Archive pour le 11 décembre, 2007

Il Profeta Isaia (Cappella Sistina)

Il Profeta Isaia (Cappella Sistina) dans immagini sacre

Il Profeta Isaia, (1510-1511)
Volta della Cappella Sistina
Vaticano, Roma

http://solioardendo.splinder.com/

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Introduzione ai Libri Profetici

 dal sito:

http://www.lasacrabibbia.com/LIBRI%20PROFETICI.htm

 

Introduzione ai Libri Profetici 

[ di P. Gironi ] 

Libri Profetici (maggiori)

 Il termine profeta deriva dal greco profêtês e significa «colui che annuncia, che proclama». L’accento, quindi, è posto più sull’attività dell’uomo che è chiamato a parlare che sulla capacità di predire il futuro, pur senza escluderla. Nella lingua ebraica il termine corrispondente è nabî’. Esso ha, però, un significato più vasto, in quanto racchiude anche quello di «essere chiamato». Questa precisazione è confermata anche dal fatto che presso i profeti biblici è quasi sempre presentata la chiamata al loro ministero profetico. 

Con l’espressione figli dei profeti s’intende il gruppo di discepoli che si forma accanto alla persona carismatica del profeta e che molto contribuirà alla conoscenza e alla trasmissione del messaggio che lo caratterizza. 

  

Natura del profetismo

 

 Il profetismo non è un fenomeno esclusivo d’Israele, anche se presso questo popolo ha raggiunto l’espressione più alta. Anche il mondo antico ha conosciuto questo fenomeno che, nelle componenti fondamentali, si può ricondurre a una matrice d’ispirazione religiosa. 

La parola del profeta, infatti, suppone sempre un contatto con la divinità, la formulazione di un messaggio od oracolo, ricevuto attraverso l’ispirazione o la visione o la percezione del dio presso un luogo di culto o santuario. 

L’Egitto, la Mesopotamia, Canaan e in genere i paesi dell’antico Oriente possedevano un’«organizzazione profetica». Lo stesso si può affermare dei Greci e dei Romani. Di tale organizzazione sono noti i nomi (profeti di Baal in Canaan, il barù o veggente a Babilonia, il muhhu, sacerdote indovino, e gli apilu, coloro che rispondono, a Mari) e anche i santuari (ad esempio Dodona e Delfi presso i Greci). 

Per lo stretto rapporto con la divinità, si può affermare che il profetismo è sempre alle origini di una religione o legato alle pratiche di questa. Alle volte, come nel caso delle città-stato mesopotamiche (il caso più interessante è quello della città di Mari), si può notare uno stretto parallelismo tra la forma della proclamazione profetica extrabiblica e quella della proclamazione biblica. E questo non solo a livello letterario, ma soprattutto nella coscienza che il profeta ha di dipendere e parlare in nome della divinità. 

Tuttavia il profetismo extrabiblico molto si basava sulle capacità delle persone o dei gruppi a ciò deputati e sull’appoggio dell’ideologia politica e religiosa che tra tutte si imponeva. Il suo ruolo era, perciò, quello di legittimatore e difensore della corte e del culto. Appariva, così, l’intrinseca sua debolezza, dovuta all’instabilità politica e religiosa tanto frequente nella storia dei paesi del Medio Oriente e di quelli antichi in genere. 

La missione del profeta in Israele ha invece caratteristiche inconfondibili che riflettono tutta la storia del popolo a cui viene indirizzata la parola profetica. Non esiste profeta in Israele che non si richiami agli elementi fondamentali della storia del popolo «che Dio pasce». La promessa, l’alleanza, l’elezione, la liberazione, il dono della terra, il dono della discendenza, la speranza nel messia, sono realtà che Israele ha sperimentato e vive, ma sono anche condizionate a un suo atteggiamento storico: la fedeltà. Quando il popolo non avverte più questo legame con il suo Dio viene minata la sua stessa esistenza: tutto ciò che costituiva il rapporto con Dio diviene incomunicabilità con Dio e aderenza a tutto ciò che, nel linguaggio biblico, è l’anti-Dio. E’ allora che sorge il profeta biblico con la parola di richiamo e di condanna. In questo il profeta non è sorretto da alcuna ideologia, nessun beneficio o privilegio che lo leghi a correnti o a persone, ma è caratterizzato dalla totale libertà. Soprattutto egli ha coscienza di essere chiamato a parlare unicamente in nome del Dio unico. 

Più in particolare queste sono le caratteristiche del profetismo biblico: l’iniziativa e l’investitura profetica sono atti esclusivi di Dio; Israele riceve la rivelazione dal suo Dio attraverso la parola, la cui comunicazione è garantita dal profeta; la rivelazione e la sua comunicazione avvengono sempre nella storia. Nessun profeta si isola dal mondo dei contemporanei o si sradica dal legame generazionale del suo popolo, della sua città, dei suoi re; l’uomo non può sottrarsi alla chiamata profetica. 

  

Parola, visione, gesto

 

 I profeti non si esprimono solo attraverso la parola, ma anche attraverso la visione e il gesto simbolico. Queste diverse forme di comunicare il messaggio dipendono dal temperamento e dalla personalità del singolo profeta. 

