Archive pour le 21 décembre, 2007

Maria bacia il Bambino Gesù

Maria bacia il Bambino Gesù dans immagini sacre baby-jesus-pictures

http://www.babypicturesphotos.com/cutebabypictures/baby-jesus-pictures/

Publié dans:immagini sacre |on 21 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

Gianfranco Ravasi: L’ARTE CANTA PADRE NOSTRO

dal sito: 

http://www.novena.it/ravasi/ravasi.htm  

Gianfranco Ravasi,

articoli anno 2001

L’ARTE CANTA PADRE NOSTRO

Il 27gennaio 1901 moriva a Milano Giuseppe Verdi. Di lui è stato detto e scritto molto durante quest’anno commemorativo, anche riguardo alla sua malferma fede cristiana. Noi ora vorremmo solo evocare una sua partitura marginale, un Padre Nostro per coro misto a cinque voci basato sulla libera resa della preghiera di Gesù offerta da Dante (sul manoscritto lo stesso Verdi aveva precisato: “volgarizzato da Dante”).
Ebbene, partiamo da questo spunto per dire qualcosa su una delle pagine più celebri in assoluto di tutta la S. Scrittura, cioè il Padre Nostro, la preghiera insegnata da Cristo ai suoi discepoli e presentata dai Vangeli di Matteo (6,9-13) e di Luca (11,2-4) in due forme e in due contesti differenti.

Cinquantasette parole greche, sette invocazioni e lo sfondo del monte delle Beatitudini, secondo Matteo; trentotto parole greche, cinque invocazioni e un fondale imprecisato durante il grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme, secondo Luca.
Non vogliamo ora commentare questa che è divenuta la preghiera per eccellenza del cristiano, l’oratio perfectissima, come la definiva S. Tommaso d’Aquino nella sua Summa Theologiae (11,11, q.83, a.9).
Lo abbiamo già fatto proprio su queste pagine due anni fa. Ci accontenteremo, invece, di esemplificare la sua presenza costante e potente nella storia dell’Occidente.

Per far questo dovremmo partire proprio da Dante.
Egli nel canto XI (le prime Otto terzine) del Purgatorio mette in bocca alla lenta processione degli spiriti superbi, che si snoda nel primo girone di quel luogo di purificazione, una parafrasi solenne del Padre Nostro («0 Padre nostro, che ne’ cieli stai…»).
Non possiamo, per ragioni di spazio, citarla, ma suggeriremmo ai nostri lettori di cercare un’edizione della Divina Commedia forse quella usata a scuola in passato e di seguire con pacatezza e attenzione i versi di Dante che Verdi aveva usato come testo per il suo pezzo musicale.

E dato che stiamo parlando di musica, affiora facilmente una domanda: al di là della melodia gregoriana della liturgia, quali sono le riprese musicali del Padre Nostro? Bisogna riconoscere che, a differenza dell’Ave Maria che ha avuto un successo straordinario (per stare a Verdi, pensiamo a quella dell’Otello), la preghiera di Gesù ha prodotto vari testi musicali ma quasi tutti dimenticati o non particolarmente alti.
Se si vuole avere un’antologia di queste composizioni, bisognerebbe ricorrere a un compact disc (Ms 062) edito dalla San Paolo nel 1994, in cui è offerta una sequenza di testi che partono dal Palestrina nel ‘500 e approdano sino ai nostri giorni. Ritorneremo, comunque, sull’argomento la prossima settimana. 

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 21 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

Padre Cantalamessa: “Spe gaudentes, lieti nella speranza”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12974?l=italian

Padre Cantalamessa: “Spe gaudentes, lieti nella speranza”

Terza predica di Avvento al Papa e ai suoi collaboratori

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 21 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo il testo integrale della terza ed ultima predica di Avvento tenuta questo venerdì, nella Cappella “Redemptoris Mater”, alla presenza di Benedetto XVI, dal Predicatore della Casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap.

