Archive pour le 8 décembre, 2007

Papa Benedetto a Piazza di Spagna

Papa Benedetto a Piazza di Spagna dans immagini del Papa

Pope Benedict XVI prays before a statue of Mary on the occasion of the Immaculate Conception of Mary, in Rome’s Spanish Steps square, Saturday, Dec. 8, 2007. Benedict XVI said Saturday that boys and girls at ever younger ages are in danger of being deceived by adults hawking false models of happiness and leading them down ‘the dead-end streets of consumerism.’ Dec. 8, which the Catholic Church celebrates as the Immaculate Conception of Mary, is a national holiday in predominantly Roman Catholic Italy.
(AP Photo/Pier Paolo Cito)
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Pope Benedict XVI Pope Benedict XVI prays during the traditional Immaculate Conception celebration prayer in Spain’s central square in Rome December 8, 2007.
REUTERS/Dario Pignatelli (ITALY)

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di Gainfranco Ravasi: Il respiro dell’uomo di carne

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12820?l=italian 

 

Il respiro dell’uomo di carne

 

 CITTA’ DEL VATICANO, sabato, 8 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la prolusione dell’Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, in occasione del Congresso Internazionale sul tema « Ontogenesi e vita umana », che si è tenuto a Roma dal 15 al 17 novembre, presso il Pontificio Ateneo “Regina Apostolorum”. 

* * * 

 

Eccellenze Reverendissima 

Magnifico Rettore 

Illustri Professori e Relatori 

Cari Studenti, amici e amiche 

E’ con vivo piacere e profonda emozione che Vi rivolgo la parola nell’apertura di questo II Convegno Internazionale del Progetto STOQ, dedicato all’ontogenesi e alla vita umana. Per una provvidenziale coincidenza, l’apertura del nostro incontro odierno avviene nella ricorrenza di Sant’Alberto Magno, illustre teologo, cultore delle scienze naturali e uomo poliedrico, maestro di San Tommaso d’Aquino, patrono degli scienziati. Sono sicuro che dall’alto estenderà la sua protezione a questo convegno, — al quale, ne sono sicuro, avrebbe voluto idealmente partecipare —, dove scienziati, teologi, filosofi e giuristi si incontreranno per riflettere su un argomento cruciale: l’origine dell’uomo. 

Desidero anche in questa circostanza rivolgere un pensiero deferente e affettuoso al Cardinale Paul Poupard, Presidente emerito del Pontificio della Cultura, esprimendo a nome di tutti la nostra riconoscenza per il suo lungo servizio ecclesiale e, soprattutto, per il suo lungimirante impulso che ha reso possibile la nascita del Progetto STOQ. Come spesso segnalava il Cardinale Poupard, questo Progetto è erede della Commissione di Studio del Caso Galileo, istituita dal servo di Dio Giovanni Paolo II e da lui presieduta nella sua fase conclusiva. Una delle lezioni del Caso Galileo, è stata appunto quella di favorire un maggior dialogo tra discipline rimaste troppo a lungo ignare del lavoro e dei risultati altrui, come sono le scienze naturali e la teologia. Quell’evento, e altri tristi episodi simili di confronto ci insegnano quanto tragica possa risultare questa reciproca incomprensione. E’ necessario oggi più che mai cercare quella visione integrale e organica del sapere, auspicata da Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et Ratio, una sorta di nuovo Quadrivio per il Terzo Millennio. 

Il tema scelto per il nostro convegno, la genesi dell’uomo, appare spesso come un terreno di aspri confronti. Non pochi, addirittura, evocano lo spettro di Galileo a proposito della ricerca sugli embrioni, per denunciare quello che ritengono un altro episodio di intolleranza e di resistenza da parte della Chiesa alla ricerca scientifica. Nello spirito della Commissione Galileo, in questo clima di leale collaborazione, noi vorremmo invece affrontare l’oggetto del Convegno non da posizioni preconcette, non per alimentare inutili polemiche, non con l’intento di un’apologia semplicistica e riduttiva, ma semplicemente per rispondere, da diversi punti di vista, complementari ma non opposti, alla grande domanda del Convegno: “Che cosa è l’uomo?” 

Vorrei, perciò, adesso, nel mio intervento, presentare alcune riflessioni sull’uomo partendo dalla Bibbia che pone in modo esemplare questa domanda nel Salmo 8: “Che cosa è l’uomo perché te ne curi?”. Nel prendere spunto dalla Bibbia, non intendo adesso offrire il contributo dell’esegeta di formazione quale sono, ma piuttosto, in qualità di Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, vorrei richiamarmi alla Bibbia come al grande codice della nostra cultura, patrimonio comune di laici e credenti, senza il quale è impossibile capire noi stessi. Non entrerò, dunque, nel merito del dibattito specifico attuale sulla bioetica e sui suoi vari e complessi capitoli, ma offrirò, piuttosto, alcune chiavi di letture a partire della Bibbia, che limiterò intenzionalmente ai primi capitoli della Genesi e ai Salmi. 

Due asserti basilari 

“Nella sua mano Dio stringe l’anima di ogni vivente e il respiro dell’uomo di carne”. Vorrei assumere questo suggestivo versetto del libro biblico di Giobbe (12, 10) a emblema per la nostra riflessione di indole generale e di impronta teologica sulla vita umana. 

E’ necessario formulare subito un primo asserto antropologico di ordine generale: per la Bibbia nell’uomo si configura un’intima connessione e compenetrazione tra fisicità e interiorità. Si tratta di una visione “simbolica” in senso stretto che non oppone dualisticamente una carnalità materiale, caduca e insignificante, a una spiritualità trascendente e superiore, ma che considera l’essere intero come oggetto della creazione e della gloria, come un vero e proprio “prodigio” (Salmo 139, 14). Questa concezione è di taglio squisitamente filosofico-teologico, pur ancorandosi a modelli scientifici delle civiltà dell’antico Vicino Oriente. Da essa possono promanare due corollari. 

Innanzitutto si può certamente segnalare il rischio di una “confusione” degli approcci alla realtà umana, fondendo nello stesso alveo l’analisi “scientifica” e quella fìlosofìco-teologica, con evidente prevalenza della seconda, in una cultura a matrice teocratica. La moderna distinzione degli statuti delle singole discipline non apparteneva a quell’orizzonte unificato. In secondo luogo, però, si fa strada una conseguenza capitale, che è ribadita da tutte le grandi esperienze religiose e che è espressione di un alto umanesimo. L’essere umano non può essere considerato solo come un mero dato biologico o come una figura angelica. La sua grandezza si rivela in questo mirabile intreccio tra verificabilità contingente e legame con un Oltre, tra anatomia e sapienza, per usare un suggestivo binomio del filosofo Lévinas. 

C’è, però, un secondo asserto antropologico di impianto nettamente teologico (anch’esso condiviso, in forme differenti, dalle varie espressioni religiose): per la Bibbia nell’uomo si configura un intima correlazione tra creatura umana e Creatore, tra uomo e mistero, tra finitudine e trascendenza. Dati i limiti molto ristretti e il profilo sintetico della nostra riflessione, ci accontentiamo di offrire solo alcuni indizi esemplificativi. 

