Archive pour le 10 décembre, 2007

Dormition of Mary

Dormition of Mary dans immagini sacre GoesVirgin

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La tomba di Maria a Gerusalemme

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La tomba di Maria a Gerusalemme 

G.Claudio Bottini, ofm 

 

E’ proprio vero–come ripete la saggezza popolare–che ‘non tutti i mali vengono per nuocere’. Una violenta alluvione il 7 febbraio 1972 allagò completamente la chiesa che racchiude il sepolcro vuoto della Madonna presso il Getsemani, a pochi passi dal celebre Orto degli Ulivi. Fu un allagamento provvidenziale, perché costrinse i greci ortodossi e gli armeni ortodossi, attuali custodi del santuario, a smantellare le sovrastrutture, che nascondevano la tomba di Maria, e a intraprendere lavori di restauro.

Grazie all’ecumenismo fatto di gesti piccoli e silenziosi – a Gerusalemme è forse l’unico tipo di ecumenismo che non rischia di aggravare le divisioni già esistenti – l’abuna (= padre) greco Macarios e il sacrestano armeno Hagop invitarono padre Bellarmino Bagatti, il decano degli archeologi francescani in Terra Santa, a visitare e a studiare la tomba e il complesso sepolcrale e architettonico che la circondano. P. Bagatti, fedele al metodo, cui si è sempre ispirato, di accostare reperti archeologici e fonti letterarie, non si limitò ad esaminare il monumento, ma rilesse con attenzione la letteratura antica sulla morte e la sepoltura della Madonna.

Si sa che il Nuovo Testamento parla di Maria per l’ultima volta dopo l’Ascensione di Gesù presentandola circondata dagli apostoli e dalla primitiva comunità cristiana (Atti 1, 14). Nessun testo canonico ci dice come Maria trascorse gli ultimi anni e come lasciò la terra. Invece non pochi libri apocrifi, che vanno sotto il nome di ciclo sulla Dormizione della Madonna, molto diffusi nel mondo cristiano, tramandano tutta una serie di informazioni che, passate al vaglio della critica storica e teologica, si rivelano di primissima importanza. I diversi testi sugli ultimi giorni e sulla morte di Maria sembrano tutti riconducibili a un documento originario, ad un prototipo giudeocristiano redatto intorno al II secolo nell’ambito della Chiesa Madre di Gerusalemme, per la commemorazione liturgica annuale presso la tomba della Vergine. Nella redazione della Dormizione attribuita a Giovanni il teologo si legge:

‘…gli apostoli trasportarono la lettiga e deposero il suo corpo santo e prezioso in una tomba nuova del Getsemani’.

In un altro testo conservato in siriaco si trovano indicazioni topografiche ancora più precise:

‘Stamattina prendete la Signora Maria e andate fuori di Gerusalemme nella via che conduce al capo valle oltre il Monte degli Ulivi, ecco, vi sono tre grotte: una larga esterna, poi un’altra dentro e una piccola camera interna con un banco alzato di argilla nella parte di est. Andate e mettete la Benedetta su quel banco e mettetela lì e servitela finché io non ve lo dica’.

Con la verifica dei fatti Padre Bagatti ha dimostrato che l’accordo tra documento e monumento non poteva risultare maggiore.

Effettivamente la tomba di Maria al Getsemani è situata in una zona cimiteriale in uso nel I secolo. Essa corrisponde molto bene sia al tipo di tombe usate in Palestina in quel tempo, sia ai dati topografici indicati nelle differenti redazioni della Dormizione della Vergine, specialmente per ciò che riguarda la camera sepolcrale nuova e la sua posizione rispetto alle altre. Il fatto che si trovi accanto all’Orto degli Ulivi e alla Grotta dove Gesù era solito passare la notte (Giovanni 18, 2), fa pensare che l’anonimo discepolo proprietario della zona vi abbia accolto anche la sepoltura di Maria. La tomba, custodita e venerata dai giudeo-cristiani fin verso la fine del IV secolo, quando passò nelle mani dei gentilocristiani fu isolata dalle altre e racchiusa in una chiesa. La venerazione e il culto a Maria in questo luogo non sono venuti mai meno, nonostante tutte le trasformazioni, ed è intorno a questa tomba vuota che è nata e si è alimentata la fede del popolo cristiano nell’Assunzione di Maria al cielo. Per citare un esempio, così è espressa questa fede nel testo già ricordato di Giovanni il teologo: ‘Per tre giorni si udirono voci di Angeli invisibili che glorificavano Cristo, Dio nostro, nato da Lei. Dopo il terzo giorno le voci non si udirono più: tutti allora compresero che il puro e prezioso corpo di lei era stato trasportato in Paradiso’.