Le prediche per l’Avvento di quest’anno ruotano attorno al tema: “Ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Ebrei 1, 2). La prima si è tenuta il 7 dicembre, mentre la seconda il 14 dicembre.

* * *

Terza Predica di Avvento

alla Casa Pontificia

Spe gaudentes, lieti nella speranza

1. Gesú, il Figlio

In un capitolo del libro su Gesú di Nazaret, il papa illustra la fondamentale differenza tra il titolo “Figlio di Dio” e quello di “Figlio”, senza altre aggiunte. Il semplice titolo di “Figlio”, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è molto più pregnante che non “Figlio di Dio”. Quest’ultimo arriva a Gesú dopo una lunga trafila di attribuzioni: così era stato definito il popolo d’Israele e, singolarmente, il suo re; così si facevano chiamare i faraoni e i sovrani orientali e così si proclamerà l’imperatore romano. Da solo, esso non sarebbe stato sufficiente perciò a distinguere la persona di Cristo da ogni altro “figlio di Dio”.

Diverso è il caso del titolo di “Figlio”, senza altre aggiunte. Questo appare nei vangeli come esclusivo di Cristo ed è con esso che Gesú esprimerà la sua identità profonda. Dopo i vangeli è proprio la Lettera agli Ebrei a testimoniare con più forza questo uso assoluto del titolo “il Figlio”; esso vi ricorre per ben cinque volte.

Una comunione di conoscenza così totale e assoluta tra Padre e Figlio, nota il papa nel suo libro, non si spiega senza una comunione ontologica, o dell’essere. Le formulazioni posteriori, culminanti nella definizione di Nicea, del Figlio come “generato, non fatto, della stessa sostanza del Padre”, sono dunque sviluppi arditi, ma coerenti con il dato evangelico.

La prova più forte della coscienza che Gesú aveva della sua identità di Figlio è la sua preghiera. In essa la figliolanza non è solo dichiarata, ma vissuta. Per il modo e la frequenza con cui ricorre nella preghiera di Cristo, l’esclamazione Abbà attesta una intimità e familiarità con Dio che non ha l’eguale nella tradizione d’Israele. Se l’espressione è stata conservata nella lingua originaria e diventa il marchio della preghiera cristiana (cf. Gal 4,6; Rom 8, 15) è proprio perché si era convinti che era stata la forma tipica della preghiera di Gesú1.

2. Un Gesú degli atei?

Questo dato evangelico getta una luce singolare sul dibattito attuale intorno alla persona di Gesú. Nell’introduzione del suo libro, il papa cita l’affermazione di R. Schnackenburg secondo cui “senza il radicamento in Dio la persona di Gesú rimane fuggevole, irreale e inspiegabile”. “Questo, dichiara il papa, è anche il punto di appoggio su cui si basa questo mio libro: considera Gesú a partire dalla sua comunione con il Padre. Questo è il vero centro della sua personalità” 2.

Ciò mette in luce, a mio parere, la problematicità di una ricerca storica su Gesú che non solo prescinda, ma escluda in partenza la fede; in altre parole, la plausibilità storica di quello che è stato definito a volte “il Gesú degli atei”. Non parlo, in questo momento, della fede in Cristo e nella sua divinità, ma di fede nell’accezione più comune del termine, di fede nell’esistenza di Dio.

Lungi da me l’idea che i non credenti non abbiano diritto di occuparsi di Gesú. Quello che vorrei mettere in evidenza, partendo dalle affermazioni citate del papa, sono le conseguenze che derivano da un tale punto di partenza, come cioè la “precomprensione” di chi non crede incida sulla ricerca storica enormemente di più di quella del credente. Il contrario di ciò che gli studiosi non credenti pensano.

Se si nega o si prescinde dalla fede in Dio, non si elimina solo la divinità, o il cosiddetto Cristo della fede, ma anche il Gesú storico tout court, non si salva neppure l’uomo Gesú. Nessuno può contestare storicamente che il Gesú dei vangeli vive e opera in continuo riferimento al Padre celeste, che prega e insegna a pregare, che fonda tutto sulla fede in Dio. Se si elimina questa dimensione dal Gesú dei vangeli non resta di lui assolutamente niente.