Un testo biblico antico parla del profeta «che vede» (o «veggente», in ebraico ro’eh o h+ozeh in questo modo: «Una volta in Israele, quando uno andava a consultare Dio, diceva: « Su, andiamo dal veggente », perché il profeta di oggi era chiamato in antico il veggente» (1Sam 9,9). Quasi tutti i libri profetici contengono testi ispirati alla visione. Possiamo cominciare da Mosè («modello» di ogni profeta) di fronte alla visione del roveto, Es 3, che è all’inizio del suo carisma profetico, ed estendere la ricerca in Isaia c. 6, Geremia cc. 1 e 46, Ezechiele cc. 37 e 40-48, fino a cogliere nel libro di Daniele l’orientamento della visione al genere letterario dell’apocalittica. 

Oltre alla visione fa parte della proclamazione profetica anche il gesto simbolico. Questo gesto è in funzione dei recettori che in esso leggono il messaggio del profeta, non esplicitato subito dalla parola, ma racchiuso nella ricchezza espressiva del simbolo (per qualche esempio cfr. 1Re 11,29ss; Is 8,1-4; Ger 19,10-11; 27-28; Ez 12,1-16). 

Dallo studio dell’antico mondo orientale si ha notizia di un profetismo diversamente caratterizzato secondo l’ambiente socioculturale che lo esprime: da primitivi fenomeni di frenesia orgiastica si passa a forme estatiche e divinatorie più evolute e composte. In Israele, invece, il fenomeno del profetismo si svolge in modi sempre più contenuti e soprattutto esso va compreso come espressione esteriore di un fatto interiore unico: il contatto con il Dio che si rivela. 

  

I libri profetici nella Bibbia

  

La Bibbia, oltre ai libri storici e ai libri sapienziali, comprende anche i libri profetici. La proclamazione profetica, perciò, è un elemento essenziale sia per la comprensione della storia della salvezza sia per la conoscenza di una terminologia che aiuti il credente nella formulazione della realtà di Dio e della fede biblica e dei grandi temi biblici dell’alleanza, della promessa, dell’appartenenza al popolo di Dio, del messianismo. 

La Bibbia ebraica distingue due gruppi di libri profetici: quello dei profeti anteriori, comprendente i libri di Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Re, e quello dei profeti posteriori, che corrisponde ai veri e propri libri profetici a esclusione (e giustamente) di Daniele. 

Tra i libri profetici, inoltre, si è soliti distinguere quelli dei profeti maggiori e quelli dei profeti minori o dodici profeti. 

Profeti maggiori sono: Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele. 

Profeti minori sono: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia. 

Oltre a questa distinzione, si può anche seguire la successione cronologica più verosimile dei fatti compresi nei libri profetici. Si abbraccia, così, un arco di tempo che dall’VIII secolo a.C. si estende fino al V-IV secolo a.C. Storicamente questo periodo è contrassegnato da avvenimenti che incideranno moltissimo sulla personalità e sulla predicazione dei singoli profeti. Un avvenimento, in particolare, evidenzierà più di ogni altro la caratteristica propria di ciascun profeta: l’esilio. Tra i profeti possiamo, così, attuare una distinzione storico-cronologica molto importante: da una parte i profeti precedenti l’esilio babilonese, dall’altra i profeti che hanno sperimentato l’esilio e il ritorno. 

Profeti precedenti l’esilio, VIII secolo – 586 a.C.: Amos, Osea, Naum, Abacuc, Isaia, Michea, Sofonia, Geremia. 

Profeti del periodo dell’esilio, 586-538 a.C.: Ezechiele, Secondo Isaia, Daniele. 

Profeti postesilici, 538-450 a.C. circa: Aggeo, Zaccaria, Terzo Isaia, Abdia, Malachia, Gioele, Giona. 

Addentrarsi in una cronologia più dettagliata sarebbe forse impossibile. Ci si limita a queste suddivisioni non per semplificare, ma perché esse già possono orientare a una migliore comprensione del messaggio profetico. 

Un’ultima osservazione riguarda la collocazione geografico-politica dei profeti, secondo la loro appartenenza al regno del nord (o Samaria), al regno del sud (o Giuda) o alla provincia persiana della Giudea dopo l’esilio. 

Profeti del regno del nord, 930-721 a.C.: Amos, Osea. Agirono come profeti, ma non sono annoverati tra gli scrittori, anche Elia ed Eliseo. 

Profeti del regno del sud, 930-586 a.C.: Isaia, Michea, Sofonia, Naum, Abacuc, Geremia, Ezechiele, Secondo Isaia, Abdia, Daniele. 

Profeti nella Giudea, provincia persiana, 538-450 a.C. circa: Aggeo, Zaccaria, Terzo Isaia, Malachia, Gioele, Giona. 

L’utilità di queste divisioni non va sottovalutata: esse sono come guide per muoversi con sicurezza e competenza nel complesso mondo culturale-storico-religioso dei profeti e soprattutto per evidenziare subito le tematiche portanti del loro messaggio. 

E’ importante per la comprensione del messaggio saper collocare un profeta prima, durante o dopo l’esilio, come è importante comprendere la terminologia e il vocabolario che caratterizzano questi tre periodi: 

1. I profeti preesilici: Amos, Osea, Isaia, Michea, Sofonia, Naum, Abacuc, Geremia. Sono i profeti che animano la vita del popolo ebraico nel periodo in cui, dopo la conquista della Palestina e l’istituzione della monarchia unitaria, la sua storia si articolò nella storia dei due regni divisi: il regno del sud e il regno del nord. 

La divisione avvenne dopo la morte di Salomone, nel 930 a.C. Il regno del nord crollò nel 721 a.C. sotto gli Assiri. Il regno del sud invece crollò nel 586 a.C. sotto i colpi dell’esercito babilonese di Nabucodònosor II. 