Oggi delle diverse chiese erette lungo i secoli sul luogo santo resta la cripta che attraverso un’ampia scala di quarantotto gradini conduce alla tomba per un dislivello di circa quindici metri rispetto alla strada. L’edicola che racchiude la cameretta funeraria con il banco roccioso ancora visibile è appena rischiarata dalla luce che filtra dall’esterno e dalle lampade ad olio. Nell’interno si respira l’atmosfera tipica delle chiese orientali caratterizzate dall’odore forte dell’incenso, dalle numerose immagini e dalle tante candele e lampade ad olio. Il pellegrino che vi entra con fede riesce a percepire anche l’eco delle preghiere incessanti che vi effondono cristiani di tutte le denominazioni, visitatori di ogni parte del mondo e persino i musulmani.

E commovente e istruttivo sostare accanto alla tomba di Maria rileggendo i deliziosi racconti popolari della Dormizione o contemplando l’icona che li traduce in immagini. La figura di Maria è quella stessa del Nuovo Testamento e della Tradizione divino-apostolica. Maria è insieme la Madre di Cristo Signore e la creatura che vive immersa nella realtà quotidiana, la Vergine-Sposa-Madre scelta da Dio e la donna partecipe del comune destino di lotta e di dolore che giunge alla piena glorificazione dopo le prove della vitaterrena e passando per il sonno della morte. Sul piano umano, moralee spirituale lei appare dopo e con Gesù modello e guida di autentica vita cristiana. Come l’Ascensione non èstata una partenza di Gesù, ma l’inizio di una presenza nuova nella sua Chiesa, così Maria nella sua Assunzione non si allontana dai nuovi figli che le sono donati dal Figlio primogenito. Il discepolo amato la chia-ma: ‘Sorella mia Maria, divenuta madre dei dodici rami’ e gli apostoli la salutano: ‘Maria, sorella nostra,madre di tutti i salvati’. Negli apocrifi della Dormizione Maria è proclamata anche ‘tempio di Dio e porta del cielo’, ‘signora e regina’ che esplica la sua mediazione e intercessione sia prima che dopo l’Assunzione. Tutto ciò immerso in un mondo carico di immagini e di simboli: dalla palma dell’immortalità che Gesù le consegna preannunciandole il passaggio alla vita eterna ai sette cieli che Maria attraversa per giungere presso il Figlio, dalle nubi sulle quali giungono gli apostoli dalle quattro parti del mondo, alla bambina luminosa simbolo dell’anima di Maria che Gesù prende fra le sue braccia, fino all’albero della vita, ai profumi, ai canti e alle luci del paradiso. Allora la preghiera che spontaneamente dal cuore affiora sulle labbra si confonde con quella dell’autore estasiato o del devoto traduttore dei manoscritti della Dormizione: ‘Celebrando misticamente la festa della sua gloriosa dormizione, troveremo misericordia e grazia in questo secolo e nel futuro, in virtù della bene-volenza e benignità del Signore nostro Gesù Cristo, al quale sia gloria e dominazione con il suo Padre, che è senza principio, e il santissimo e vi-vificante Spirito, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen’.