Se dunque si parte dal presupposto, tacito o dichiarato, che Dio non esiste, Gesú non è che uno dei tanti illusi che ha pregato, adorato, parlato con la propria ombra, o con la proiezione della propria essenza, per dirla con Feuerbach. Gesú sarebbe la vittima più illustre di quella che l’ateo militante Dawkins definisce “l’illusione di Dio” 3. Ma come si spiega allora che la vita di quest’uomo “ha cambiato il mondo” e, a distanza di duemila anni, continua a interpellare gli spiriti come nessun altro? Se l’illusione è capace di operare quello che ha operato Gesú nella storia, allora Dawkins e gli altri devono forse rivedere il loro concetto di illusione.

C’è una sola via d’uscita da questa difficoltà, quella che si è fatta strada nell’ambito del “Jesus Seminar” di Berkeley negli Stati Uniti. Gesú non era un credente ebreo; era nel fondo un filosofo itinerante, nello stile dei cinici4; non ha predicato un regno di Dio, né una prossima fine del mondo; ha solo pronunciato massime sapienziali nello stile di un maestro Zen. Il suo scopo era di ridestare negli uomini la coscienza di sé, convincerli che non avevano bisogno né di lui né di altro dio, perché loro stessi portavano in sé una scintilla divina5. Sono però – guarda caso – le cose che va predicando da decenni il New Age! Un’ennesima immagine di Gesú, prodotto della moda del momento. È vero: senza il radicamento in Dio, la figura di Gesú rimane “fuggevole, irreale e inspiegabile”.

3. Preesistenza di Cristo e Trinità

Anche su questo punto, come sulla riduzione di Gesú a un profeta, il problema non si pone soltanto nella discussione con la critica non credente; si pone, in maniera e con spirito diversi, anche nella discussione teologica all’interno della Chiesa. Cerco di spiegare in che senso.

Circa il titolo di Figlio di Dio si assiste a una specie di risalita a monte nel Nuovo Testamento: All’inizio esso è messo in rapporto con la risurrezione di Cristo (Rom 1, 4; At ); Marco fa un passo indietro e lo pone in rapporto con il suo battesimo nel Giordano (Mc 1, 11); Matteo e Luca lo fanno risalire alla sua nascita da Maria (Lc 1, 35). La Lettera agli Ebrei opera il salto decisivo, affermando che il Figlio non ha cominciato ad esistere al momento della sua venuta tra noi, ma che esiste da sempre. “Per mezzo di lui, dice, [Dio] ha fatto il mondo”, egli è “l’irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza”. Una trentina di anni più tardi, il vangelo di Giovanni consacrerà questa conquista iniziando il suo vangelo con le parole: “In principio era il Verbo…”

Ora, sulla preesistenza di Cristo come Figlio eterno del Padre sono state avanzate, nell’ambito di alcune delle cosiddette “nuove cristologie”, delle tesi assai problematiche. In esse si afferma che la preesistenza di Cristo come Figlio eterno del Padre è un concetto mitico derivato dall’ellenismo. In termini moderni, esso significherebbe semplicemente che “il rapporto fra Dio e Gesù non si è sviluppato solo in un secondo tempo e per così dire casualmente, ma esiste a priori ed è fondato in Dio stesso”.

In altre parole, Gesù preesisteva in senso intenzionale, non reale; nel senso, cioè, che il Padre, da sempre, aveva previsto, scelto e amato come figlio il Gesù che un giorno sarebbe nato da Maria. Preesisteva, dunque, non diversamente da ognuno di noi, dal momento che ogni uomo, dice la Scrittura, è stato “ prescelto e predestinato” da Dio come suo figlio, prima della creazione del mondo! (cfr. Ef 1,4).

