte come un campione che non conosce soste e stanchezze, mentre tutto il pianeta è avvolto dal calore irresistibile del giorno.  

Questo intreccio di immagini nuziali, sportive e militari era noto anche nelle preghiere mesopotamiche: « O Sole, guerriero ed atleta, e tu Notte, sua sposa, lanciate sempre uno sguardo favorevole alle mie suppliche e alle mie pie azioni! ».  Questo primo movimento del salmo si snoda, però, su due piccoli quadri. Il primo raccoglie il canto dei cieli, presentati come se fossero persone che fanno da testimoni entusiasti dell’opera creatrice di Dio. Essi, infatti, « narrano », « annunciano » le meraviglie del Creatore che li ha fatti. Anche il giorno e la notte sono rappresentati come messaggeri che trasmettono di postazione in postazione la grande notizia del Signore che si rivela proprio nelle sue creature. Spazio (i cieli) e tempo (notte e giorno) sono, perciò, coinvolti in una specie di « vangelo »di gioia e di luce, « nell’universo – scriveva un commentatore tedesco dei Salmi, H. Gunkel – risuona una musica teologica« . Si tratta, però, di una musica e di un messaggio che non conoscono parole sonore ed echi; eppure questa strana voce silenziosa percorre tutto l’universo. Lo sguardo interiore dell’uomo e il suo orecchio spiritualmente attento possono decifrare questo enigma che è il creato. Il mondo muto si rivela all’occhio e all’orecchio dell’uomo come una realtà che parla e canta. S. Giovanni Crisostomo, celebre padre della Chiesa di Cappadocia (nell’attuale Turchia centrale), scriveva: « Questo silenzio dei cieli è una voce più risonante di quella di una tromba. Questa voce grida ai nostro occhi e ai nostro orecchi la grandezza di chi li ha fatti ». Il salmo si trasforma, allora, in un invito a vivere la nostra vacanza non come un semplice spazio vuoto, di riposo, di divertimento, di dispersione ma come un tempo colmo di scoperte e di stupore. Lo scrittore inglese Chesterton, il famoso creatore del personaggio popolare di P. Brown, sacerdote-investigatore, affermava che « il mondo non perirà per mancanza di meraviglie ma per mancanza di meraviglia ». 

Il secondo quadro è avvolto dalla luce del sole, il principe del nostro orizzonte. La « tenda » è la notte ove il sole si ritira come fa il nomade che all’incombere della tenebra si rifugia nella sua tenda. Da questa camera nuziale notturna il sole esce all’alba come sposo – guerriero – atleta, pronto ad iniziare il suo lavoro – conquista – corsa negli spazi siderali.  Ecco, ormai il poeta vede fiammeggiare il sole in pieno cielo, tutta la terra è pervasa dal suo calore, l’aria è immobile, nessun angolo può sfuggire alla sua luce. Ma a questo punto il salmo ha una svolta: diventa un inno al sole della parola di Dio. E noi invitiamo chi ci ha seguito fin qui a prendere tra le mani una Bibbia e a concludere da solo la lettura del Salmo 19 scoprendo i raggi di luce che emanano dalla parola di Dio.

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Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa : L’esempio di Nazareth

dal mio libro della Liturgia delle ore:

Seconda lettura 

Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa 
(Discorso tenuto a Nazareth, 5 gennaio 1964)

L’esempio di Nazareth

La casa di Nazareth è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitare. 
Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo. Qui scopriamo il bisogno di osservare il quadro del suo soggiorno in mezzo a noi: cioè i luoghi, i tempi, i costumi, il linguaggio, i sacri riti, tutto insomma ciò di cui Gesù si servì per manifestarsi al mondo. 
Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola, certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo. Oh! come volentieri vorremmo ritornare fanciulli e metterci a questa umile e sublime scuola di Nazareth! Quanto ardentemente desidereremmo di ricominciare, vicino a Maria, ad apprendere la vera scienza della vita e la superiore sapienza delle verità divine! Ma noi non siamo che di passaggio e ci è necessario deporre il desiderio di continuare a conoscere, in questa casa, la mai compiuta formazione all’intelligenza del Vangelo. Tuttavia non lasceremo questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente, alcuni brevi ammonimenti dalla casa di Nazareth. 
In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazareth, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera, che Dio solo vede nel segreto. 
Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazareth ci ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro ed inviolabile; ci faccia vedere com’è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale. Infine impariamo la lezione del lavoro. Oh! dimora di Nazareth, casa del Figlio del falegname! Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo ma redentrice della fatica umana; qui nobilitare la dignità del lavoro in modo che sia sentita da tutti; ricordare sotto questo tetto che il lavoro non può essere fine a se stesso, ma che riceve la sua libertà ed eccellenza, non solamente da quello che si chiama valore economico, ma anche da ciò che lo volge al suo nobile fine; qui infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello, il profeta di tutte le giuste cause che li riguardano, cioè Cristo nostro Signore.