Parlando, poi, dell’uomo nella Bibbia, è inevitabile affrontare la questione dell’anima, che verrà discussa nel corso delle prossime sedute. Ora, è un’impresa ardua è quella di isolare la realtà dell’anima nell’antropologia biblica perché, da un lato, vige nelle pagine sacre quella che è ormai definita come l’“unità psicofisica” della persona che intreccia inestricabilmente e inscindibilmente corporeità e spiritualità, mentre d’altro lato, la dimensione “spirituale” di questa stessa unità è espressa attraverso un lessico molto articolato dalla iridescenze semantiche mutevoli. Si pensi, ad esempio, che il termine nefesh, di solito reso in greco con psychè, “anima”, contemporaneamente significa l’essere individuale e la gola, mentre mah, “spirito vitale”, è anche il “respiro” e il “vento”. Noi cercheremo allora di affidarci solo ad alcuni lemmi e temi per definire sinteticamente e in modo semplificato l’equivalente biblico della categoria teologica “anima”. In pratica per la Bibbia questa realtà corrisponde non tanto a un principio antropologico quanto piuttosto all’affermazione della trascendenza della persona umana. 

La neshamah, “fiaccola del Signore” 

Nel secondo racconto della creazione presente nella Genesi (cc. 2-3), probabilmente il più antico rispetto a quello del c. 1, racconto attribuito alla cosiddetta “Tradizione Jahvista” (forse X sec. a.C.), si leggono queste parole: “Il Signore Dio plasmò l’uomo [’adam] con polvere della terra [’adamah], soffiò nelle sue narici una nishmat-hajjîm e l’uomo [’adam] divenne una nefesh hajjah” (Gn 2,7). Non abbiamo tradotto le locuzioni che più strettamente toccano il tema dell’anima e che sono di difficile resa. Come è evidente, il versetto in poche ma pertinenti e accurate parole delinea la creazione dell’uomo. Iniziamo la nostra analisi dal primo elemento simbolico, la polvere della terra. 

Si noti anzitutto il giuoco di parole che intercorre tra ’adam, uomo, e ’adamah, terra: i due termini alla base hanno la stessa radice ebraica ’dm che evoca il colore ocra dell’argilla del suolo. L’immagine è ulteriormente esaltata dal simbolismo del vasaio suggerito dal verbo indicante l’azione creatrice divina, il “plasmare”. L’idea nel suo insieme è limpida: l’uomo ha un legame costituzionale con la materia, con il creato che lo circonda. E’ questo il segno della sua fragilità, della sua finitudine, del suo limite, della sua mortalità. L’immagine “plastica” per descrivere la creazione dell’uomo e definirne la “materialità” o “carnalità” debole e inconsistente, la sua limitatezza nel tempo e nello spazio, è frequente nell’Antico Testamento e ha variazioni suggestive, come quella di tipo nomadico-pastorale del cacio plasmato o quella tessile, sulle quali tornerò più tardi parlando dell’embrione. 

Tuttavia, oltre al legame con la materia e quindi oltre ad essere una creatura finita e limitata, l’uomo ha un’altra qualità, il principio vitale. Entra, infatti, in giuoco un nuovo simbolismo, quello dell’insufflazione nelle narici per introdurre il respiro, simbolismo comune ad altre culture dell’antico Vicino Oriente e non solo a esse: “Il Signore Dio soffiò nelle narici” dell’uomo appena “plasmato”. In pratica, sia pure senza usarlo, l’autore sacro introduce l’altro vocabolo antropologico caratteristico, rûah, lo spirito vivificatore. Si legge, infatti, nel Salmo 104, 30: “Mandi il tuo spirito, ed essi sono creati”. La base simbolica della parola rûah è appunto il “vento”, che ben esprime il soffio vitale dell’uomo, il suo respiro. In senso stretto quella insufflazione divina è destinata anche agli animali, che posseggono essi pure la rûah, il respiro della vita, come appare in una pagina apparentemente sconcertante e provocatrice del sapiente biblico Qohelet-Ecclesiaste, pagina in realtà più tradizionale di quanto sembri a prima vista: 

Io ho pensato in cuor mio riguardo agli uomini: Dio li prova, perché vedano da soli di essere come le bestie. Infatti il destino degli uomini e il destino delle bestie è un unico destino: come muoiono queste, così muoiono quelli, in tutti c’è un’unica rûah. L’uomo non è superiore alla bestia. Sì, tutto è vuoto! Tutti piombano nell’unico luogo: dalla polvere tutto è venuto, alla polvere tutto ritorna. Chi sa se la rûah dell‘uomo sale in alto e la rûah della bestia piomba in basso nella terra? (Qo 3, 18-21). 

L’idea è ribadita dallo stesso Qohelet in finale al suo scritto: “La polvere ritorna alla terra come lo era prima, e la rûah a Dio che l’ha data” (12,7). Una simile concezione appartiene al patrimonio comune dell’Antico Testamento (Sal 104, 29; 146, 4; Gb 33, 4; 34, 14-15; Sir 17, 1-2). Ma a questo punto nel versetto della Genesi in esame, il 2, 7, c’è un terzo elemento: il Creatore, oltre alla rûah della vita, insuffla un altro principio che è definito in ebraico come nishmat-hajjîm che di solito è tradotto con “alito di vita”: si avrebbe allora, solo un sinonimo di rûah, al massimo un modo per indicare che la vita umana ha una qualità specifica e superiore. In realtà, qui ci imbattiamo con qualcosa che più ci avvicina al nostro concetto di “anima”. La neshamah/nishmat, è, infatti, una realtà che nelle ventiquattro volte in cui è evocata nell’Antico Testamento è attribuita soltanto a Dio e all’uomo e mai agli animali e copre una serie di funzioni alte, che sono spesso in connessione con Dio. E’ attraverso di essa che l’uomo compie “atti spirituali” e riceve uno statuto particolare nell’ordine della creazione. La nishmat-hajîìm (hajjîm in ebraico è “vita”) lo porta all’esistenza ma soprattutto lo rende “intelligente” (Gb 32, 8). 

Che cosa sia realmente questo principio è spiegato in un passo del libro dei Proverbi ove si legge: “La neshamah dell’uomo è una fiaccola del Signore che scruta tutti i recessi oscuri del ventre” (20, 27). L’immagine usata è molto semitica e ha colori barocchi, ma è chiara nel suo valore: la neshamah/nishmat-hajjîm è come una lampada ulteriore che rischiara l’intimo più segreto dell’uomo, simboleggiato dalle “camere o recessi oscuri” del grembo. Fuori di metafora, si ha una rappresentazione dell’autocoscienza, della capacità di conoscersi e di giudicarsi, dell’introspezione e dell’intuizione e, in ultima analisi, della moralità. Non per nulla, in altri passi biblici (Gb 4, 9; 2 Sam 22, 16; Sal 18, 10; Is 30, 33), la neshamah/nishmat-hajjîm è collegata all’atto giudiziario divino nei confronti del male e dell’ingiustizia. Non per nulla, nel racconto successivo della Genesi, si avrà un’ampia riflessione proprio sul peccato “originale” e sulla scelta umana nei confronti della “conoscenza del bene e del male” (in particolare il capitolo 3). 