Insieme con la preesistenza di Cristo, cade, in questa prospettiva, anche la fede nella Trinità. Questa è ridotta a qualcosa di eterogeneo (una persona eterna, il Padre, più una persona storica, Gesú, più una energia divina, lo Spirito Santo); qualcosa, inoltre, che non esiste ab aeterno ma diviene nel tempo.

Mi limito a far notare come anche questa tesi non è nuova. L’idea di una preesistenza solo intenzionale e non reale del Figlio fu avanzata, discussa e rigettata dal pensiero cristiano antico. Non è vero, perciò, che essa è imposta dalle concezioni nuove, non più mitiche, che abbiamo di Dio, come non è vero che l’idea contraria, di una preesistenza eterna, era l’unica soluzione pensabile nel contesto culturale antico e che i Padri non avevano, dunque, possibilità di scelta.

Fotino, nel IV secolo, conosceva già l’idea di una preesistenza di Gesù “a modo di previsione” (kata prognosin) o “a modo di anticipazione” (prochrestikos). Contro di lui un sinodo decretò: “Se qualcuno dice che il Figlio, prima di Maria, esisteva solo secondo previsione e non che è generato dal Padre prima dei secoli per essere Dio e per mezzo suo far venire all’essere tutte le cose, sia anatema” 6. L’intenzione di questi teologi era lodevole: tradurre in un linguaggio comprensibile all’uomo d’oggi il dato antico. Purtroppo però, ancora una volta, quello che viene tradotto in linguaggio moderno non è il dato definito dai concili, ma quello condannato dai concili.

Già sant’Atanasio faceva notare che l’idea di una Trinità composta di realtà eterogenee compromette proprio quell’unità divina che con essa si vuole mettere al sicuro. Se poi si ammette che Dio “diviene” nel tempo, nessuno ci assicura che la sua crescita e il suo divenire siano finiti. Chi è divenuto diverrà ancora7. Quanto tempo e fatica ci farebbe risparmiare una conoscenza meno superficiale del pensiero dei Padri!

Nell’ambito della cosiddetta “terza ricerca” sul Gesú storico, recentemente la questione è stata ripresa dalle fondamenta da Larry Hurtado, professore di lingua, letteratura e teologia del Nuovo Testamento a Edimburgo. Ecco la conclusione a cui egli giunge, al termine di una ricerca di oltre 700 pagine:

“La venerazione di Gesú come figura divina, esplose all’improvviso e presto, non poco alla volta e tardi, tra cerchie di seguaci del I secolo. Più in particolare, le origini stanno nelle cerchie cristiane giudaiche dei primissimi anni. Solo un modo di pensare idealistico continua ad attribuire la venerazione per Gesú come figura divina all’influenza decisiva della religione pagana e all’influsso dei convertiti gentili, presentandola come recente e graduale. La venerazione di Gesú come ‘Signore’, che trovava espressione adeguata nella venerazione cultuale e nell’obbedienza totale, era inoltre generale, non era confinata e attribuibile a cerchie particolari, ad esempio gli ‘ellenisti’ o i cristiani gentili di un ipotetico ‘culto di Cristo siriaco’. Con tutta la diversità del primo cristianesimo, la fede nella condizione divina di Gesú era incredibilmente comune”9.

Questa rigorosa conclusione storica dovrebbe porre fine all’opinione, tuttora dominante in una certa divulgazione, secondo cui il culto divino di Cristo sarebbe un frutto posteriore della fede (imposto per legge da Costantino a Nicea nel 325, secondo Dan Brown, nel suo Codice da Vinci!).

4. La “bambina Speranza”

Oltre al libro su Gesú di Nazaret, il Santo Padre, nell’anno in corso, ci ha fatto dono anche dell’enciclica sulla speranza. L’utilità di un documento pontificio, oltre il suo contenuto altissimo, sta anche nel fatto che concentra su un punto l’attenzione di tutti i credenti, stimolando su di esso la riflessione. In questa linea, vorrei fare qui una piccola applicazione spirituale e pratica del contenuto teologico dell’enciclica, mostrando come il testo della Lettera agli Ebrei che abbiamo meditato può contribuire ad alimentare la nostra speranza.