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di Sandro Magister : Lettura d’obbligo per i visitatori della Cappella Sistina: la « Spe salvi »

dal sito: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/181001

  

Lettura d’obbligo per i visitatori della Cappella Sistina: la « Spe salvi »

 Il Giudizio finale torna potentemente in primo piano. Un grande libro dà una nuova interpretazione dell’affresco di Michelangelo. E Benedetto XVI, con la sua seconda enciclica, getta nuova luce sui destini ultimi dell’uomo e del mondo

di Sandro Magister 

 

ROMA, 7 dicembre 2007 – Benedetto XVI ha scritto l’enciclica « Spe salvi », interamente di suo pugno, tra l’inverno e la primavera scorsi. Ma ha deciso di pubblicarla alla fine dell’anno liturgico, sulla soglia dell’Avvento, nel tempo in cui le letture della messa aprono lo sguardo sul Giudizio finale.

Al Giudizio finale è dedicata una parte importante dell’enciclica. L’autocritica che il papa chiede al cristianesimo moderno riguarda anche questo capitolo essenziale della fede cristiana, che egli vede « sbiadito », a vantaggio di una visione individualista del destino dell’uomo.

L’idea del Giudizio finale sopravvive nell’arte, più che nella fede. Ma anche gli artisti – fa notare il papa – nel raffigurare il Giudizio non sempre ne hanno espresso il senso pieno ed autentico. Hanno dato più risalto alla « minaccia » che allo « splendore della speranza ».

Il Cristo giudice dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina è l’immagine del Giudizio finale più famosa al mondo. Lì, in effetti, « il gesto di condanna di Cristo non solo scuote tutto il suo corpo muscoloso, ma costituisce l’elemento vivificatore dell’affresco. Fa tremare tutto il dipinto fin nei suoi angoli più riposti. Il suo braccio destro alzato nell’atto di condannare è lo stesso braccio che nell’atto successivo scaraventerà tutti i malvagi nella profondità dell’inferno ».

Così descrive il Cristo giudice della Sistina Heinrich W: Pfeiffer, 68 anni, tedesco, gesuita, professore di storia dell’arte cristiana alla Pontificia Università Gregoriana, in uno splendido libro pubblicato questo autunno in Vaticano, col titolo. « La Sistina svelata ».

Il volume, di grande formato e magnificamente illustrato, consente di vedere e capire – come mai era stato fatto in passato – il senso teologico dei dipinti della famosa cappella papale, che culminano nel Giudizio finale affrescato da Michelangelo sulla parete che sovrasta l’altare.

« Svelando » il Giudizio, Pfeiffer ne mette in luce il senso non solo di minaccia – che è il primo che colpisce l’osservatore – ma di cristiana speranza.

Nella parte destra dell’affresco, ad esempio, c’è un insieme di corpi che sembrano drammaticamente contesi dagli angeli e dai demoni. Ma non è così. Quegli uomini e donne sono peccatori salvati, colpiti dagli angeli solo per essere purificati mentre ascendono alla gloria del cielo, inutilmente trattenuti dai demoni. È la parte dell’affresco che raffigura il purgatorio.

Anche nell’enciclica « Spe salvi » Benedetto XVI restituisce verità al purgatorio: altro capitolo sbiadito nel cristianesimo odierno, sopravvissuto però nell’immortale « Divina Commedia » di Dante.

Dove la fede vacilla soccorrono l’arte e la poesia. È il miracolo di una civiltà con radici cristiane.

Qui sotto sono riportate le pagine scritte da Benedetto XVI, nella sua enciclica sulla speranza, sul Giudizio finale, l’inferno, il paradiso, il purgatorio.

Ma, a corredo, andrebbe letto e guardato anche il volume su « La Sistina svelata », primo di una nuova collana intitolata « Monumenta Vaticana Selecta », con volumi annuali dedicati ai capolavori della sede dei papi. Nel 2008 alle Logge di Raffaello.

Curano l’edizione dei volumi i Musei Vaticani, la Libreria Editrice Vaticana e l’Editoriale Jaca Book, specializzata in libri d’arte.

Oltre che in italiano, « La Sistina svelata » è uscito contemporaneamente in inglese (Abbeville Press, New York), in francese (Editions Hazan, Parigi), in spagnolo (Lunwerg, Barcellona), in tedesco (Belser Verlag, Stoccarda), in polacco (Bialy Kruk, Cracovia). Seguiranno altre edizioni in russo, lituano, greco.