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Discorso del Papa sulla Famiglia (6.6.2005)

dal sito: 

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2005/june/documents/hf_ben-xvi_spe_20050606_convegno-famiglia_it.html

 

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
ALL’APERTURA DEL CONVEGNO ECCLESIALE
DELLA DIOCESI DI ROMA SU FAMIGLIA E COMUNITÀ CRISTIANA
 

Basilica di San Giovanni in Laterano
Lunedì, 6 giugno 2005

  

Cari fratelli e sorelle,  

ho accolto molto volentieri l’invito a introdurre con una mia riflessione questo nostro Convegno Diocesano, anzitutto perché ciò mi dà la possibilità di incontrarvi, di avere un contatto diretto con voi, e poi anche perché posso aiutarvi ad approfondire il senso e lo scopo del cammino pastorale che la Chiesa di Roma sta percorrendo. 

Saluto con affetto ciascuno di voi, Vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, e in particolare voi laici e famiglie che assumete consapevolmente quei compiti di impegno e testimonianza cristiana che hanno la loro radice nel sacramento del battesimo e, per coloro che sono sposati, in quello del matrimonio. Ringrazio di cuore il Cardinale Vicario e i coniugi Luca e Adriana Pasquale per le parole che mi hanno rivolto a nome di voi tutti. 

Questo Convegno, e l’anno pastorale di cui esso fornirà le linee guida, costituiscono una nuova tappa del percorso che la Chiesa di Roma ha iniziato, sulla base del Sinodo diocesano, con la Missione cittadina voluta dal nostro tanto amato Papa Giovanni Paolo II, in preparazione al Grande Giubileo del 2000. In quella Missione tutte le realtà della nostra Diocesi – parrocchie, comunità religiose, associazioni e movimenti – si sono mobilitate, non solo per una missione al popolo di Roma, ma per essere esse stesse « popolo di Dio in missione », mettendo in pratica la felice espressione di Giovanni Paolo II « parrocchia, cerca te stessa e trova te stessa fuori di te stessa »: nei luoghi cioè nei quali la gente vive. Così, nel corso della Missione cittadina, molte migliaia di cristiani di Roma, in gran parte laici, si sono fatti missionari e hanno portato la parola della fede dapprima nelle famiglie dei vari quartieri della città e poi nei diversi luoghi di lavoro, negli ospedali, nelle scuole e nelle università, negli spazi della cultura e del tempo libero. 

Dopo l’Anno Santo, il mio amato Predecessore vi ha chiesto di non interrompere questo cammino e di non disperdere le energie apostoliche suscitate e i frutti di grazia raccolti. Perciò, a partire dal 2001, il fondamentale indirizzo pastorale della Diocesi è stato quello di dare forma permanente alla missione, caratterizzando in senso più decisamente missionario la vita e le attività delle parrocchie e di ogni altra realtà ecclesiale. Voglio dirvi anzitutto che intendo confermare pienamente questa scelta: essa infatti si rivela sempre più necessaria e senza alternative, in un contesto sociale e culturale nel quale sono all’opera forze molteplici che tendono ad allontanarci dalla fede e dalla vita cristiana. 

Da ormai due anni l’impegno missionario della Chiesa di Roma si è concentrato soprattutto sulla famiglia, non solo perché questa fondamentale realtà umana oggi è sottoposta a molteplici difficoltà e minacce e quindi ha particolare bisogno di essere evangelizzata e concretamente sostenuta, ma anche perché le famiglie cristiane costituiscono una risorsa decisiva per l’educazione alla fede, l’edificazione della Chiesa come comunione e la sua capacità di presenza missionaria nelle più diverse situazioni di vita, oltre che per fermentare in senso cristiano la cultura diffusa e le strutture sociali. Su queste linee proseguiremo anche nel prossimo anno pastorale e perciò il tema del nostro Convegno è « Famiglia e comunità cristiana: formazione della persona e trasmissione della fede ». 