Nella speranza – scrive l’autore della Lettera con una bellissima immagine destinata a divenire classica nell’iconografia cristiana – ”noi abbiamo come un’àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell’interno del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore” (Ebr 6, 17-20). Il fondamento di questa speranza è proprio il fatto che “negli ultimi tempi Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio”. Se ci ha dato il Figlio, dice san Paolo, “come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rom 8,32). Ecco perché “la speranza non delude” (Rom 5,5): il dono del Figlio è pegno e garanzia di tutto il resto e, in primo luogo, della vita eterna. Se il Figlio è “l’erede di tutto” (heredem universorum) ( Ebr 1,2), noi siamo i suoi “coeredi” (Rom 8, 17).

I vignaioli iniqui della parabola, vedendo arrivare il figlio, dicono tra sé: “Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità” (Mt 21, 38). Nella sua onnipotenza misericordiosa, Dio Padre ha volto in bene questo disegno criminoso. Gli uomini hanno ucciso il Figlio e hanno avuto davvero l’eredità! Grazie a quella morte, sono diventati “eredi di Dio e coeredi di Cristo”.

Noi creature umane abbiamo bisogno di speranza per vivere, come del­l’ossigeno per respirare. Si dice che finché c’è vita c’è speranza; ma e vero anche il rovescio: che finché c’è speranza c’è vita. La speranza è stata per molto tempo, ed è tutt’ora, tra le virtù teologali, la sorella minore, la parente povera. Si parla spesso della fede, più spesso ancora della carità, ma assai poco della speranza.

Il poeta Charles Péguy ha ragione quando paragona le tre virtù teologali a tre sorelle: due adulte e una bambina piccina. Vanno per strada tenendosi per mano (le tre virtù teologali sono inseparabili tra di loro!), le due grandi ai lati, la bambina al centro. Tutti, vedendole, sono convinti che sono le due grandi –la fede e la carità – a trascinare la bambina speranza al centro. Si sbagliano: è la bambina speranza che trascina le altre due; se si ferma essa, si ferma tutto 10.

Lo vediamo anche sul piano umano e sociale. In Italia si è fermata la speranza e con essa la fiducia, lo slancio, la crescita, anche economica. Il “declino” di cui si parla nasce da qui. La paura del futuro ha preso il posto della speranza. La scarsità delle nascite ne è il rivelatore più chiaro. Nessun paese ha bisogno di meditare l’enciclica del papa quanto l’Italia.

La speranza teologale è il “filo dall’alto” che sostiene dal centro tutte le speranze umane. “Il filo dall’alto” è il titolo di una parabola dello scrittore rgensen. Parla del ragno che si cala dal ramo di un alberordanese Johannes J lungo un filo che lui stesso produce. Posandosi sulla siepe, tesse la sua rete, capolavoro di simmetria e di funzionalità. Essa è tesa ai lati da altrettanti fili, ma tutto è retto al centro da quel filo da cui è sceso. Se si tronca uno dei fili laterali, il ragno interviene, lo ripara e tutto è a posto, ma se si tronca il filo dall’alto (io una volta ho voluto verificare e ho visto che è vero) tutto si affloscia e il ragno scompare, sapendo che non c’è più nulla da fare. È un’immagine di quello che avviene quando si tronca il filo dall’alto che è la speranza teologale. Solo essa può “ancorare” le speranze umane alla speranza “che non delude”.

Nella Bibbia assistiamo a dei veri e propri sussulti o soprassalti di speranza. Uno di essi si trova nella terza Lamentazione: “ Io – dice il profeta – sono la persona che ha provato la miseria e la pena… Ho detto: È sparita la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore”.