Caratteristica di questi profeti è il costante richiamo alle linee portanti della «vera» storia di Israele: la fedeltà al Dio liberatore dell’esodo, la totale dedizione al Dio donatore della terra, il ricordo dell’elezione in Abramo, la certezza che dalla discendenza di Davide le promesse si sarebbero attuate in Israele e per Israele. 

Queste linee portanti non erano, però, un’astrazione. Esse erano visualizzate e celebrate nella liturgia e nel culto del tempio, apparivano nella loro concretizzazione nella persona del re e nella coscienza liturgico-storica d’Israele che si sentiva figlio e primogenito del suo Dio. 

Ma quando la monarchia, il culto, la vita stessa del popolo non erano più segno di questa profonda storia d’Israele e soprattutto quando il significato di queste linee portanti veniva svuotato dei suoi autentici contenuti e strumentalizzato a favore dell’interesse immediato e del permissivismo, allora sorgeva il profeta. 

Le alleanze con i popoli vicini, la strumentalizzazione della pratica religiosa, l’accondiscendenza all’idolatria, la sperequazione tra le classi sociali vengono poste sotto accusa dalla parola del profeta. 

I profeti preesilici cercarono di riportare il popolo d’Israele all’autenticità della fede biblica e alla fedeltà al Dio biblico inchiodando il suo orientamento religioso, politico, sociale, giuridico a responsabilità ben precise nei confronti della sua storia e di quella dell’umanità futura, con una parola introduttiva e conclusiva che non permette appello: «Oracolo del Signore… Parola del Signore Dio». 

In prospettiva a questa parola viene gradualmente configurandosi l’intervento punitivo del Dio biblico: l’esilio. A Israele che non «ascolta» (cfr. Dt 5-11), «non produce frutto», ma si perde e si confonde nell’idolatria, questi profeti preannunciano l’esilio. 

2. I profeti del periodo dell’esilio: Ezechiele, Secondo Isaia, (Daniele). 

La catastrofe nazionale del 586 a.C. non viene letta solo come fatto storico-politico, ma riletta alla luce della fede nel Dio donatore della libertà, della terra e della promessa. Questi profeti si immedesimano nella realtà storica del loro popolo, prostrato dalla potenza egemone del momento. Il loro messaggio riproduce lo sgomento provato di fronte all’esilio, compreso come intervento punitivo del Dio dei padri. Ma poi si dilata e spazia riprendendo l’antico, ma sempre vero, vocabolario del Dio biblico. Questo Dio rifarà le meraviglie dell’esodo, ri-darà la terra come dono, ri-unirà il suo popolo sul suo monte e nella sua città, ri-darà vita, pace, storia, discendenza… 

Una lettura di Isaia e di Ezechiele che non si basasse e non assorbisse questa tematica di ri-attualizzazione e ri-creazione da parte di Dio, sarebbe un imperdonabile impoverimento e una radicale incomprensione del «fatto biblico». 

3. I profeti postesilici:

Aggeo, Zaccaria, Terzo Isaia, Abdia, Malachia, Gioele, Giona. Il contesto storico in cui operano questi profeti è quello descritto nei libri di Esdra e Neemia quando, nel 538 a.C., il re Ciro con un editto rimise in libertà gli esuli ebrei permettendo il loro ritorno in patria. 

E’ un periodo soprattutto di ricostruzione: edilizia, politica, religiosa, economica… Ma il profeta non intende la ricostruzione solo in queste dimensioni. Ricostruzione dopo l’esilio per il profeta è ritorno e immersione nell’autentica tradizione biblica d’Israele, è risentire l’eco delle promesse, dell’alleanza, della liberazione, del dono della terra, della liturgia del tempio. Ricostruzione significa per ogni uomo diventare fratello dell’altro, per ogni nazione diventare complementare all’altra e per Israele diventare per i popoli ciò che Dio è per lui. 

La storia, dicono questi profeti, è offerta a Israele per questa ricostruzione e il ritorno dall’esilio è un’occasione per dimostrare tale finalità. La loro opera consiste nel richiamare Israele a questo impegno fondamentale, nel credere che il «secondo esodo», cioè il ritorno dall’esilio di Babilonia, non è fine a se stesso, ma orienta all’attesa del «giorno del Signore» e all’esodo definitivo, quello del messia. 

In attesa di questo esodo definitivo e della «parola» definitiva, la profezia gradualmente si estingue in Israele per risorgere nella persona e nell’opera di Gesù, «profeta potente in opere e in parole» (Lc 24,19). 

  

Per la fruttuosa lettura dei profeti

 

 Un’ultima annotazione ci pare importante. 

I profeti ordinariamente non scrissero i loro oracoli o scrissero assai poco: essi erano i porta-parola del Dio che li aveva scelti e inviati, e la loro preoccupazione si concentrava nel trasmettere fedelmente il messaggio ricevuto. La composizione scritta della loro predicazione è opera dei loro discepoli, a volte anche diluita nel tempo. Essa comprende la loro predicazione, che fu varia nelle diverse circostanze di tempo, di argomento e di uditori, e fu registrata a ricordo e testimonianza di chi la venerava e meditava. Ma fu registrata in modo, diciamo, estemporaneo, e cioè senza logica connessione tra un oracolo e l’altro, tra un episodio e l’altro, tra l’uno e l’altro intervento profetico, con la sola preoccupazione di conservare quanto l’uomo di Dio aveva comunicato. Ciò comporta più una giustapposizione che una successione di argomenti, uniti da un filo di ragionamento logico. D’altra parte la predicazione stessa del profeta non era stata unica, ma varia e staccata, a volte con distanze notevoli di tempo e riguardante circostanze e argomenti assai diversi tra di loro. E’ molto importante tener presente tutto ciò nella lettura dei profeti, lettura che non può essere discorsiva, alla ricerca di logicità nell’intera opera, ma, se si può dir così, pedagogica, staccando un episodio dall’altro e attribuendo a ciascuno di essi la sua peculiarità. La parola profetica, cioè, non è da leggersi come un racconto unico, ma come brani staccati con un valore proprio e molte volte diverso. 