Il presupposto dal quale occorre partire, per poter comprendere la missione della famiglia nella comunità cristiana e i suoi compiti di formazione della persona e trasmissione della fede, rimane sempre quello del significato che il matrimonio e la famiglia rivestono nel disegno di Dio, creatore e salvatore. Questo sarà dunque il nocciolo della mia riflessione di questa sera, richiamandomi all’insegnamento dell’Esortazione Apostolica Familiaris consortio (Parte seconda, nn. 12-16). 

Il fondamento antropologico della famiglia 

Matrimonio e famiglia non sono in realtà una costruzione sociologica casuale, frutto di particolari situazioni storiche ed economiche. Al contrario, la questione del giusto rapporto tra l’uomo e la donna affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da qui. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? cosa è l’uomo? E questa domanda, a sua volta, non può essere separata dall’ interrogativo su Dio: esiste Dio? e chi è Dio? qual è veramente il suo volto? La risposta della Bibbia a questi due quesiti è unitaria e consequenziale: l’uomo è creato ad immagine di Dio, e Dio stesso è amore. Perciò la vocazione all’amore è ciò che fa dell’uomo l’autentica immagine di Dio: egli diventa simile a Dio nella misura in cui diventa qualcuno che ama. 

Da questa fondamentale connessione tra Dio e l’uomo ne consegue un’altra: la connessione indissolubile tra spirito e corpo: l’uomo è infatti anima che si esprime nel corpo e corpo che è vivificato da uno spirito immortale. Anche il corpo dell’uomo e della donna ha dunque, per così dire, un carattere teologico, non è semplicemente corpo, e ciò che è biologico nell’uomo non è soltanto biologico, ma è espressione e compimento della nostra umanità. Parimenti, la sessualità umana non sta accanto al nostro essere persona, ma appartiene ad esso. Solo quando la sessualità si è integrata nella persona, riesce a dare un senso a se stessa. 

Così, dalle due connessioni, dell’uomo con Dio e nell’uomo del corpo con lo spirito, ne scaturisce una terza: quella tra persona e istituzione. La totalità dell’uomo include infatti la dimensione del tempo, e il « sì » dell’uomo è un andare oltre il momento presente: nella sua interezza, il « sì » significa « sempre », costituisce lo spazio della fedeltà. Solo all’interno di esso può crescere quella fede che dà un futuro e consente che i figli, frutto dell’amore, credano nell’uomo. La libertà del « sì » si rivela dunque libertà capace di assumere ciò che è definitivo: la più grande espressione della libertà non è allora la ricerca del piacere, senza mai giungere a una vera decisione; è invece la capacità di decidersi per un dono definitivo, nel quale la libertà, donandosi, ritrova pienamente se stessa. 

In concreto, il « sì » personale e reciproco dell’uomo e della donna dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e al tempo stesso è destinato al dono di una nuova vita. Perciò questo « sì » personale non può non essere un « sì » anche pubblicamente responsabile, con il quale i coniugi assumono la responsabilità pubblica della fedeltà. Nessuno di noi infatti appartiene esclusivamente a se stesso: pertanto ciascuno è chiamato ad assumere nel più intimo di sé la propria responsabilità pubblica. Il matrimonio come istituzione non è quindi una indebita ingerenza della società o dell’autorità, l’imposizione di una forma dal di fuori; è invece esigenza intrinseca del patto dell’amore coniugale. 

Le varie forme odierne di dissoluzione del matrimonio, come le unioni libere e il « matrimonio di prova », fino allo pseudo-matrimonio tra persone dello stesso sesso, sono invece espressioni di una libertà anarchica, che si fa passare a torto per vera liberazione dell’uomo. Una tale pseudo-libertà si fonda su una banalizzazione del corpo, che inevitabilmente include la banalizzazione dell’uomo. Il suo presupposto è che l’uomo può fare di sé ciò che vuole: il suo corpo diventa così una cosa secondaria dal punto di vista umano, da utilizzare come si vuole. Il libertinismo, che si fa passare per scoperta del corpo e del suo valore, è in realtà un dualismo che rende spregevole il corpo, collocandolo per così dire fuori dall’autentico essere e dignità della persona. 