Ma ecco il sussulto di speranza che capovolge tutto. A un certo punto, l’o­rante dice a se stesso: “Ma le misericordie del Signore non so­no finite; dunque in lui voglio sperare! Il Signore non rigetta mai, ma se affligge avrà anche pietà. Forse c’è ancora speranza “ (cf Lam 3, 1-29). Dall’istante che il profeta decide di tornare a sperare, il tono del discorso cambia completamente: la lamentazione si trasforma in supplica fiduciosa: “Il Signore non rigetta mai. Ma, se affligge, avrà anche pietà secondo la sua grande misericordia” (Lam 3, 32).

Noi abbiamo un motivo molto più forte per avere questo sussulto di speranza: Dio ci ha dato suo Figlio: come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? A volte giova gridare a se stessi: “Ma Dio c’è e tanto basta!”. Il servizio più prezioso che la Chiesa italiana può fare, in questo momento al paese, è quello di aiutarlo ad avere un sussulto di speranza. Contribuisce a questo scopo chi (come ha fatto Benigni nel suo recente spettacolo in Tv) non ha paura di contrastare il disfattismo, ricordando agli italiani i tanti e straordinari motivi, spirituali e culturali, che essi hanno di avere fiducia nelle proprie risorse.

La volta scorsa parlavo di una aromaterapia basata sull’olio di letizia che è lo Spirito Santo. Di questa terapia abbiamo bisogno per guarire dalla malattia più perniciosa di tutte: la disperazione, lo scoraggiamento, la perdita di fiducia in sé, nella vita e perfino nella Chiesa. “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rom 15,13): così scriveva l’Apostolo ai Romani del suo tempo e ripete a quelli di oggi.

Non si abbonda nella speranza senza la virtù dello Spirito Santo. C’è un canto spiritual afro-americano, dove non si fa che ripetere continuamente queste poche parole: “C’è un balsamo in Gilead che guarisce le anime ferite” (There is a balm in Gilead / to make the wounded whole…). Gilead, o Galaad, è una località famosa nell’Antico Testamento per i suoi profumi e unguenti (cf Ger 8,22). Il canto prosegue dicendo: “A volte mi sento scoraggiato e penso che tutto sia inutile, ma viene lo Spirito Santo e ridà vita alla mia anima”. Gilead è per noi la Chiesa e il balsamo che guarisce è lo Spirito Santo. Egli è la scia di profumo che Gesú si è lasciato dietro, passando su questa terra.

La speranza è miracolosa: quando rinasce in un cuore, tutto è diverso anche se nulla è cambiato. “Anche i giovani faticano e si stancano, si legge in Isaia, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40, 30-31).

Dove rinasce la speranza rinasce anzitutto la gioia. L’Apostolo dice che i credenti sono spe salvi, “salvati nella speranza” (Rom 8, 24) e che perciò devono essere spe gaudentes “lieti nella speranza” (Rom 12, 12). Non gente che spera di essere felice, ma gente che è felice di sperare; felice già ora, per il semplice fatto di sperare.

Che in questo Natale, Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, il Dio della speranza, per virtù dello Spirito Santo e per intercessione di Maria “Madre della speranza”, ci conceda di essere lieti nella speranza e di abbondare in essa.

—————–

1 Cf. J. Dunn, op. cit., p. 746 ss.

2 Benedetto XVI, Gesú di Nazaret, Rizzoli 2007, p.10.

3 R. Dawkins, God Delusion, Bantam Books, 2006.

4 Sulla teoria di Gesú cinico cf. B. Griffin, Was Jesus a Philosophical Cynic? [http://www-oxford.op.org/allen/html/acts.htm].

5 Cf. il saggio di Harold Bloom, “Whoever discovers the interpretation of these sayings…”, pubblicato in appendice all’edizione del Vangelo copto di Tommaso curata da Marvin Meyer: The Gospel of Thomas. The Hidden Sayings of Jesus, Harper Collins Publishers, San Francisco 1992.