Le brevi note di commento mirano a rendere più facile tale distinzione. 

  

Libri Profetici (minori)

 Sono così chiamati dodici libretti di diversa estensione attribuiti a vari profeti, che abbracciano un arco di tempo che si estende dall’VIII fino al IV secolo a.C., quasi alle soglie dell’epoca ellenistica. 

L’attributo «minore» non si riferisce tanto al contenuto della predicazione di questi profeti, quanto alla brevità che li caratterizza rispetto ai quattro (Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele) detti «maggiori». 

La loro successione è diversa nella Bibbia ebraica (che anche la Volgata segue) e nella Bibbia greca. L’ordine storico-cronologico nel quale più verosimilmente si sono succeduti i singoli profeti sembra essere questo: Amos, Osea, Michea, Sofonia, Naum, Abacuc, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Abdia, Gioele, Giona. 

Nel testo della presente edizione si adotta l’ordine di successione della Bibbia ebraica (e della Volgata): Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia. 

 

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MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI PER LA CELEBRAZIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 1° GENNAIO 2008

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/messages/peace/documents/hf_ben-xvi_mes_20071208_xli-world-day-peace_it.html 

 

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ
BENEDETTO XVI
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 

1° GENNAIO 2008 

FAMIGLIA UMANA, COMUNITÀ DI PACE

 

 1. All’inizio di un nuovo anno desidero far pervenire il mio fervido augurio di pace, insieme con un caloroso messaggio di speranza agli uomini e alle donne di tutto il mondo. Lo faccio proponendo alla riflessione comune il tema con cui ho aperto questo messaggio, e che mi sta particolarmente a cuore: Famiglia umana, comunità di pace. Di fatto, la prima forma di comunione tra persone è quella che l’amore suscita tra un uomo e una donna decisi ad unirsi stabilmente per costruire insieme una nuova famiglia. Ma anche i popoli della terra sono chiamati ad instaurare tra loro rapporti di solidarietà e di collaborazione, quali s’addicono a membri dell’unica famiglia umana: « Tutti i popoli ha sentenziato il Concilio Vaticano II formano una sola comunità, hanno un’unica origine, perché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra (cfr At 17,26), ed hanno anche un solo fine ultimo, Dio »(1). 

Famiglia, società e pace 

2. La famiglia naturale, quale intima comunione di vita e d’amore, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna(2), costituisce « il luogo primario dell’“umanizzazione” della persona e della società »(3), la « culla della vita e dell’amore »(4). A ragione, pertanto, la famiglia è qualificata come la prima società naturale, « un’istituzione divina che sta a fondamento della vita delle persone, come prototipo di ogni ordinamento sociale »(5). 

3. In effetti, in una sana vita familiare si fa esperienza di alcune componenti fondamentali della pace: la giustizia e l’amore tra fratelli e sorelle, la funzione dell’autorità espressa dai genitori, il servizio amorevole ai membri più deboli perché piccoli o malati o anziani, l’aiuto vicendevole nelle necessità della vita, la disponibilità ad accogliere l’altro e, se necessario, a perdonarlo. Per questo la famiglia è la prima e insostituibile educatrice alla pace. Non meraviglia quindi che la violenza, se perpetrata in famiglia, sia percepita come particolarmente intollerabile. Pertanto, quando si afferma che la famiglia è « la prima e vitale cellula della società »(6), si dice qualcosa di essenziale. La famiglia è fondamento della società anche per questo: perché permette di fare determinanti esperienze di pace. Ne consegue che la comunità umana non può fare a meno del servizio che la famiglia svolge. Dove mai l’essere umano in formazione potrebbe imparare a gustare il « sapore » genuino della pace meglio che nel « nido » originario che la natura gli prepara? Il lessico familiare è un lessico di pace; lì è necessario attingere sempre per non perdere l’uso del vocabolario della pace. Nell’inflazione dei linguaggi, la società non può perdere il riferimento a quella « grammatica » che ogni bimbo apprende dai gesti e dagli sguardi della mamma e del papà, prima ancora che dalle loro parole. 

4. La famiglia, poiché ha il dovere di educare i suoi membri, è titolare di specifici diritti. La stessa Dichiarazione universale dei diritti umani, che costituisce un’acquisizione di civiltà giuridica di valore veramente universale, afferma che « la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato »(7). Da parte sua, la Santa Sede ha voluto riconoscere una speciale dignità giuridica alla famiglia pubblicando la Carta dei diritti della famiglia. Nel Preambolo si legge: « I diritti della persona, anche se espressi come diritti dell’individuo, hanno una fondamentale dimensione sociale, che trova nella famiglia la sua nativa e vitale espressione »(8). I diritti enunciati nella Carta sono espressione ed esplicitazione della legge naturale, iscritta nel cuore dell’essere umano e a lui manifestata dalla ragione. La negazione o anche la restrizione dei diritti della famiglia, oscurando la verità sull’uomo, minaccia gli stessi fondamenti della pace. 

