Predicatore del Papa: “Chi cerca Dio trova sempre la gioia”
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Predicatore del Papa: “Chi cerca Dio trova sempre la gioia”
Commento di padre Cantalamessa alla liturgia di domenica prossima
ROMA, giovedì, 13 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia –, alla liturgia di domenica prossima, III Domenica di Avvento.
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III Domenica di Avvento
Isaia 35, 1-6a.8a.10; Giacomo 5, 7-10; Matteo 11, 2-11
Rallegratevi, il Signore è vicino
Partiamo per la nostra riflessione dalla frase con la quale Gesú, nel vangelo, rassicura i discepoli di giovanni Battista circa la propria messianicità: « Ai poveri è annunciato un lieto messaggio ». Il vangelo è un messaggio di gioia: questo proclama la liturgia della terza domenica di Avvento che, dalle parole di Paolo nell’antifona di ingresso, ha preso il nome di domenica Gaudete, rallegratevi, cioè domenica della gioia. La prima lettura, tratta dal profeta Isaia, è tutt’un inno alla gioia: « Si rallegrino il deserto e la terra arida…Si canti con gioia e con giubilo… Felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto ».
Tutti vogliono essere felici. Se potessimo rappresentarci visivamente l’intera umanità, nel suo movimento più profondo, vedremmo una folla immensa intorno a un albero da frutto, ergersi sulla punta dei piedi e protendere disperatamente le mani, nello sforzo di cogliere un frutto che però sfugge a ogni presa. La felicità, ha detto Dante, è « quel dolce pomo che per tanti rami / cercando va la cura dei mortali »: quel dolce frutto che l’uomo cerca tra i rami della vita.
Ma se tutti cerchiamo la felicità, perché così pochi sono veramente felici e anche quelli che lo sono lo sono per così poco tempo? Io credo che la ragione principale è che, nella scalata alla vetta della felicità, sbagliamo versante, scegliamo un versante che non porta alla vetta. La rivelazione dice: « Dio è amore »; l’uomo ha creduto di poter rovesciare la frase e dire: « L’amore è Dio! » (l’affermazione è di Feuerbach). La rivelazione dice: « Dio è felicità »; l’uomo inverte di nuovo l’ordine e dice: « La felicità è Dio! » Ma cosa avviene in questo modo? Noi non conosciamo in terra la felicità allo stato puro, come non conosciamo l’amore assoluto; conosciamo solo frammenti di felicità, che si riducono spesso a ebbrezze passeggere dei sensi. Quando perciò diciamo: « La felicità è Dio! », noi divinizziamo le nostre piccole esperienze; chiamiamo « Dio » l’opera delle nostre mani, o della nostra mente. Facciamo, della felicità, un idolo. Questo spiega perché chi cerca Dio trova sempre la gioia, mentre chi cerca la gioia non sempre trova Dio. L’uomo si riduce a cercare la felicità per via di quantità: inseguendo piaceri ed emozioni via via più intensi, o aggiungendo piacere a piacere. Come il drogato che ha bisogno di dosi sempre maggiori, per ottenere lo stesso grado di piacere.
Solo Dio è felice e fa felici. Per questo un salmo esorta: « Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore » (Sal 4). Con lui anche le gioie della vita presente conservano il loro dolce sapore e non si trasformano in angosce. Non solo le gioie spirituali, ma ogni gioia umana onesta: la gioia di veder crescere i propri figli, del lavoro felicemente portato a termine, dell’amicizia, della salute ritrovata, della creatività, dell’arte, della distensione a contatto con la natura. Solo Dio ha potuto strappare dalle labbra di un santo il grido: « Basta, Signore, con la gioia; il mio cuore non può contenerne più! ». In Dio si trova tutto quello che l’uomo è solito associare alla parola felicità e infinitamente di più, poiché « occhio non vide, orecchio non udì, né mai salì in cuore di uomo quello che Dio tiene preparato per coloro che lo amano » (cfr.1 Cor 2,9).
È ora di cominciare a proclamare con più coraggio il « lieto messaggio » che Dio è felicità, che la felicità -non la sofferenza, la privazione, la croce- avrà l’ultima parola. Che la sofferenza serve solo a rimuovere l’ostacolo alla gioia, a dilatare l’anima, perché un giorno possa accoglierne la misura più grande possibile.
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