6 Formula del sinodo di Sirmio del 351, in A. Hahn, Bibliotek der Symbole und Glaubensregeln in der alten Kirche, Hildesheim 1962, p.197.

7 Cf. S. Atanasio cf. Contro gli ariani, I, 17-18 (PG 26, 48).

8 Wilhelm Bousset, Kyrios Christos, 1913.

9 L. Hurtado, Lord Jesus Christ. Devotion to Jesus in Earliest Christianity, Grand Rapids, Mich. 2003, cit. nell’ediz. italiana Signore Gesù Cristo, 2 voll. Paideia, Brescia 2007, p. 643.

10 Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Oeuvres poétiques complètes, Gallimard, Parigi 1975, pp. 531 ss.

Publié dans:Padre Cantalamessa |on 21 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

Sarkozy: la laicità non ha il diritto di tagliare le radici cristiane

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12970?l=italian 

Sarkozy: la laicità non ha il diritto di tagliare le radici cristiane

Discorso nella Sala della Conciliazione del Palazzo del Laterano 

Di Mirko Testa

 ROMA, giovedì, 20 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Questo giovedì sera, il Presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha pronunciato un discorso storico nel quale ha presentato la sua visione di “laicità positiva”, che non va intesa come negazione del passato o delle radici cristiane del suo paese. 

Nella famosa Sala della Conciliazione del Palazzo del Laterano, a Roma, dove nel 1929 Benito Mussolini e il Cardinale Pietro Gasparri hanno firmato i Patti Lateranensi, il Capo dell’Eliseo ha offerto un’ampia analisi del suo modo di concepire il rapporto tra Chiesa e Stato, sottolineando il contributo sociale e culturale offerto dalle religioni. 

Dopo essersi incontrato con Benedetto XVI il Presidente Nicolas Sarkozy si è infatti recato alla Basilica lateranense per la Messa annuale per la Francia, ovvero la Missa pro felici statu Nationis Galliae, presieduta dal Cardinale Vicario Camillo Ruini, Arciprete della Basilica e per la presa di possesso del Capitolo del Laterano. 

Secondo la tradizione, in occasione di una visita in Vaticano, il Presidente della Repubblica francese si reca nella Basilica del Laterano per assumere il titolo di “canonico onorario”. 

Questo titolo è appannaggio di tutti i Capi di stato, a partire da Enrico IV, che offrì nel 1604 le entrate dell’abbazia di Clairac (Lot-et-Garonne) al Capitolo della Basilica. Ma la visita presidenziale a Roma e presso il Vaticano è stata istituita solo nel 1957, tra René Coty e Pio XII. 

Nel suo discorso Sarkozy ha da subito evidenziato il “legame particolare” che unisce la Francia alla Chiesa e al successore di Pietro. 

Il Presidente francese ha poi riconosciuto i malumori suscitati nei cattolici dalla legge promulgata nel 1905 in Francia dal presidente Emile Loubet, che, rimasta praticamente immutata fino ai nostri giorni, regola i rapporti tra Stato e Chiesa delineandone nettamente gli ambiti di influenza. 

“Nessuno contesta più che il regime francese di laicità sia oggi una garanzia di libertà – ha detto Sarkozy –: libertà di credere o di non credere, di praticare una religione e di cambiarla, di non essere urtato nella propria coscienza da pratiche ostentatorie, libertà per i genitori di far dare ai loro figli un’educazione conforme alle loro convinzioni, libertà di non essere discriminati dall’amministrazione in ragione della propria fede”. 

Tuttavia, ha detto il Presidente francese, “la laicità non può essere negazione del passato. Non ha il potere di tagliare la Francia dalle sue radici cristiane”. 

Secondo Sarkozy “tagliare le radici significa perdere il significato, significa indebolire il fondamento dell’identità nazionale e disseccare ancor più i rapporti sociali che hanno tanto bisogno di simboli della memoria”. 