5. Pertanto, chi anche inconsapevolmente osteggia l’istituto familiare rende fragile la pace nell’intera comunità, nazionale e internazionale, perché indebolisce quella che, di fatto, è la principale « agenzia » di pace. È questo un punto meritevole di speciale riflessione: tutto ciò che contribuisce a indebolire la famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e una donna, ciò che direttamente o indirettamente ne frena la disponibilità all’accoglienza responsabile di una nuova vita, ciò che ne ostacola il diritto ad essere la prima responsabile dell’educazione dei figli, costituisce un oggettivo impedimento sulla via della pace. La famiglia ha bisogno della casa, del lavoro o del giusto riconoscimento dell’attività domestica dei genitori, della scuola per i figli, dell’assistenza sanitaria di base per tutti. Quando la società e la politica non si impegnano ad aiutare la famiglia in questi campi, si privano di un’essenziale risorsa a servizio della pace. In particolare, i mezzi della comunicazione sociale, per le potenzialità educative di cui dispongono, hanno una speciale responsabilità nel promuovere il rispetto per la famiglia, nell’illustrarne le attese e i diritti, nel metterne in evidenza la bellezza. 

L’umanità è una grande famiglia 

6. Anche la comunità sociale, per vivere in pace, è chiamata a ispirarsi ai valori su cui si regge la comunità familiare. Questo vale per le comunità locali come per quelle nazionali; vale anzi per la stessa comunità dei popoli, per la famiglia umana che vive in quella casa comune che è la terra. In questa prospettiva, però, non si può dimenticare che la famiglia nasce dal « sì » responsabile e definitivo di un uomo e di una donna e vive del « sì » consapevole dei figli che vengono via via a farne parte. La comunità familiare per prosperare ha bisogno del consenso generoso di tutti i suoi membri. È necessario che questa consapevolezza diventi convinzione condivisa anche di quanti sono chiamati a formare la comune famiglia umana. Occorre saper dire il proprio « sì » a questa vocazione che Dio ha inscritto nella stessa nostra natura. Non viviamo gli uni accanto agli altri per caso; stiamo tutti percorrendo uno stesso cammino come uomini e quindi come fratelli e sorelle. È perciò essenziale che ciascuno si impegni a vivere la propria vita in atteggiamento di responsabilità davanti a Dio, riconoscendo in Lui la sorgente originaria della propria, come dell’altrui, esistenza. È risalendo a questo supremo Principio che può essere percepito il valore incondizionato di ogni essere umano, e possono essere poste così le premesse per l’edificazione di un’umanità pacificata. Senza questo Fondamento trascendente, la società è solo un’aggregazione di vicini, non una comunità di fratelli e sorelle, chiamati a formare una grande famiglia. 

Famiglia, comunità umana e ambiente 

7. La famiglia ha bisogno di una casa, di un ambiente a sua misura in cui intessere le proprie relazioni. Per la famiglia umana questa casa è la terra, l’ambiente che Dio Creatore ci ha dato perché lo abitassimo con creatività e responsabilità. Dobbiamo avere cura dell’ambiente: esso è stato affidato all’uomo, perché lo custodisca e lo coltivi con libertà responsabile, avendo sempre come criterio orientatore il bene di tutti. L’essere umano, ovviamente, ha un primato di valore su tutto il creato. Rispettare l’ambiente non vuol dire considerare la natura materiale o animale più importante dell’uomo. Vuol dire piuttosto non considerarla egoisticamente a completa disposizione dei propri interessi, perché anche le future generazioni hanno il diritto di trarre beneficio dalla creazione, esprimendo in essa la stessa libertà responsabile che rivendichiamo per noi. Né vanno dimenticati i poveri, esclusi in molti casi dalla destinazione universale dei beni del creato. Oggi l’umanità teme per il futuro equilibrio ecologico. È bene che le valutazioni a questo riguardo si facciano con prudenza, nel dialogo tra esperti e saggi, senza accelerazioni ideologiche verso conclusioni affrettate e soprattutto concertando insieme un modello di sviluppo sostenibile, che garantisca il benessere di tutti nel rispetto degli equilibri ecologici. Se la tutela dell’ambiente comporta dei costi, questi devono essere distribuiti con giustizia, tenendo conto delle diversità di sviluppo dei vari Paesi e della solidarietà con le future generazioni. Prudenza non significa non assumersi le proprie responsabilità e rimandare le decisioni; significa piuttosto assumere l’impegno di decidere assieme e dopo aver ponderato responsabilmente la strada da percorrere, con l’obiettivo di rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino. 

8. Fondamentale, a questo riguardo, è « sentire » la terra come « nostra casa comune » e scegliere, per una sua gestione a servizio di tutti, la strada del dialogo piuttosto che delle decisioni unilaterali. Si possono aumentare, se necessario, i luoghi istituzionali a livello internazionale, per affrontare insieme il governo di questa nostra « casa »; ciò che più conta, tuttavia, è far maturare nelle coscienze la convinzione della necessità di collaborare responsabilmente. I problemi che si presentano all’orizzonte sono complessi e i tempi stringono. Per far fronte in modo efficace alla situazione, bisogna agire concordi. Un ambito nel quale sarebbe, in particolare, necessario intensificare il dialogo tra le Nazioni è quello della gestione delle risorse energetiche del pianeta. Una duplice urgenza, a questo riguardo, si pone ai Paesi tecnologicamente avanzati: occorre rivedere, da una parte, gli elevati standard di consumo dovuti all’attuale modello di sviluppo, e provvedere, dall’altra, ad adeguati investimenti per la differenziazione delle fonti di energia e per il miglioramento del suo utilizzo. I Paesi emergenti hanno fame di energia, ma talvolta questa fame viene saziata ai danni dei Paesi poveri i quali, per l’insufficienza delle loro infrastrutture, anche tecnologiche, sono costretti a svendere le risorse energetiche in loro possesso. A volte, la loro stessa libertà politica viene messa in discussione con forme di protettorato o comunque di condizionamento, che appaiono chiaramente umilianti. 