In ogni caso, la lettura di questo volume ma più ancora della « Spe salvi » rifà nuovo lo sguardo con cui contemplare il Giudizio finale. Non solo quello di Michelangelo. Quello di tutti.

Ecco i passi ad hoc dell’enciclica, tratti dai paragrafi 41-47:

Il Giudizio finale, immagine decisiva della speranza

di Benedetto XVI

Nel grande Credo della Chiesa, la parte centrale che tratta del mistero di Cristo [...] si conclude con le parole: « di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti ». La prospettiva del Giudizio, già dai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio. [...] Nello sviluppo dell’iconografia, però, è poi stato dato sempre più risalto all’aspetto minaccioso e lugubre del Giudizio, che ovviamente affascinava gli artisti più dello splendore della speranza, che spesso veniva eccessivamente nascosto sotto la minaccia.

Nell’epoca moderna il pensiero del Giudizio finale sbiadisce: la fede cristiana viene individualizzata ed è orientata soprattutto verso la salvezza personale dell’anima; la riflessione sulla storia universale, invece, è in gran parte dominata dal pensiero del progresso. Il contenuto fondamentale dell’attesa del Giudizio, tuttavia, non è semplicemente scomparso. Ora però assume una forma totalmente diversa.

L’ateismo del XIX e del XX secolo è, secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. È in nome della morale che bisogna contestare questo Dio. Poiché non c’è un Dio che crea giustizia, sembra che l’uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la giustizia.

Se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio è comprensibile, la pretesa che l’umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio fa né è in grado di fare, è presuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso, ma è fondato nella falsità intrinseca di questa pretesa.

Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza. Nessuno e niente risponde per la sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce che il cinismo del potere – sotto qualunque accattivante rivestimento ideologico si presenti – non continui a spadroneggiare nel mondo.

Così i grandi pensatori della scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, hanno criticato in ugual modo l’ateismo come il teismo.

Horkheimer ha radicalmente escluso che possa essere trovato un qualsiasi surrogato immanente per Dio, rifiutando allo stesso tempo però anche l’immagine del Dio buono e giusto. In una radicalizzazione estrema del divieto veterotestamentario delle immagini, egli parla della « nostalgia del totalmente Altro » che rimane inaccessibile – un grido del desiderio rivolto alla storia universale.

Anche Adorno si è attenuto decisamente a questa rinuncia ad ogni immagine che, appunto, esclude anche l’ »immagine » del Dio che ama. Ma egli ha anche sempre di nuovo sottolineato questa dialettica « negativa » e ha affermato che giustizia, una vera giustizia, richiederebbe un mondo « in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato ».

Questo, però, significherebbe – espresso in simboli positivi e quindi per lui inadeguati – che giustizia non può esservi senza risurrezione dei morti. Una tale prospettiva, tuttavia, comporterebbe « la risurrezione della carne, una cosa che all’idealismo, al regno dello spirito assoluto, è totalmente estranea ». 

* * * 


Dalla rigorosa rinuncia ad ogni immagine, che fa parte del primo Comandamento di Dio (cfr Esodo 20,4), può e deve imparare sempre di nuovo anche il cristiano. La verità della teologia negativa è stata posta in risalto dal IV Concilio Lateranense il quale ha dichiarato esplicitamente che, per quanto grande possa essere la somiglianza costatata tra il Creatore e la creatura, sempre più grande è tra di loro la dissomiglianza.

Per il credente, tuttavia, la rinuncia ad ogni immagine non può spingersi fino al punto da doversi fermare, come vorrebbero Horkheimer e Adorno, nel « no » ad ambedue le tesi, al teismo e all’ateismo.

Dio stesso si è dato un’ « immagine »: nel Cristo che si è fatto uomo. In Lui, il Crocifisso, la negazione di immagini sbagliate di Dio è portata all’estremo. Ora Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell’uomo abbandonato da Dio, prendendola su di sé. Questo sofferente innocente è diventato speranza-certezza: Dio c’è, e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire. Sì, esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la « revoca » della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto.

Per questo la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza, quella speranza la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna.

Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell’immortalità dell’amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l’uomo sia fatto per l’eternità; ma solo in collegamento con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita.