“Per questo – ha aggiunto – dobbiamo tenere insieme i due estremi della catena: assumere le radici cristiane della Francia, e anche valorizzarle, difendendo al tempo stesso la laicità divenuta matura. Ecco il senso del passo che ho voluto compiere questa sera a San Giovanni in Laterano”. 

“Così come Benedetto XVI – ha continuato –, ritengo che una nazione che ignori l’eredità etica, spirituale, religiosa della propria storia commetta un crimine contro la sua cultura, contro l’insieme della sua storia, del suo patrimonio fatto di arte e di tradizioni popolari che impregna in maniera così profonda il modo di vivere e pensare”. 

“La Francia ha bisogno di cattolici convinti che non abbiano paura di affermare ciò che sono e ciò in cui credono – ha affermato – . Siamo in attesa di spiritualità, di valori, di speranza”. 

La Francia, ha aggiunto, “ha bisogno di cattolici gioiosi che testimonino la loro speranza”; ha bisogno di “non subire l’avvenire ma di costruirlo”; ha “bisogno della testimonianza di chi, sostenuto da una speranza più grande, si rimette in marcia ogni giorno per costruire un mondo migliore”. 

Per questo motivo, ha detto di essere a favore di “una laicità positiva”, che “non considera le religioni come un pericolo, ma come un vantaggio”. 

Dopo la cerimonia al Laterano, in serata, il Presidente francese è stato quindi ricevuto al Quirinale dal Presidente Giorgio Napolitano, prima di incontrarsi con il Premier italiano Romano Prodi e più tardi con il Premier spagnolo José Rodriguez Zapatero.

 [Con il contributo di Jesús Colina]  

Publié dans:Nicolas Sarkozy |on 21 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno 1-1192863040

Aeonium Flower
http://www.publicdomainpictures.net/view-image.php?image=369

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 21 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

« Beata colei che ha creduto »

San Bernardo (1091-1153), monaco cistercense e dottore della Chiesa
Omelia per l’ottava dell’Assunzione

« Beata colei che ha creduto »

Maria è beata, come sua cugina Elisabetta le ha detto, non soltanto perché Dio ha posato il suo sguardo su di lei, ma perché lei ha creduto. La sua fede è il frutto più bello della bontà divina. Eppure è stato necessario che lo Spirito Santo, con arte ineffabile venga su di lei, perché una tale grandezza d’animo si unisca a una tale umiltà, nel segreto del suo cuore verginale. L’umiltà e la grandezza d’animo di Maria, come la sua verginità e la sua fecondità, sono simili a due stelle che si illuminano a vicenda. In Maria infatti, la profondità dell’umiltà non nuoce in nulla alla generosità dell’anima, e reciprocamente. Mentre Maria giudicava così umilmente se stessa, non è stata per questo meno generosa nel suo credere alla promessa che le veniva fatta dall’angelo. Colei che considerava se stessa solo come povera serva, non ha assolutamente dubitato di essere stata chiamata a così incomprensibile mistero, a così prodigiosa unione, a così insondabile segreto. Ha creduto senz’indugio che stava veramente per diventare la madre di Dio fatto uomo.

È la grazia di Dio ad operare questa meraviglia nel cuore dei suoi eletti; l’umiltà non li rende paurosi e timorosi, non più che la loro generosità d’animo li rende superbi. Al contrario, nei santi, queste due virtù si rafforzano l’un l’altra; la grandezza d’animo non soltanto non apre la porta a nessuna superbia, ma è proprio questa a favorire un ingresso più profondo nel mistero dell’umiltà; infatti, coloro che sono più generosi nel servizio di Dio sono anche più penetrati dal timore del Signore e più riconoscenti dei doni ricevuti. Reciprocamente, quando l’umiltà è in gioco, nessuna fiacchezza può farsi strada nell’anima. Quanto meno uno è solito presumere delle proprie forze, persino nelle cose più piccole, tanto più si affida alla potenza di Dio, persino nelle cose più grandi.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 21 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31