Siamo, dunque, in presenza di un elemento specificante per l’interiorità della persona umana: essa appartiene al mondo animale non solo nella sua caducità, ma anche per il dono della rûah, cioè della vita; però si distingue dal mondo animale per la coscienza, per la libertà e moralità, per quella nishmat-hajjîm che la collega in modo unico al Creatore. Come si ribadirà nel libro di Giobbe, “la rûah di Dio mi ha creato”, ma è “la nishmat nell’Onnipotente a darmi la vita” umana (33, 4). Non siamo di fronte, però, a una realtà “spirituale” sul modello greco, bensì a una qualità che rende l’uomo simile al Dio libero e morale. In questa linea il Concilio Vaticano II nel suo documento sulla “Chiesa nel mondo contemporaneo”, cioè la costituzione Gaudium et spes, dichiara in modo illuminante che “la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo”, è la sede in cui l’uomo “si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria”. Una voce che “lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male e, quando occorre, dice chiaramente alle orecchie del cuore: fa’ presto, fuggì quest’altro” (n. 16). 

L’uomo limitato, vivente, cosciente, conclude il passo di Genesi 2, 7, è una nefesh hajjah: è evidente che quest’ultima espressione non può essere intesa come “anima vivente”, bensì come “essere vivente” o semplicemente come persona. La parola nefesh non è quindi il termine specifico per indicare l’anima, come di solito si afferma. Tuttavia è adatta a indicare la realtà umana nella sua globalità e specificità. Raccogliamo, allora, tutti i lineamenti offerti dal nostro versetto per comporre il ritratto dell’uomo. Egli è “plasmato” dalla terra, è ’adam perché tratto dall’ ’adamah: questa origine lo rende limitato e caduco come la materia; per usare il linguaggio biblico, è basar, “carne” fragile e peritura. Riceve, però, il soffio della vita, la rûah, quello “spirito” che lo inserisce nell’orizzonte delle creature viventi. L’uomo ha un’ulteriore dimensione che gli è donata dal Creatore e che, per certi versi, a lui lo accomuna: è la nishmat-hajjîm, la coscienza vitale, la consapevolezza di sé, la capacità di distinguere il bene dal male e la libertà di scegliere moralmente. 

Secondo il selem di Dio lo creò” 

Passiamo ora al secondo testo emblematico da esaminare. Esso è collocato all’interno del primo racconto della creazione, la pagina che è “in principio” alla Genesi (capitolo 1) e quindi all’intera Bibbia, pagina considerata però dall’esegesi moderna più recente rispetto alla seconda a cui abbiamo già fatto riferimento (Gn 2-3): essa, infatti, è ricondotta alla cosiddetta “Tradizione Sacerdotale” che sarebbe sorta durante l’esilio a Babilonia, nel VI secolo a.C. Il versetto da noi scelto suona così: “Dio creò l’uomo a sua immagine (selem); a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò” (Gn 1, 27). Come in Genesi 5, 3 si afferma che “Adamo generò a sua immagine e somiglianza un figlio e lo chiamò Set”, così qui si indica che c’è un legame specifico e “naturale” che intercorre tra il Creatore e la sola creatura umana. Anche gli animali hanno la vita e sono nefesh hajjah, ossia esseri viventi (Gn 1, 21), ma non hanno in sé questa dimensione dell’“immagine” (selem). 

Ora, il termine ebraico selem denota una vicinanza oggettiva al soggetto rappresentato; rimanda, quindi, a una corrispondenza “naturale” con Dio, che rende l’uomo capace di comprenderlo e di interloquire con lui; è un vincolo intimo simile a quello che intercorre tra un padre e un figlio. E’ interessante inoltre notare che, mentre nell’antico Vicino Oriente essere “immagine” divina era appannaggio e prerogativa solo del sovrano, per la Bibbia destinatario di questa qualità è l’uomo e tale “democratizzazione” mostra che la regalità sul mondo è assegnata da Dio all’uomo in quanto tale, come si dice nel Salmo 8, 6-7: “Di gloria e di onore lo hai coronato, gli hai dato potere sulle opere delle tue mani”. Ma a questo punto sorge la domanda fondamentale: in che cosa consiste questo legame tra il Creatore e la creatura umana? Che cosa significa nella realtà questo essere “immagine” di Dio? La risposta più comune fin nell’antichità cristiana fu quella di intuire in questa “immagine e somiglianza” il riconoscimento biblico dell’anima. Sant’Agostino non esitava a scrivere in modo chiaro e sicuro nella sua opera La Genesi alla lettera: 

Che l’uomo sia fatto a immagine di Dio viene detto a causa della parte intima dell’ ‘uomo, ove ha sede la ragione e l’intelletto. L’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio soprattutto per quanto riguarda l’anima. 

L’esegesi moderna è, al riguardo, molto più cauta e parla più genericamente – come afferma un teologo – di “una similitudine generale di natura: intelligenza, volontà, potenza; l’uomo è persona. E così si prepara una rivelazione più alta: la partecipazione di natura per mezzo della grazia”. In realtà, bisogna ritornare al testo nella sua diretta capacità di esprimersi. Infatti, se noi osserviamo attentamente la stessa costruzione del versetto, ci accorgiamo che esso è impostato secondo i canoni della stilistica ebraica che privilegia il parallelismo tra i membri di una frase o di un versetto. Nel caso di Genesi 1, 27 ci troviamo di fronte a un cosiddetto “parallelismo chiastico progressivo”. 

 L’occhio attento non può ignorare che “immagine di Dio” ha come sorprendente parallelo esplicativo “maschio e femmina”. Dio, allora, è sessuato, e accanto a lui si asside una compagna divina, come l’Ishtar-Astarte babilonese? la risposta è ovviamente negativa, sapendo quanto e con quanta asprezza la Bibbia abbia polemizzato contro le ierogamie, cioè le nozze e le coppie sacre divine, e contro i culti della fertilità diffusi nell’area cananea e in tutto l’antico Vicino Oriente. L’“immagine” divina stampata nell’uomo è da cercare altrove. Allunghiamo, allora, lo sguardo su tutta la Genesi, inseguendo quelle pagine che sono attribuite alla stessa Tradizione a cui appartiene il nostro versetto, ossia alla scuola detta “Sacerdotale” perché da ricondurre a circoli sacerdotali presenti tra gli ebrei esuli a Babilonia. Il buon osservatore vede una vera e propria catena di genealogie, di generazioni, distesa come una trama su cui vengono fatti poi scorrere i vari eventi narrati (si leggano questi passi: Genesi 1, 28; 2, 4; 9, 1.7; 10; 17, 2.6.16; 25, 11; 28, 3; 35, 9.11; 47, 27; 48, 3-4). 