La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Efesini 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa.

L’immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un’immagine terrificante, ma un’immagine di speranza; per noi forse addirittura l’immagine decisiva della speranza. [...] Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto.

Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s’è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore.

Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo « I fratelli Karamazov ». I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. [...]

Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr Luca 16,19-31), ha presentato a nostro ammonimento l’immagine di un’anima devastata dalla spavalderia e dall’opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell’altro, dell’incapacità di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Gesù in questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora. [...] 

* * * 


La Chiesa primitiva ha ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale, si è sviluppata man mano la dottrina del purgatorio. Non abbiamo bisogno di prendere qui in esame le vie storiche complicate di questo sviluppo; chiediamoci soltanto di che cosa realmente si tratti.

Con la morte, la scelta di vita fatta dall’uomo diventa definitiva, questa sua vita sta davanti al Giudice. La sua scelta, che nel corso dell’intera vita ha preso forma, può avere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all’amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno.

Dall’altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo: persone, delle quali la comunione con Dio orienta già fin d’ora l’intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono.

Secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l’uno né l’altro è il caso normale dell’esistenza umana. Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male. Molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell’anima.

Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti? O che cosa d’altro accadrà?

San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, ci dà un’idea del differente impatto del giudizio di Dio sull’uomo a seconda delle sue condizioni. [...] Paolo dice dell’esistenza cristiana innanzitutto che essa è costruita su un fondamento comune: Gesù Cristo. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la nostra vita, sappiamo che questo fondamento non ci può più essere sottratto neppure nella morte.

Poi Paolo continua: « Se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco » (3,12-15).

In questo testo, in ogni caso, diventa evidente che il salvamento degli uomini può avere forme diverse; che alcune cose edificate possono bruciare fino in fondo; che per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il « fuoco » per diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell’eterno banchetto nuziale. 

* * * 

Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria, e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio.

Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo.

Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la « durata » di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il « momento » trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno: è tempo del cuore, tempo del « passaggio » alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo.

Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia, domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine, per tutti noi, solo motivo di paura.

L’incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l’uno con l’altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Filippesi 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », parakletos (cfr 1 Giovanni 2,1).

Publié dans:Sandro Magister |on 10 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI: il Natale richiede conversione

 dal sito:

 http://www.zenit.org/article-12830?l=italian 

 

Benedetto XVI: il Natale richiede conversione 

Intervento in occasione dell’Angelus domenicale 

 

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 9 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico vaticano per recitare la preghiera mariana dell’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in piazza San Pietro in Vaticano. 

* * * 

Cari fratelli e sorelle! 

Ieri, solennità dell’Immacolata Concezione, la liturgia ci ha invitato a volgere lo sguardo verso Maria, madre di Gesù e madre nostra, Stella di speranza per ogni uomo. Oggi, seconda domenica di Avvento, ci presenta l’austera figura del Precursore, che l’evangelista Matteo introduce così: « In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» » (Mt 3,1-2). La sua missione è stata quella di preparare e spianare la via davanti al Messia, chiamando il popolo d’Israele a pentirsi dei propri peccati e a correggere ogni iniquità. Con parole esigenti Giovanni Battista annunciava il giudizio imminente: « Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco » (Mt 3,10). Metteva in guardia soprattutto dall’ipocrisia di chi si sentiva al sicuro per il solo fatto di appartenere al popolo eletto: davanti a Dio – diceva – nessuno ha titoli da vantare, ma deve portare « frutti degni di conversione » (Mt 3,8). 