Matrimonio e famiglia nella storia della salvezza 

La verità del matrimonio e della famiglia, che affonda le sue radici nella verità dell’uomo, ha trovato attuazione nella storia della salvezza, al cui centro sta la parola: « Dio ama il suo popolo ». La rivelazione biblica, infatti, è anzitutto espressione di una storia d’amore, la storia dell’alleanza di Dio con gli uomini: perciò la storia dell’amore e dell’unione di un uomo ed una donna nell’alleanza del matrimonio ha potuto essere assunta da Dio quale simbolo della storia della salvezza. Il fatto inesprimibile, il mistero dell’amore di Dio per gli uomini, riceve la sua forma linguistica dal vocabolario del matrimonio e della famiglia, in positivo e in negativo: l’accostarsi di Dio al suo popolo viene presentato infatti nel linguaggio dell’amore sponsale, mentre l’infedeltà di Israele, la sua idolatria, è designata come adulterio e prostituzione. 

Nel Nuovo Testamento Dio radicalizza il suo amore fino a divenire Egli stesso, nel suo Figlio, carne della nostra carne, vero uomo. In questo modo l’unione di Dio con l’uomo ha assunto la sua forma suprema, irreversibile e definitiva. E così viene tracciata anche per l’amore umano la sua forma definitiva, quel « sì » reciproco che non può essere revocato: essa non aliena l’uomo, ma lo libera dalle alienazioni della storia per riportarlo alla verità della creazione. La sacramentalità che il matrimonio assume in Cristo significa dunque che il dono della creazione è stato elevato a grazia di redenzione. La grazia di Cristo non si aggiunge dal di fuori alla natura dell’uomo, non le fa violenza, ma la libera e la restaura, proprio nell’innalzarla al di là dei suoi propri confini. E come l’incarnazione del Figlio di Dio rivela il suo vero significato nella croce, così l’amore umano autentico è donazione di sé, non può esistere se vuole sottrarsi alla croce. 

Cari fratelli e sorelle, questo legame profondo tra Dio e l’uomo, tra l’amore di Dio e l’amore umano, trova conferma anche in alcune tendenze e sviluppi negativi, di cui tutti avvertiamo il peso. Lo svilimento dell’amore umano, la soppressione dell’autentica capacità di amare si rivela infatti, nel nostro tempo, l’ arma più adatta e più efficace per scacciare Dio dall’uomo, per allontanare Dio dallo sguardo e dal cuore dell’uomo. Analogamente, la volontà di « liberare » la natura da Dio conduce a perdere di vista la realtà stessa della natura, compresa la natura dell’uomo, riducendola a un insieme di funzioni, di cui disporre a piacimento per costruire un presunto mondo migliore e una presunta umanità più felice. 

I figli 

Anche nella generazione dei figli il matrimonio riflette il suo modello divino, l’amore di Dio per l’uomo. Nell’uomo e nella donna la paternità e la maternità, come il corpo e come l’amore, non si lasciano circoscrivere nel biologico: la vita viene data interamente solo quando con la nascita vengono dati anche l’amore e il senso che rendono possibile dire sì a questa vita. Proprio da qui diventa del tutto chiaro quanto sia contrario all’amore umano, alla vocazione profonda dell’uomo e della donna, chiudere sistematicamente la propria unione al dono della vita, e ancora più sopprimere o manomettere la vita che nasce. 

Nessun uomo e nessuna donna, però, da soli e unicamente con le proprie forze, possono dare ai figli in maniera adeguata l ’amore e il senso della vita. Per poter infatti dire a qualcuno « la tua vita è buona, per quanto io non conosca il tuo futuro », occorrono un’autorità e una credibilità superiori a quello che l’individuo può darsi da solo. Il cristiano sa che questa autorità è conferita a quella famiglia più vasta che Dio, attraverso il Figlio suo Gesù Cristo e il dono dello Spirito Santo, ha creato nella storia degli uomini, cioè alla Chiesa. Egli riconosce qui all’opera quell’amore eterno e indistruttibile che assicura alla vita di ciascuno di noi un senso permanente. Per questo motivo l’edificazione di ogni singola famiglia cristiana si colloca nel contesto della più grande famiglia della Chiesa, che la sostiene e la porta con sé. E reciprocamente la Chiesa viene edificata dalle famiglia, « piccole Chiese domestiche », come le ha chiamate il Concilio Vaticano II (Lumen gentium, 11; Apostolicam actuositatem, 11), riscoprendo un’antica espressione patristica (San Giovanni Crisostomo, In Genesim serm. VI, 2; VII,1). Nel medesimo senso la Familiaris consortio afferma che « Il matrimonio cristiano… è il luogo naturale nel quale si compie l’inserimento della persona umana nella grande famiglia della Chiesa » (n. 14). 