La relazione interpersonale, principio d’amore, e il frutto di vita che essa genera, sede delle epifanie storiche divine, diventano il nesso che collega Dio e umanità e che rendono trascendente la creatura umana. Per la Bibbia, allora, l’ominizzazione piena avviene solo dove ci sono uomo e donna in relazione tra loro, una relazione di parità, di armonia, di comunione. E’ illuminante il giuoco di parole che si legge in Genesi 2, 23. L’uomo, quando si trova di fronte alla sua donna, esclama: “Questa volta, sì, essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa. La si chiamerà ’isshah perché da ’ish è stata tratta”. E’ evidente l’assonanza tra i due termini, l’uno al maschile ’ish, uomo, e l’altro al femminile, ’isshah, donna, espressione nitida e netta della parità, pur nella diversità, anche perché comuni sono la “carne e le ossa”, simbolo del tessuto esistenziale e vitale. Possiamo, allora, affermare che la specificità della creatura umana è nell’amore. L’anima propria dell’essere umano, che lo raccorda a Dio, non è solo nella coscienza (nishmat-hajjîm), ma anche nella capacità di amare e generare, espressione della nostra “immagine” divina. Come scriveva il filosofo e scrittore russo Valdimir Solov’ev (1853-1900), “ogni uomo racchiude in sé l’immagine di Dio e questa immagine è da noi riconosciuta in modo teorico e astratto nella ragione e attraverso la ragione. Ma è nell’amore che la riconosciamo e la manifestiamo in modo concreto e vitale”. 

Sono state le tue mani a plasmarmi… “ 

La nostra analisi si restringe ora, dal fondale più vasto da cui siamo partiti, al nucleo germinale della generazione umana. Alla sua sorgente c’è l’atto generativo della coppia che il libro della Sapienza rappresenta mettendo in bocca a Salomone queste parole: 

Anch’io sono un uomo mortale come tutti, discendente dal primo essere plasmato dalla creta. Fui formato di carne nel seno della madre, durante dieci mesi (lunari) consolidato nel sangue, frutto del seme di un uomo e del piacere compagno del sonno” (Sap 7, 1-2). 

Nell’atto generativo la Scrittura riconosce, però, non solo un dinamismo biologico ma anche una presenza efficace creativa e quindi un sigillo trascendente. La creatura umana è destinataria di un intervento divino fin dalle origini perché essa è collocata all’interno di un disegno esistenziale personale. Il suo germinare è finalizzato non solo a essere creatura umana ma anche a essere partecipe attiva di un progetto futuro. Si scoprono, così, quasi due azioni divine – in realtà unitarie e intrecciate tra loro – che hanno lo scopo di rivelare l’opera del Creatore e l’opera del Salvatore, cioè di colui che accende la vita umana e di colui che la orienta verso uno sviluppo e un destino. 

Questi due momenti che fanno parte della stessa vicenda antropologica sono splendidamente illustrati da una strofa del Salmo 139, un solenne inno al Dio infinito, onnisciente, onnipotente. Iniziamo con la prima componente, quella della creazione e della fase prenatale, che è affidata allo sguardo e all’azione penetrante di Dio: “Sei tu che hai creato i miei reni, mi hai intessuto nel grembo di mia madre… Il mio scheletro non ti era nascosto quando fui confezionato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra. Anche il mio embrione i tuoi occhi l’hanno visto”. La simbolica usata è suggestiva ed è quella tessile: sull’intelaiatura dello scheletro si tesse il rivestimento della carne e della pelle. 

L’azione divina è raffigurata anche con altre immagini. Curiosa è quella introdotta da Giobbe che, oltre al simbolismo tessile e a quello “plastico” del vasaio che plasma la creta, ricorre all’attività casearia beduina: “Sono state le tue mani a plasmarmi e a modellarmi in tutto il mio profilo… Come argilla mi hai plasmato, mi hai colato come latte e fatto cagliare come cacio; mi hai rivestito di pelle e di carne; mi hai intessuto di ossa e di tendini” (10, 7-10). L’immagine è “un’analogia che serve a descrivere il fiotto di sperma di color latteo che entra nell’organo femminile e il formarsi, a seguito dell’inseminazione, di un corpo embrionale” (H.W. Wolff). Secondo l’antica fisiologia orientale si riteneva che l’embrione si formasse dal seme maschile in combinazione col sangue mestruo della donna! 

Nel Salmo sopra evocato si ha anche un termine ebraico rarissimo, golmî, che indica qualcosa di arrotolato o cilindrico: è la denominazione simbolica di quello che noi chiamiamo “embrione” (si ricordi il Golem, l’essere mostruoso, prodotto magico di laboratorio, protagonista di racconti fantastici della successiva tradizione giudaica). Nel grembo materno c’è, quindi, una presenza efficace di Dio che interviene nella formazione dell’essere umano. E’ una specie di creatio continua che vede nella concezione e nello sviluppo dell’embrione la partecipazione del Creatore che ha finalizzato la creatura verso la sua pienezza. Come scriveva Gregorio di Nissa, Padre della Chiesa del IV secolo: “Il seme, prima informe, si organizza e cresce sotto l’effetto dell’arte ineffabile di Dio”. E’ una pienezza non solo fisiologica ma anche esistenziale. 

Fin dal grembo materno mi ha chiamato” 

Essa è così formulata dal citato Salmo 139, 16: “Nel tuo libro erano già tutti scritti i giorni che furono formati quand’ancora non ne esisteva uno”. Il passo è potente nella sua forza evocatrice e allusiva. Tutti i giorni e le azioni, cioè il destino storico dell’uomo, sono iscritti già nel “libro della vita” di Dio. Come scriveva Quasimodo nella poesia Al tuo lume naufrago, “Tu mi hai guardato dentro/ nell’oscurità delle mie viscere”. L’esistenza umana è plasmata e prefigurata proprio come è già plasmata e configurata la struttura psicofisica dell’individuo. Dio delinea i giorni dell’uomo prima ancora che essi esistano. Al Creatore non solo non è celato o estraneo quel piccolo germe di vita che è il feto, ma egli è anche capace di perlustrare da signore il futuro che ancora non è. In questa prospettiva si intuisce che per la Bibbia la finalità dell’embrione è netta: si tratta di un’unità inscindibile, di un processo unitario e coerente, compatto e armonico con la meta da raggiungere, quella della persona umana. 

Creatura “impastata” di finitudine e di trascendenza, radicata al contingente ma affacciata sul mistero, l’uomo è oggetto, in tutto l’arco del suo esistere, di un’azione creatrice divina che lo finalizza non solo a essere una realtà psico-fisica ma anche a compiere una sua missione personale, all’interno del piano divino di redenzione e di salvezza. E’ per questo che tutte le grandi culture hanno adottato nella definizione e nella comprensione dell’uomo non solo la via fisica ma anche quella metafisica, non solo la via formale ma anche quella simbolica, non solo la verifica ma anche lo stupore, come è suggestivamente espresso in un paragrafo del romanzo La cripta dei cappuccini dello scrittore ebreo mitteleuropeo Joseph Roth: “Nell’istante in cui potei prendere tra le braccia mio figlio provai un lontano riflesso di quella ineffabile sublime beatitudine che dovette colmare il Creatore il sesto giorno quando egli vide la sua opera imperfetta pur tuttavia compiuta. Mentre tenevo tra le braccia quella cosina minuscola, urlante, brutta, paonazza, sentivo chiaramente quale mutamento stava avvenendo in me. Per piccola, brutta e rossastra che fosse la cosa tra le mie braccia, da essa emanava una forza invincibile”. 