Famiglia, comunità umana ed economia 

9. Condizione essenziale per la pace nelle singole famiglie è che esse poggino sul solido fondamento di valori spirituali ed etici condivisi. Occorre però aggiungere che la famiglia fa un’autentica esperienza di pace quando a nessuno manca il necessario, e il patrimonio familiare frutto del lavoro di alcuni, del risparmio di altri e della attiva collaborazione di tutti è bene gestito nella solidarietà, senza eccessi e senza sprechi. Per la pace familiare è dunque necessaria, da una parte, l’apertura ad un patrimonio trascendente di valori, ma al tempo stesso non è priva di importanza, dall’altra, la saggia gestione sia dei beni materiali che delle relazioni tra le persone. Il venir meno di questa componente ha come conseguenza l’incrinarsi della fiducia reciproca a motivo delle incerte prospettive che minacciano il futuro del nucleo familiare. 

10. Un discorso simile va fatto per quell’altra grande famiglia che è l’umanità nel suo insieme. Anche la famiglia umana, oggi ulteriormente unificata dal fenomeno della globalizzazione, ha bisogno, oltre che di un fondamento di valori condivisi, di un’economia che risponda veramente alle esigenze di un bene comune a dimensioni planetarie. Il riferimento alla famiglia naturale si rivela, anche da questo punto di vista, singolarmente suggestivo. Occorre promuovere corrette e sincere relazioni tra i singoli esseri umani e tra i popoli, che permettano a tutti di collaborare su un piano di parità e di giustizia. Al tempo stesso, ci si deve adoperare per una saggia utilizzazione delle risorse e per un’equa distribuzione della ricchezza. In particolare, gli aiuti dati ai Paesi poveri devono rispondere a criteri di sana logica economica, evitando sprechi che risultino in definitiva funzionali soprattutto al mantenimento di costosi apparati burocratici. Occorre anche tenere in debito conto l’esigenza morale di far sì che l’organizzazione economica non risponda solo alle crude leggi del guadagno immediato, che possono risultare disumane. 

Famiglia, comunità umana e legge morale 

11. Una famiglia vive in pace se tutti i suoi componenti si assoggettano ad una norma comune: è questa ad impedire l’individualismo egoistico e a legare insieme i singoli, favorendone la coesistenza armoniosa e l’operosità finalizzata. Il criterio, in sé ovvio, vale anche per le comunità più ampie: da quelle locali, a quelle nazionali, fino alla stessa comunità internazionale. Per avere la pace c’è bisogno di una legge comune, che aiuti la libertà ad essere veramente se stessa, anziché cieco arbitrio, e che protegga il debole dal sopruso del più forte. Nella famiglia dei popoli si verificano molti comportamenti arbitrari, sia all’interno dei singoli Stati sia nelle relazioni degli Stati tra loro. Non mancano poi tante situazioni in cui il debole deve piegare la testa davanti non alle esigenze della giustizia, ma alla nuda forza di chi ha più mezzi di lui. Occorre ribadirlo: la forza va sempre disciplinata dalla legge e ciò deve avvenire anche nei rapporti tra Stati sovrani. 

12. Sulla natura e la funzione della legge la Chiesa si è pronunciata molte volte: la norma giuridica che regola i rapporti delle persone tra loro, disciplinando i comportamenti esterni e prevedendo anche sanzioni per i trasgressori, ha come criterio la norma morale basata sulla natura delle cose. La ragione umana, peraltro, è capace di discernerla, almeno nelle sue esigenze fondamentali, risalendo così alla Ragione creatrice di Dio che sta all’origine di tutte le cose. Questa norma morale deve regolare le scelte delle coscienze e guidare tutti i comportamenti degli esseri umani. Esistono norme giuridiche per i rapporti tra le Nazioni che formano la famiglia umana? E se esistono, sono esse operanti? La risposta è: sì, le norme esistono, ma per far sì che siano davvero operanti bisogna risalire alla norma morale naturale come base della norma giuridica, altrimenti questa resta in balia di fragili e provvisori consensi. 

13. La conoscenza della norma morale naturale non è preclusa all’uomo che rientra in se stesso e, ponendosi di fronte al proprio destino, si interroga circa la logica interna delle più profonde inclinazioni presenti nel suo essere. Pur con perplessità e incertezze, egli può giungere a scoprire, almeno nelle sue linee essenziali, questa legge morale comune che, al di là delle differenze culturali, permette agli esseri umani di capirsi tra loro circa gli aspetti più importanti del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. È indispensabile risalire a questa legge fondamentale impegnando in questa ricerca le nostre migliori energie intellettuali, senza lasciarci scoraggiare da equivoci e fraintendimenti. Di fatto, valori radicati nella legge naturale sono presenti, anche se in forma frammentata e non sempre coerente, negli accordi internazionali, nelle forme di autorità universalmente riconosciute, nei principi del diritto umanitario recepito nelle legislazioni dei singoli Stati o negli statuti degli Organismi internazionali. L’umanità non è « senza legge ». È tuttavia urgente proseguire nel dialogo su questi temi, favorendo il convergere anche delle legislazioni dei singoli Stati verso il riconoscimento dei diritti umani fondamentali. La crescita della cultura giuridica nel mondo dipende, tra l’altro, dall’impegno di sostanziare sempre le norme internazionali di contenuto profondamente umano, così da evitare il loro ridursi a procedure facilmente aggirabili per motivi egoistici o ideologici. 