La famiglia e la Chiesa 

Da tutto ciò scaturisce una conseguenza evidente: la famiglia e la Chiesa, in concreto le parrocchie e le altre forme di comunità ecclesiale, sono chiamate alla più stretta collaborazione per quel compito fondamentale che è costituito, inseparabilmente, dalla formazione della persona e dalla trasmissione della fede. Sappiamo bene che per un’autentica opera educativa non basta una teoria giusta o una dottrina da comunicare. C’è bisogno di qualcosa di molto più grande e umano, di quella vicinanza, quotidianamente vissuta, che è propria dell’amore e che trova il suo spazio più propizio anzitutto nella comunità familiare, ma poi anche in una parrocchia, o movimento o associazione ecclesiale, in cui si incontrino persone che si prendono cura dei fratelli, in particolare dei bambini e dei giovani, ma anche degli adulti, degli anziani, dei malati, delle stesse famiglie, perché, in Cristo, vogliono loro bene. Il grande Patrono degli educatori, San Giovanni Bosco, ricordava ai suoi figli spirituali che « l’educazione è cosa del cuore e che Dio solo ne è il padrone » (Epistolario, 4,209). 

Centrale nell’opera educativa, e specialmente nell’educazione alla fede, che è il vertice della formazione della persona e il suo orizzonte più adeguato, è in concreto la figura del testimone: egli diventa punto di riferimento proprio in quanto sa rendere ragione della speranza che sostiene la sua vita (cfr 1 Pt 3,15), è personalmente coinvolto con la verità che propone. Il testimone, d’altra parte, non rimanda mai a se stesso, ma a qualcosa, o meglio a Qualcuno più grande di lui, che ha incontrato e di cui ha sperimentato l’affidabile bontà. Così ogni educatore e testimone trova il suo modello insuperabile in Gesù Cristo, il grande testimone del Padre, che non diceva nulla da se stesso, ma parlava così come il Padre gli aveva insegnato (cfr Gv 8,28). 

Questo è il motivo per il quale alla base della formazione della persona cristiana e della trasmissione della fede sta necessariamente la preghiera, l’amicizia con Cristo e la contemplazione in Lui del volto del Padre. E la stessa cosa vale, evidentemente, per tutto il nostro impegno missionario, in particolare per la pastorale familiare: la Famiglia di Nazareth sia dunque, per le nostre famiglie e per le nostre comunità, oggetto di costante e fiduciosa preghiera, oltre che modello di vita. 

Cari fratelli e sorelle, e specialmente voi, cari sacerdoti, conosco la generosità e la dedizione con cui servite il Signore e la Chiesa. Il vostro lavoro quotidiano per la formazione alla fede delle nuove generazioni, in stretta connessione con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, come anche per la preparazione al matrimonio e per l’accompagnamento delle famiglie nel loro spesso non facile cammino, in particolare nel grande compito dell’educazione dei figli, è la strada fondamentale per rigenerare sempre di nuovo la Chiesa e anche per vivificare il tessuto sociale di questa nostra amata città di Roma. 

La minaccia del relativismo 

Continuate dunque, senza lasciarvi scoraggiare dalle difficoltà che incontrate. Il rapporto educativo è per sua natura una cosa delicata: chiama in causa infatti la libertà dell’altro che, per quanto dolcemente, viene pur sempre provocata a una decisione. Né i genitori, né i sacerdoti o i catechisti, né gli altri educatori possono sostituirsi alla libertà del fanciullo, del ragazzo o del giovane a cui si rivolgono. E specialmente la proposta cristiana interpella a fondo la libertà, chiamandola alla fede e alla conversione. Oggi un ostacolo particolarmente insidioso all’opera educativa è costituito dalla massiccia presenza, nella nostra società e cultura, di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto l’apparenza della libertà diventa per ciascuno una prigione. Dentro a un tale orizzonte relativistico non è possibile, quindi, una vera educazione: senza la luce della verità; prima o poi ogni persona è infatti condannata a dubitare della bontà della sua stessa vita e dei rapporti che la costituiscono, della validità del suo impegno per costruire con gli altri qualcosa in comune. 