Scienza e fede 

Considerata la prospettiva teorica generale del nostro discorso, non abbiamo voluto entrare nel merito specifico della connessione-collisione tra scienza e fede. Ne vogliamo, però, fare cenno in finale con una nota che prende spunto proprio dai capitoli iniziali della Genesi che sembrano essere in antipodo con la moderna antropologia scientifica: pensiamo solo all’evoluzionismo e al poligenismo. Certo, l’autore del libro biblico si appellava sicuramente a un modello scientifico fissista e monogenista. Ma lo scopo del suo discorso non era quello di rispondere alla domanda scientifica “Che cosa è successo alle origini del cosmo e dell’uomo?” quanto piuttosto al quesito teologico: “Che senso ha l’uomo nel cosmo e in se stesso?”. La sua è un’analisi non di astrofisica o di paleoantropologia, ma di filosofia e di teologia, di “sapienza”. Egli è teso a definire il segreto della libertà della creatura umana, le sue relazioni esistenziali basilari. Come ha dichiarato anche Papa Giovanni Paolo II, il testo biblico, attraverso la sua antropologia e cosmologia narrativa, vuole “porre l’uomo creato, fin dal primo momento della sua esistenza, di fronte a Dio alla ricerca della definizione di se stesso, della propria identità”. Già sant’Agostino nella sua De Genesi ad litteram affermava: “Non si legge nel vangelo che il Signore avrebbe detto: Vi manderò il Paraclito che vi insegnerà come vanno il sole e la luna. Voleva formare dei cristiani, non dei matematici”. 

Oscar Wilde era giustamente convinto che “a dar risposte sono capaci tutti, per far domande giuste ci vuole un genio”. Ebbene, bisogna interrogare la Bibbia in modo corretto per non costringerla a risposte che non vuole offrire e che solo artificiosamente le possiamo strappare. L’“inerranza” delle Scritture non riguarda la scienza ma gli asserti religiosi. O meglio, la “verità” che ci vuole comunicare non è di tipo scientifico ma teologico, come ha sottolineato il Concilio Vaticano II: “I libri della S. Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, a causa della nostra salvezza, volle che fosse consegnata nelle Sacre Lettere” (“Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione”, Dei Verbum n. 11). Aveva, allora, ragione Galileo quando scriveva all’abate benedettino pisano Benedetto Castelli che “l’autorità dello Spirito Santo ha avuto di mira a persuader agli uomini su quelle verità che, essendo necessarie alla loro salvezza e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo essere conosciute se non per bocca dello stesso Spirito Santo”. 

Certo, la tentazione dello sconfinamento è forte, anche perché identico è l’oggetto, cioè l’universo e l’umano: il teologo spesso è stato tentato di pronunziare verdetti di tipo scientifico e lo scienziato di irridere tesi religiose. Uno scienziato, che è al contempo un ecclesiastico, Fiorenzo Facchini, ha cercato di porre i paletti di frontiera, almeno quelli più generali. “Gran parte degli equivoci sul problema delle origini – ha scritto – è sorta dalla pretesa di negare ciò che la scienza non può dirci (la dimostrazione dello spirito) o di far dire alla Bibbia quello che essa non vuoi dirci (contenuti di ordine scientifico). Ai due interlocutori vanno posti quesiti che rientrano nel loro ambito. Alla Bibbia sul perché dell’esistenza, alla scienza sul dove, come, quando si è formata la vita… La vera alternativa non è tra evoluzione e creazione, ma tra visione di un mondo in evoluzione, dipendente da Dio creatore secondo un suo disegno, e visione di un mondo autosufficiente, capace di crearsi e di trasformarsi da sé per eventi puramente immanenti”. 

I racconti biblici della creazione dei capitoli 1-3 della Genesi, differenti ma complementari tra loro, sono dunque un potente affresco dell’esistenza umana nei suoi splendori e nelle sue miserie. Sono un’“eziologia” teologica, cioè una “ricerca delle cause” che stanno alla radice del nostro essere uomini e donne liberi. Non per nulla il protagonista di queste pagine non porta un nome proprio bensì un nome comune: Ha-’adam in ebraico significa “uomo” e, come indica l’articolo (ha-), è il nome di tutte le creature umane. Perciò, come è stato scritto da un teologo, Adamo è mio padre, mio figlio e sono io. E’ l’umanità collocata all’interno dell’universo, una “canna fragile” – secondo la celebre immagine di Pascal – ma capace di pensare, di agire liberamente, di gioire e di soffrire, di incontrare e conoscere, sfidare e amare il suo Creatore. 

 

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 8 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

Padre Cantalamessa: “Gesú di Nazaret, ‘uno dei profeti’?”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12806?l=italian 

 

Padre Cantalamessa: “Gesú di Nazaret, ‘uno dei profeti’?” 

Prima predica di Avvento al Papa e ai suoi collaboratori 

 

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 7 dicembre 2007 (ZENIT.org).- Venerdì mattina, nella Cappella “Redemptoris Mater”, alla presenza di Benedetto XVI, il Predicatore della Casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la prima predica di Avvento sul tema: “Ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Ebrei 1, 2). 

Come si spiega nel programma offerto dalla Prefettura della Casa pontificia: “Dopo Giovanni 1, 14 (‘Il Verbo si è fatto carne’), il testo biblico più caratteristico del tempo natalizio è Ebrei 1, 1-2: ‘Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi [...] per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio’”. 

“Alla luce di questo passo e prendendo lo spunto dal libro di Papa Benedetto XVI su Gesù di Nazaret, si cerca di mettere in luce la novità e l’unicità di Cristo come emergono dal confronto con i profeti e con Giovanni Battista e dall’uso che egli fa del titolo di Figlio”. 

“Il frutto spirituale dovrebbe essere una fede e una adesione sempre più convinte alla persona del Salvatore”, si legge infine.

Alle Prediche – le prossime si terranno il 14 e il 21 dicembre – sono invitati i Cardinali, gli Arcivescovi e i Vescovi, i Segretari delle Congregazioni, i Prelati della Curia romana e del Vicariato di Roma, i Superiori generali e i Procuratori delle Ordini religiosi facenti parte della Cappella Pontificia. 


Di seguito pubblichiamo il testo integrale della predica di questo venerdì. 

 

* * * 

 

 

P. Raniero Cantalamessa 

Avvento 2007 alla Casa Pontificia 

Prima Predica 

Gesú di Nazaret,”uno dei profeti”? 