Superamento dei conflitti e disarmo 

14. L’umanità vive oggi, purtroppo, grandi divisioni e forti conflitti che gettano ombre cupe sul suo futuro. Vaste aree del pianeta sono coinvolte in tensioni crescenti, mentre il pericolo che si moltiplichino i Paesi detentori dell’arma nucleare suscita motivate apprensioni in ogni persona responsabile. Sono ancora in atto molte guerre civili nel Continente africano, sebbene in esso non pochi Paesi abbiano fatto progressi nella libertà e nella democrazia. Il Medio Oriente è tuttora teatro di conflitti e di attentati, che influenzano anche Nazioni e regioni limitrofe, rischiando di coinvolgerle nella spirale della violenza. Su un piano più generale, si deve registrare con rammarico l’aumento del numero di Stati coinvolti nella corsa agli armamenti: persino Nazioni in via di sviluppo destinano una quota importante del loro magro prodotto interno all’acquisto di armi. In questo funesto commercio le responsabilità sono molte: vi sono i Paesi del mondo industrialmente sviluppato che traggono lauti guadagni dalla vendita di armi e vi sono le oligarchie dominanti in tanti Paesi poveri che vogliono rafforzare la loro situazione mediante l’acquisto di armi sempre più sofisticate. È veramente necessaria in tempi tanto difficili la mobilitazione di tutte le persone di buona volontà per trovare concreti accordi in vista di un’efficace smilitarizzazione, soprattutto nel campo delle armi nucleari. In questa fase in cui il processo di non proliferazione nucleare sta segnando il passo, sento il dovere di esortare le Autorità a riprendere con più ferma determinazione le trattative in vista dello smantellamento progressivo e concordato delle armi nucleari esistenti. Nel rinnovare questo appello, so di farmi eco dell’auspicio condiviso da quanti hanno a cuore il futuro dell’umanità

15. Sessant’anni or sono l’Organizzazione delle Nazioni Unite rendeva pubblica in modo solenne la Dichiarazione universale dei diritti umani (19482008). Con quel documento la famiglia umana reagiva agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, riconoscendo la propria unità basata sulla pari dignità di tutti gli uomini e ponendo al centro della convivenza umana il rispetto dei diritti fondamentali dei singoli e dei popoli: fu quello un passo decisivo nel difficile e impegnativo cammino verso la concordia e la pace. Uno speciale pensiero merita anche la ricorrenza del 25o anniversario dell’adozione da parte della Santa Sede della Carta dei diritti della famiglia (19832008), come pure il 40o anniversario della celebrazione della prima Giornata Mondiale della Pace (19682008). Frutto di una provvidenziale intuizione di Papa Paolo VI, ripresa con grande convinzione dal mio amato e venerato predecessore, Papa Giovanni Paolo II, la celebrazione di questa Giornata ha offerto nel corso degli anni la possibilità di sviluppare, attraverso i Messaggi pubblicati per la circostanza, un’illuminante dottrina da parte della Chiesa a favore di questo fondamentale bene umano. È proprio alla luce di queste significative ricorrenze che invito ogni uomo e ogni donna a prendere più lucida consapevolezza della comune appartenenza all’unica famiglia umana e ad impegnarsi perché la convivenza sulla terra rispecchi sempre di più questa convinzione da cui dipende l’instaurazione di una pace vera e duratura. Invito poi i credenti ad implorare da Dio senza stancarsi il grande dono della pace. I cristiani, per parte loro, sanno di potersi affidare all’intercessione di Colei che, essendo Madre del Figlio di Dio fattosi carne per la salvezza dell’intera umanità, è Madre comune. 

A tutti l’augurio di un lieto Anno nuovo! 

Dal Vaticano, 8 Dicembre 2007 

BENEDICTUS PP. XVI 

 

(1) Dich. Nostra aetate, 1. 

(2) Cfr. Conc. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 48. 

(3) Giovanni Paolo II, Esort. ap. Christifideles laici, 40: AAS 81 (1989) 469. 

(4) Ibidem

(5) Pont. Cons. della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 211. 

(6) Conc. Vat. II, Decr. Apostolicam actuositatem, 11.

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 11 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

Congresso a Roma su “Comunicare la Chiesa nella cultura della controversia

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12845?l=italian 

 

Congresso a Roma su “Comunicare la Chiesa nella cultura della controversia” 

VI Seminario sugli uffici di comunicazione della Chiesa 

 

Di Miriam Díez i Bosch

 

 ROMA, lunedì, 10 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Comunicare la bellezza del cristianesimo in un contesto culturale polemico e controverso. Con questa idea nasce il VI Seminario professionale sugli uffici di comunicazione della Chiesa, organizzato dalla Pontificia Università della Santa Croce. 

L’incontro avrà luogo dal 28 al 30 aprile 2008 ed è destinato soprattutto a responsabili di uffici di comunicazione della Chiesa e professionisti dell’informazione. 

E’ prevista la partecipazione di rappresentanti di diocesi, Conferenze Episcopali e altre realtà ecclesiali di circa 70 Paesi. 