E’ chiaro dunque che non soltanto dobbiamo cercare di superare il relativismo nel nostro lavoro di formazione delle persone, ma siamo anche chiamati a contrastare il suo predominio nella società e nella cultura. E’ molto importante perciò, accanto alla parola della Chiesa, la testimonianza e l’impegno pubblico delle famiglie cristiane, specialmente per riaffermare l’intangibilità della vita umana dal concepimento fino al suo termine naturale, il valore unico e insostituibile della famiglia fondata sul matrimonio e la necessità di provvedimenti legislativi e amministrativi che sostengano le famiglie nel compito di generare ed educare i figli, compito essenziale per il nostro comune futuro. Anche per questo impegno vi dico un grazie cordiale. 

Sacerdozio e vita consacrata 

Un ultimo messaggio che vorrei affidarvi riguarda la cura delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata: sappiamo tutti quanto la Chiesa ne abbia bisogno! Perché queste vocazioni nascano e giungano a maturazione, perché le persone chiamate si mantengano sempre degne della loro vocazione, è decisiva anzitutto la preghiera, che non deve mai mancare in ciascuna famiglia e comunità cristiana. Ma è anche fondamentale la testimonianza di vita dei sacerdoti, dei religiosi e delle religiose, la gioia che essi esprimono per essere stati chiamati dal Signore. Ed è ugualmente essenziale l’esempio che i figli ricevono all’interno della propria famiglia e la convinzione delle famiglie stesse che, anche per loro, la vocazione dei propri figli è un grande dono del Signore. La scelta della verginità per amore di Dio e dei fratelli, che è richiesta per il sacerdozio e la vita consacrata, sta infatti insieme con la valorizzazione del matrimonio cristiano: l’uno e l’altra, in due maniere differenti e complementari, rendono in qualche modo visibile il mistero dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. 

Cari fratelli e sorelle, vi affido queste riflessioni come contributo al vostro lavoro nelle serate del Convegno e poi durante il prossimo anno pastorale. Chiedo al Signore di darvi coraggio ed entusiasmo, perché questa nostra Chiesa di Roma, ciascuna parrocchia, comunità religiosa, associazione o movimento partecipi più intensamente alla gioia e alle fatiche della missione e così ogni famiglia e l’intera comunità cristiana riscopra nell’amore del Signore la chiave che apre la porta dei cuori e che rende possibile una vera educazione alla fede e formazione delle persone. Il mio affetto e la mia benedizione vi accompagnano oggi e per il futuro. 

 

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 29 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

buona notte

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« Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace »

Beato Giovanni XXIII (1881-1963), papa
Giornale dell’anima, § 1958-1963

« Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace »

Dopo la mia prima messa sulla tomba di san Pietro, ecco le mani del Santo Padre Pio X, posate sul mio capo in benedizione di buon augurio per me e per l’inizio della mia vita sacerdotale. E dopo più di un mezzo seccolo, ecco le mie mani stese sui cattolici – e non solo sui cattolici – del mondo intero, in gesto di paternità universale… Come san Pietro e i suoi successori, sono stato incaricato del governo dell’intera Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica. Tutte queste parole sono sacre e superano in un modo inimmaginabile ogni esaltazione personale. Mi lasciano nel profondo della mia nullità, innalzato alla sublimità di un ministero che prevale su ogni grandezza e ogni dignità umane.

Quando, il 28 ottobre 1958, i cardinali della santa Chiesa romana mi hanno designato alla responsabilità del gregge universale di Cristo Gesù, a settantasette anni, si è diffusa la convizione che sarei stato un papa di transizione. Invece, eccomi alla vigilia del mio quarto anno di pontificato e nella prospettiva di un solido programma da svolgere di fronte al mondo intero che guarda e aspetta. Quanto a me, mi trovo come san Martino che « non temeva di morire, né rifiutava di vivere ».

Devo sempre tenermi pronto a morire anche improvvisamente e a vivere per quanto piacerà al Signore di lasciarmi quaggiù. Sì, sempre. Alle soglie del mio ottantaquattresimo anno, devo tenermi pronto; sia a morire che a vivere. E in un caso come nell’altro, devo badare alla mia santificazione. Poiché dappertutto mi chiamano « Santo Padre », come se questo fosse il mio primo titolo, ebbene, devo e voglio esserlo per davvero.

dal sito:

http://levangileauquotidien.org/

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 29 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

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