1. La “terza ricerca” 

“Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli” (Eb 1, 1-3). 

Questo attacco della lettera agli Ebrei costituisce una sintesi grandiosa di tutta la storia della salvezza. Questa risulta costituita dalla successione di due tempi: il tempo in cui Dio parlava per mezzo dei profeti e il tempo in cui Dio parla per mezzo del Figlio; il tempo in cui parlava “per interposta persona” e il tempo in cui parla “di persona”. Il Figlio infatti è “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza”, cioè, come si dirà più tardi, della stessa sostanza del Padre. 

C’è continuità e salto di qualità insieme. È lo stesso Dio che parla, la stessa rivelazione; la novità è che adesso il Rivelatore si fa rivelazione, rivelazione e rivelatore coincidono. La formula di introduzione degli oracoli ne è la migliore dimostrazione: non più “Dice il Signore”, ma “Io vi dico”. 

Alla luce di questa potente parola di Dio che è Ebrei 1, 1-3, cerchiamo, in questa predicazione di Avvento, di operare un discernimento delle opinioni che oggi circolano su Gesú, fuori e dentro la Chiesa, in modo da potere, a Natale, unire senza riserve la nostra voce a quella della liturgia che proclama la sua fede nel Figlio di Dio venuto in questo mondo. Siamo continuamente ricondotti al dialogo di Cesarea di Filippi: per me Gesú è “uno dei profeti”, o è il “Figlio del Dio vivente”? (cf. Mt 16,14-16). 

Nel campo degli studi storici su Gesú, quella che si sta vivendo è la cosiddetta “terza ricerca”. Si chiama così per distinguerla sia dalla “vecchia ricerca” storica di ispirazione razionalistica e liberale che dominò dalla fine del secolo XVIII a tutto il secolo XIX, sia dalla cosiddetta “nuova ricerca storica” che iniziò verso la metà del secolo scorso, in reazione alla tesi di Bultmann che aveva proclamato il Gesú storico irraggiungibile e oltre tutto irrilevante per la fede cristiana. 

In che cosa la “terza ricerca” si differenza dalle precedenti? Anzitutto dalla convinzione che del Gesú della storia possiamo sapere, grazie alle fonti, molto di più di quanto in passato si ammetteva. Ma soprattutto la terza ricerca si differenzia nei criteri per raggiungere la verità storica su Gesú. Se prima si pensava che il criterio fondamentale di accertamento della verità di un fatto o di un detto di Gesú fosse il suo essere in contrasto con quanto si faceva o si pensava nel mondo giudaico a lui contemporaneo, ora esso viene visto, al contrario, nella compatibilità di un dato evangelico con il giudaismo del tempo. Se prima il marchio di autenticità di un detto o di un fatto era la sua novità e “inesplicabilità” rispetto all’ambiente, ora è, al contrario, la sua esplicabilità alla luce delle nostre conoscenze del giudaismo e della situazione sociale della Galilea del tempo. 

Alcuni vantaggi di questo nuovo approccio sono evidenti. Viene ritrovata la continuità della rivelazione. Gesú si colloca all’interno del mondo ebraico, nella linea dei profeti biblici. Si sorride perfino all’idea che ci fu un tempo in cui si credeva di poter spiegare tutto del cristianesimo con il ricorso a influssi ellenistici. 

Il guaio è che si è spinto tanto oltre questa conquista da trasformarla in una perdita. In molti rappresentanti di questa terza ricerca, Gesú finisce per dissolversi completamente nel mondo giudaico, senza più distinguersi se non in qualche dettaglio e per qualche interpretazione particolare della Torah. Uno dei profeti ebraici, o come si ama dire, dei “carismatici itineranti”. Significativo il titolo di un saggio famoso, quello di J.D. Crossmann: “Il Gesú storico. La vita di un contadino giudeo del Mediterraneo”. 

Senza giungere a questi eccessi, anche l’autore più noto, e per certi versi iniziatore della terza ricerca, E. P. Sanders, è su questa linea1. Ritrovata la continuità, si è persa la novità. La divulgazione, anche tra noi in Italia, ha fatto il resto, diffondendo l’immagine di un Gesú ebreo tra ebrei, che non ha fatto quasi nulla di nuovo, ma di cui si continua a dire (non si sa come) che “ha cambiato il mondo”. 

Si continua a rimproverare alle generazioni di studiosi del passato di essersi costruita ogni volta un’immagine di Gesú secondo la moda o i gusti del momento e non ci si accorge di continuare nella stessa linea. Questa insistenza sul Gesú ebreo tra ebrei, infatti, dipende, almeno in parte, dal desiderio di riparare i torti storici commessi contro questo popolo e di favorire il dialogo tra ebrei e cristiani. Uno scopo ottimo, perseguito, vedremo subito, con un mezzo (per il modo con cui è usato) sbagliato. Si tratta infatti di una tendenza solo apparentemente filo-ebraica. In realtà si finisce per addossare al mondo giudaico una responsabilità in più: quella di non aver riconosciuto uno di loro, uno la cui dottrina era perfettamente compatibile con quanto esso stesso credeva. 

2. Il rabbino Neusner e Benedetto XVI 

Chi ha messo in luce l’illusorietà di questo approccio ai fini di un vero dialogo tra ebraismo e cristianesimo è stato proprio un ebreo, il rabbino americano Jacob Neusner. Chi ha letto il libro di papa Benedetto XVI su Gesú di Nazaret, sa già molto sul pensiero di questo rabbino con il quale egli dialoga in uno dei capitoli più appassionanti del libro. Io rievoco la cosa per sommi capi. 

Il notissimo studioso ebraico ha scritto un libro intitolato “Un rabbino parla con Gesú”. In esso immagina di essere un contemporaneo di Cristo che un giorno si accoda alla folla che lo segue e ascolta il discorso della montagna. Egli spiega perché, nonostante sia affascinato dalla dottrina e dalla persona del Galileo, alla fine capisce, a malincuore, di non potersi fare suo discepolo e decide di rimanere discepolo di Mosè e seguace della Torah. 

Tutti i motivi della sua decisione alla fine si riducono a uno solo: per accettare ciò che quest’uomo dice, bisogna riconoscergli la stessa autorità di Dio. Egli non si limita a “compiere”, ma sostituisce la Torah. Toccante lo scambio di idee che il rabbino, reduce dall’incontro con Gesú, ha con il suo maestro nella sinagoga: 

Maestro: “Ha tralasciato qualcosa [della Torah] il tuo Gesú? 

Rabbino Neusner: “Nulla”. 

Maestro: “Allora ha aggiunto qualcosa?” 

Rabbino Neusner: “Sì, se stesso”. 