Mentre prosegue il cammino dell’Avvento, mentre ci prepariamo a celebrare il Natale di Cristo, risuona nelle nostre comunità questo richiamo di Giovanni Battista alla conversione. E’ un invito pressante ad aprire il cuore e ad accogliere il Figlio di Dio che viene in mezzo a noi per rendere manifesto il giudizio divino. Il Padre – scrive l’evangelista Giovanni – non giudica nessuno, ma ha affidato al Figlio il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo (cfr Gv 5,22.27). Ed è oggi, nel presente, che si gioca il nostro destino futuro; è con il concreto comportamento che teniamo in questa vita che decidiamo della nostra sorte eterna. Al tramonto dei nostri giorni sulla terra, al momento della morte, saremo valutati in base alla nostra somiglianza o meno con il Bambino che sta per nascere nella povera grotta di Betlemme, poiché è Lui il criterio di misura che Dio ha dato all’umanità. Il Padre celeste, che nella nascita del suo Unigenito Figlio ci ha manifestato il suo amore misericordioso, ci chiama a seguirne le orme facendo, come Lui, delle nostre esistenze un dono di amore. E i frutti dell’amore sono quei « degni frutti di conversione » a cui fa riferimento san Giovanni Battista, mentre con parole sferzanti si rivolge ai farisei e ai sadducei accorsi, tra la folla, al suo battesimo. 

Mediante il Vangelo, Giovanni Battista continua a parlare attraverso i secoli, ad ogni generazione. Le sue chiare e dure parole risultano quanto mai salutari per noi, uomini e le donne del nostro tempo, in cui anche il modo di vivere e percepire il Natale risente purtroppo, assai spesso, di una mentalità materialistica. La « voce » del grande profeta ci chiede di preparare la via al Signore che viene, nei deserti di oggi, deserti esteriori ed interiori, assetati dell’acqua viva che è Cristo. Ci guidi la Vergine Maria ad una vera conversione del cuore, perché possiamo compiere le scelte necessarie per sintonizzare le nostre mentalità con il Vangelo.

 

 

[Dopo l'Angelus, il Papa ha salutato i presenti in varie lingue. In italiano ha detto:]

 

 Nel pomeriggio di giovedì 13 dicembre prossimo incontrerò gli universitari degli Atenei romani, al termine della Santa Messa che sarà presieduta dal Cardinale Camillo Ruini. Vi attendo numerosi, cari giovani, per prepararci al santo Natale invocando il dono dello Spirito di sapienza per tutta la comunità universitaria. 

Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da Burgio e da Trebisacce, i ragazzi dell’unità pastorale di Fagnano Olona (Diocesi di Milano), gli scout di Passignano sul Trasimeno, l’associazione « C’era una volta » di Villamiroglio e il gruppo della Polizia Municipale di Agropoli. A tutti auguro una buona domenica. 

 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, ZENITH |on 10 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno flow034

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 10 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

« Oggi abbiamo visto cose prodigiose »

Sant’Ireneo di Lione (circa130-circa 208), vescovo, teologo e martire
Contro le Eresie III,2,2 ; SC 34, 345

« Oggi abbiamo visto cose prodigiose »

Il Verbo di Dio pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre. Per questo, Dio ci ha dato come « segno » della nostra salvezza colui che, nato dalla Vergine, è l’Emmanuele (Is 7,14) : poiché lo stesso Signore era colui che salvava coloro che di per se stessi non avevano nessuna possibilità di salvezza… Isaia stesso aveva predetto questo : « Irrobustitevi, mani fiacche e ginocchia vacillanti, coraggio, smarriti di cuore, confortatevi, non temete ; ecco il nostro Dio opera la giustizia, darà la ricompensa. Egli stesso verrà e sarà la nostra salvezza » (Is 35, 3-4). Questo indica che non da noi, ma da Dio, che ci aiuta, abbiamo la salvezza.

In un’altro testo, Isaia ha predetto che colui che ci salva non è semplicemente uomo, né un essere incorporale : « Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati ; con amore e compassione egli li ha riscattati » (Is 63,9). Eppure questo Salvatore sarà anche veramente uomo, visibile : « Guarda, città di Sion : I tuoi occhi vedranno Gerusalemme dimora tranquilla, poiché noi abbiamo il Signore » (Is 33, 20)… Un’altro profeta ha detto : « Egli tornerà ad aver pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati » (Mi 7, 19)… Dal paese di Giuda, da Betlemme deve venire il Figlio di Dio, che è Dio, per diffondere la lode su tutta la terra… Quindi veramente Dio si è fatto uomo, e il Signore in persona ci ha salvati, donandoci il segno della Vergine.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 10 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

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