Tra le esperienze che si analizzeranno durante il Seminario, figurano la campagna “What have you done for your marriage today?” (“Cos’hai fatto oggi per il tuo matrimonio?”) – promossa dalla Conferenza Episcopale degli Stati Uniti a favore della stabilità familiare – , i negoziati di pace e il programma di lotta all’Aids promossi dalla Comunità di Sant’Egidio o lo sviluppo di www.sqpn.com, la rete cattolica di podcast più premiata ai “People’s Choice Podcast Awards”. 

Un Arcivescovo australiano, un Arcivescovo argentino e un Vescovo italiano rifletteranno su “Cosa si aspetta un Vescovo dall’ufficio di comunicazione”. 

Il programma prevede sessioni pratiche sulla preparazione degli interventi dei portavoce della Chiesa e sul loro ruolo di fronte alle telecamere. 

Lo scrittore e giornalista nordamericano John L. Allen analizzerà come mostrare le “altre” notizie della Chiesa, quelle che non sono pubblicate perché non vengono scoperte. 

Jean-Etienne Rime, presidente dell’impresa di comunicazioni Giotto (Francia), condividerà la sue esperienze di consulente della comunicazione nel lavoro con imprese che attraversano momenti di difficoltà. 

Di altre sessioni si incaricheranno giornalisti internazionali come Andreas Englisch, corrispondente a Roma di Axel Springel (Germania), Delia Gallagher, analista vaticana della CNN International (Stati Uniti), o Eugenia Roccella, scrittrice e collaboratrice di vari quotidiani (Italia). 

Tra le altre attività, il programma include una visita alla Sala Stampa della Santa Sede e un colloquio con il suo direttore, il gesuita p.Federico Lombardi. 

Il professor Diego Contreras, presidente del Comitato organizzatore, ha spiegato che “di fronte ai dibattiti che mettono in discussione la famiglia, il rispetto della libertà religiosa, le questioni bioetiche o la protezione dei più deboli e bisognosi, il rischio per gli uffici di comunicazione della Chiesa è di vedersi costretti a svolgere una comunicazione di reazione, con tutti i connotati peggiorativi che questa comporta”. 

Per questo motivo, il Seminario desidera chiedersi come presentare la proposta cristiana in modo efficace. 

Il professor Marc Carroggio, membro del Comitato organizzatore, ha detto a ZENIT che “il Seminario si propone come un’occasione per riflettere sul modo di comunicare la bellezza del cristianesimo”. 

“Secondo me – ha spiegato il docente di Comunicazione istituzionale – questo si raggiunge raccontando la storia di persone la cui vita si vede arricchita dal dono della fede. E’ anche importante che gli uffici di comunicazione della Chiesa sviluppino tutta la loro capacità argomentativa; intervenire pubblicamente spiegando le ragioni della nostra fede è il modo più adeguato per mostrare che i cristiani hanno proposte attraenti da offrire agli altri”. 

Il programma del Seminario ha previsto uno spazio per la presentazione di Comunicazioni, sia nella formula tradizionale di papers accademici che nell’esposizione di esperienze e iniziative di particolare utilità per gli uffici di comunicazione. 

Il professor Contreras ha detto a ZENIT che “è evidente che un requisito imprescindibile per svolgere un efficace compito comunicativo è contare sulle persone adatte a realizzarlo. Persone adeguate vuol dire anche persone preparate. Mi sembra che uno dei problemi di fondo sia proprio questo. E’ inutile parlare della necessità di potenziare la comunicazione se non si è poi disposti a dedicare a questo – in futuro – persone, risorse e tempo. Naturalmente, le esigenze sono molte in tutti i settori, ma sarebbe un errore pensare che la comunicazione occupi l’ultimo posto”.

 

buona notte

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white-cactus-flower!

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 11 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

Il Figlio di Dio viene a cercarci

San Claudio La Colombiere (1641-1682), gesuita
Omelia predicata a Londra davanti alla duchessa di York

Il Figlio di Dio viene a cercarci

Immaginate la desolazione di un povero pastore che ha smarrito la sua pecora. Non si sente altro nelle campagne vicine che la voce di quello sventurato che, lasciato il grosso del gregge, corre nei boschi e sui colli, passa attraverso gli arbusti e i cespugli, gemendo e gridando con tutte le sue forze senza potere risolversi a tornare finché non abbia ritrovato la sua pecora e non l’abbia riportata nell’ovile.

Ecco ciò che ha fatto il Figlio di Dio quando gli uomini si sono sottratti con la loro disobbedienza alla guida del loro Creatore: è sceso sulla terra e non ha risparmiato né cura né pena per ristabilirci nello stato dal quale eravamo decaduti: la stessa cosa continua a farla ogni giorno per coloro che si allontanano da lui con il peccato; egli li segue, per così dire, li bracca, non cessando di chiamarli finché non li abbia rimessi sulla via della salvezza. E, certo, se non facesse così, sapete che sarebbe finita per noi dopo il primo peccato mortale; ci sarebbe impossibile tornare indietro. Bisogna che faccia lui tutte le proposte, che ci presenti la sua grazia, che ci insegua, che ci inviti ad aver pietà di noi stessi, senza di che non penseremmo mai a chiedergli misericordia…

L’ardore con il quale Dio ci insegue è senza dubbio un effetto di una grandissima misericordia. Ma la mitezza con la quale questo zelo è accompagnato dimostra una bontà ancora più mirabile. Nonostante il suo desiderio estremo di farci tornare, non usa mai violenza, non usa altra via di quella della mitezza. Non vedo nessun peccatore, in tutta la storia del Vangelo, che sia stato invitato alla penitenza in un altro modo di quello delle carezze e dei benefici.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 11 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

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