Interessante coincidenza: è l’identica risposta che sant’Ireneo dava nel II secolo a coloro che si domandavano che cosa Cristo avesse recato di nuovo venendo nel mondo”. “Ha portato, scriveva, ogni novità, portando se stesso”: “omnem novitatem attulit semetipsum afferens2

Neusner ha messo in luce l’impossibilità di fare di Gesú un “normale” giudeo del suo tempo, o uno che si distacca da esso solo in punti di secondaria importanza. Ha avuto anche un altro grandissimo merito, quello di mostrare l’inanità di ogni tentativo di separare il Gesù della storia dal Cristo della fede. Fa vedere come la critica può togliere dal Gesù della storia tutti i titoli: negare che si sia (o che gli abbiano) attribuito, da vivo, il titolo di Messia, di Signore, di Figlio di Dio. Dopo che gli si è tolto tutto quello che si vuole, quello che resta nei vangeli è più che sufficiente a dimostrare che non si riteneva un semplice uomo. Come basta un frammento di capello, una goccia di sudore o di sangue a ricostruire il DNA completo di una persona, così basta un detto, preso quasi a caso, del vangelo a dimostrare la coscienza che Gesù aveva di agire con la stessa autorità di Dio. 

Neusner, da buon ebreo, sa cosa significa dire: “Il Figlio dell’uomo è padrone anche del sabato”, perché il sabato è la “istituzione” divina per eccellenza. Egli sa cosa implica dire: “Se vuoi essere perfetto vieni e seguimi”: vuol dire sostituire all’antico paradigma di santità che consiste nell’imitazione di Dio (“Siate santi perché io, il vostro Dio, sono santo”) il nuovo paradigma che consiste nell’imitazione di Cristo. Sa che solo Dio può sospendere l’applicazione del IV comandamento come fa Gesú quando chiede a uno di rinunciare a seppellire suo padre. Commentando questi detti di Gesú, Neusner esclama: “E’ il Cristo della fede che parla qui”3

Nel suo libro il papa risponde a lungo e, per un credente, in modo convincente e illuminante, alla difficoltà del rabbino Neusner. La sua risposta mi fa pensare a quella che Gesú stesso diede ai messi inviati da Giovanni Battista a chiedergli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” Gesú, in altre parole, non ha solo rivendicato per sé un’autorità divina, ma ha anche dato segni e garanzie a sua riprova: i miracoli, il suo stesso insegnamento (che non si esaurisce nel discorso della montagna), il compimento delle profezie, soprattutto quella pronunciata da Mosè di un profeta simile e superiore a lui; poi la sua morte, la sua risurrezione e la comunità nata da lui che realizza l’universalità della salvezza annunziata dai profeti. 

3. “Esortatevi a vicenda” 

Bisognerebbe, a questo punto, notare una cosa: il problema del rapporto tra Gesú e i profeti non si pone solo nel contesto del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo, ma anche all’interno della stessa teologia cristiana, dove non sono mancati tentativi di spiegare la personalità di Cristo con il ricorso alla categoria di profeta. Io sono convinto della radicale insufficienza di una cristologia che pretenda isolare il titolo di profeta e rifondare su di esso l’intero edificio della cristologia. 

Oltre tutto, questo tentativo non è affatto nuovo. Fu proposto nell’antichità da Paolo di Samosata, Fotino ed altri in termini a volte quasi identici. Allora, in una cultura di orientamento metafisico, si parlava di massimo profeta; oggi, in una cultura di orientamento storico, si parla di profeta escatologico. Ma è così diverso escatologico da supremo? Può uno essere il massimo profeta, senza essere anche profeta definitivo, e può il profeta definitivo non essere anche il massimo dei profeti? 

Una cristologia che non va oltre la categoria di Gesú come “profeta escatologico” costituisce, sì, come è nelle intenzioni di chi la propone, un aggiornamento del dato antico, non però del dato definito dai concili, ma del dato condannato dai concili. 

Ma non insisto su questo problema che ho trattato in anni passati in questa stessa sede4. Piuttosto vorrei passare subito a qualche applicazione pratica delle riflessioni fin qui svolte che ci aiuti a fare dell’Avvento un tempo di conversione e di risveglio spirituale. 

La conclusione che la lettera agli Ebrei trae dalla superiorità di Cristo sui profeti e su Mosè non è una conclusione trionfalistica, ma parenetica; non insiste sulla superiorità del cristianesimo, ma sulla maggiore responsabilità dei cristiani di fronte a Dio. Dice: 

“Proprio per questo, bisogna che ci applichiamo con maggiore impegno a quelle cose che abbiamo udito, per non andare fuori strada. Se, infatti, la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è dimostrata salda, e ogni trasgressione e disobbedienza ha ricevuto giusta punizione, come potremo scampare noi se trascuriamo una salvezza così grande? (Eb 2, 1-3). “Esortatevi dunque a vicenda ogni giorno, finché dura questo ‘oggi’, perché nessuno di voi si indurisca sedotto dal peccato” (Eb 3, 13). 

E al capitolo 10 aggiunge: “Quando qualcuno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto maggior castigo allora pensate che sarà ritenuto degno chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell’alleanza dal quale è stato un giorno santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia?” (Eb 10, 28-29). 

La parola con cui, raccogliendo l’invito dell’autore, vogliamo esortarci a vicenda è quella che la liturgia ci ha fatto ascoltare domenica scorsa e che da il tono a tutta la prima settimana di Avvento: “Vegliate!” È interessante notare una cosa. Quando viene ripresa nella catechesi apostolica dopo la Pasqua, questa parola di Gesú si trova quasi sempre drammatizzata: non vegliate, ma svegliatevi, destatevi dal sonno! Dallo stato del vegliare si passa all’atto dello svegliarsi. 

C’è alla base la costatazione che in questa vita siamo cronicamente esposti a ripiombare nel sonno, cioè in uno stato di sospensione delle facoltà, di assopimento e di inerzia spirituale. Le cose materiali hanno un effetto narcotizzante sull’anima. Per questo Gesú raccomanda: “State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita” (Lc 21, 34). 

Può servirci da utile esame di coscienza riascoltare la descrizione che sant’Agostino fa di questo stato di dormiveglia nelle Confessioni: « Come chi è oppresso dal sonno, così ero io oppresso dal peso soave del mondo; e i pensieri che rivolgevo a Te erano simili ai conati di coloro che vogliono destarsi e tuttavia, vinti, ricadono nel sonno profondo […]. Ero ben sicuro essere meglio consacrarsi al tuo amore, che cedere alla mia passione: il primo partito mi piaceva e vinceva; il secondo mi allettava e avvinceva. Nulla sapevo io rispondere alle tue parole: ‘Svégliati, tu che dormi, sorgi dai morti e Cristo ti illuminerà’ (Ef 5,14). Convinto della verità, nulla sapevo io rispondere a te, che da ogni parte mi dimostravi essere vero quello che tu dici; nulla, all’infuori di queste parole infingarde e sonnolenti: Ora, ecco, ora, attendi ancora un poco. Ma questo ora e ora non trovava mai un’ora, e l’attendi ancora un poco andava per le lunghe » 5

Sappiamo come il santo uscì alla fine da questo stato. Era in un giardino a Milano, lacerato da questa lotta tra la carne e lo spirito; udì le parole di un canto: “Tolle, lege, tolle, lege”. Le prese come un invito divino; aveva con sé il libro delle lettere di Paolo, lo aprì deciso a prendere come parola di Dio per lui il primo passo su cui sarebbe caduto. Cadde sul testo che abbiamo ascoltato domenica scorsa come seconda lettura della Messa: 

“È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13, 11-14). Una luce di serenità attraversò il corpo e l’anima di Agostino ed egli capì che, con l’aiuto di Dio, poteva vivere casto. 

4. “Dammi castità e continenza” 

La vicenda di Agostino mi spinge a introdurre nel mio discorso una nota di attualità. La settimana scorsa è andato in onda su Rai Uno spettacolo del comico Roberto Benigni che ha registrato ascolti altissimi. Si è trattato, a momenti, di una lezione di altissima comunicazione religiosa, oltre che artistica e letteraria, da cui ci sarebbe tanto da imparare da parte di noi predicatori: capacità di dar voce al senso dell’eterno nell’uomo, la meraviglia di fronte al mistero, all’arte, alla bellezza e al semplice fatto di esistere. 

Purtroppo, su un punto, forse non premeditato, il comico ha lanciato un messaggio che potrebbe risultare micidiale per i giovani e che va rettificato. In appoggio al suo invito a non aver paura delle passioni, a provare la vertigine dell’amore anche nel suo aspetto carnale, egli ha citato la frase di Agostino che dice a Dio: “Dammi la castità e la continenza, ma non ora”6. Come se prima bisognasse provare tutto e poi, chissà da vecchi quando non costa più fatica, praticare la castità. 

Non ha detto, il comico, fino a che punto Agostino si era dovuto pentire in seguito di aver fatto da giovane questa preghiera e quante lacrime gli era costato strapparsi alla schiavitù della passione a cui si era dato in braccio. Non ha ricordato la preghiera che il santo sostituirà a quella ricordata, una volta riacquistata la libertà: “Tu mi comandi di essere casto; ebbene, concedimi quello che mi chiedi e poi chiedimi quello che vuoi!” 7

Non credo che i giovani d’oggi abbiano bisogno di essere incoraggiati a “buttarsi”, a “provare”, a rompere le barriere (tutto li spinge a capofitto in questa direzione con i risultati tragici che conosciamo). Hanno bisogno di chi dia loro delle motivazioni valide, non certo ad aver paura del loro corpo e dell’amore, ma semmai ad aver paura di sciupare l’uno e l’altro. 

Nel canto dell’Inferno che il comico ha mirabilmente commentato, Dante fornisce una di questa motivazioni profonde, sulla quale però si è sorvolato. Il male è sottomettere la ragione all’istinto, anziché l’istinto alla ragione. “Intesi ch’a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento”. L’istinto (il talento) ha la sua funzione se regolato dalla ragione; in caso contrario diventa il nemico, non l’alleato, dell’amore, portando ai delitti più efferati, di cui le cronache recenti ci hanno fornito esempi. 

Ma veniamo più direttamente a noi. La vita spirituale non si riduce certo alla sola castità e purezza, ma è certo che senza di esse ogni sforzo in altre direzioni risulta impossibile. Essa è davvero, come la chiama Paolo nel testo citato, una “arma della luce”: una condizione perché la luce di Cristo si diffonda intorno a noi e attraverso di noi. 

Oggigiorno, si tende a contrapporre tra di loro i peccati contro la purezza e i peccati contro il prossimo e si tende a considerare vero peccato solo quello contro il prossimo; si ironizza, talvolta, sul culto eccessivo accordato, in passato, alla “bella virtù”. Questo atteggiamento, in parte, è spiegabile; la morale aveva accentuato troppo unilateralmente, in passato, i peccati della carne, fino a creare, talvolta, delle vere e proprie nevrosi, a scapito dell’attenzione ai doveri verso il prossimo e a scapito della stessa virtù della purezza che veniva, in tal modo, immiserita e ridotta a virtù quasi solo negativa, la virtù di saper dire di no. 

Ora però si è passati all’eccesso opposto e si tende a minimizzare i peccati contro la purezza, a vantaggio (spesso soltanto verbale) di un’attenzione al prossimo. È una illusione quella di credere di poter mettere insieme un autentico servizio ai fratelli, che richiede sempre sacrificio, altruismo, dimenticanza di sé e generosità, e una vita personale disordinata, tesa tutta a compiacere se stessi e le proprie passioni. Si finisce, inevitabilmente, per strumentalizzare i fratelli, come si strumentalizza il proprio corpo. Non sa dire dei “sì” ai fratelli chi non sa dire dei “no” a se stesso. 

Una delle “scuse” che più contribuiscono a favorire il peccato di impurità, nella mentalità della gente, e a scaricarlo di ogni responsabilità è che, tanto, esso non fa del male ad alcuno, non viola i diritti e la libertà degli altri, a meno – si dice – che si tratti di violenza carnale. Ma a parte il fatto che esso viola il diritto fondamentale di Dio di dare una legge alle sue creature, questa “scusa” è falsa anche nei confronti del prossimo. Non è vero che il peccato di impurità finisce con chi lo commette. 

Nel Talmud ebraico si legge un apologo che illustra bene la solidarietà che c’è nel peccato e il danno che ogni peccato, anche personale, reca agli altri: “Alcune persone si trovavano a bordo di una barca. Una di esse prese un trapano e cominciò a fare un buco sotto di sé. Gli altri passeggeri, vedendo, gli dissero: – Che fai? – Egli rispose: Che cosa importa a voi? Non sto forse facendo il buco sotto il mio sedile? – Ma essi replicarono: – Sì, ma l’acqua entrerà e ci annegherà tutti!”. Non è quello che sta avvenendo nella nostra società? Anche la Chiesa ne sa qualcosa del male che si può fare all’intero corpo con gli sbagli personali commessi in questo campo. 

Uno degli eventi spirituali di maggior rilievo di questi ultimi mesi è stata la pubblicazione degli “scritti personali” di Madre Teresa di Calcutta. Il titolo scelto per il libro che li raccoglie è la parola che Cristo le rivolse al momento di chiamarla alla sua nuova missione: “Come, be my light”, Vieni, sii la mia luce nel mondo. È una parola che Gesú rivolge a ognuno di noi e che, con l’aiuto della Vergine Santissima e l’intercessione della Beata di Calcutta, vogliamo raccogliere con amore e cercare di mettere in pratica in questo Avvento. 

1 E.P. Sanders, Jesus and Judaism, London 1985, trad. italiana Gesù e il giudaismo, Marietti 1992. 

2 S. Ireneo, Adv. Haer. IV,34,1 

3 J. Neusner, op. cit. 84. 

4 Vedi meditazioni dell’Avvento 1989 raccolte nel libro Gesú Cristo, il Santo di Dio, cap. VII, Edizioni San Paolo 19994. 

5 S. Agostino, Confessioni, VIII, 5,12. 

6 S. Agostino, Confessioni, VIII, 6,17. 

7 Ib. X, 29:  

Publié dans:Padre Cantalamessa |on 8 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

buona notte

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Strelitzia nicolai

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 8 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

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