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L’ecumenismo del cardinale Kasper: prima di tutto, la verità
Il testo integrale della relazione letta in concistoro dal presidente del pontificio consiglio per l’unione dei cristiani. Bene con gli ortodossi, male con i protestanti, così e così con « evangelical » e pentecostali. E intanto, con i musulmani…
di Sandro Magister
ROMA, 4 dicembre 2007 – Dell’enciclica « Spe salvi » sulla speranza, resa pubblica l’ultimo giorno di novembre, Benedetto XVI aveva dato notizia otto giorni prima ai cardinali convocati a Roma da tutto il mondo, nella riunione che ha aperto il concistoro.
Per molti di loro l’annuncio fu una sorpresa.
Il tema al centro della discussione non era però quello dell’enciclica, ma lo stato attuale dei rapporti ecumenici tra la Chiesa cattolica e le altre confessioni cristiane.
La riunione dei cardinali col papa ha occupato l’intera giornata di venerdì 23 novembre. Benedetto XVI ha affidato l’incarico di introdurre la discussione al cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio consiglio per l’unione dei cristiani.
Terminata la relazione di Kasper sono intervenuti 17 cardinali. L’incontro era a porte chiuse, ma la sala stampa della Santa Sede, in un succinto sommario, ha riferito che alcuni hanno indicato nell’attuazione della dottrina sociale della Chiesa e nella difesa della vita e della famiglia uno dei campi più promettenti per l’ecumenismo. Altri hanno proposto di proseguire la « purificazione della memoria ». Altri ancora hanno chiesto maggiore attenzione nell’usare « forme di comunicazione attente a non ferire la sensibilità degli altri cristiani ».
Quest’ultima richiesta era anche nella relazione di Kasper. A proposito delle “Cinque risposte” pubblicate lo scorso luglio dalla congregazione per la dottrina della fede, il cardinale aveva fatto notare che esse « hanno suscitato perplessità ed originato un certo malumore » in alcune confessioni cristiane, specie protestanti. E aveva aggiunto:
« Sarebbe auspicabile rivedere la forma, il linguaggio e la presentazione al pubblico di simili dichiarazioni ».
Dopo la pausa di mezzogiorno, nel pomeriggio sono intervenuti altri 16 cardinali.
Alcuni hanno allargato l’attenzione ai rapporti con gli ebrei e con l’Islam. Si è parlato del « segno incoraggiante » rappresentato dalla lettera delle 138 personalità musulmane e dalla visita del re dell’Arabia Saudita al Santo Padre.
E a questo proposito, pochi giorni dopo è stata stata resa pubblica una lettera del cardinale segretario di stato Tarcisio Bertone al principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal, con l’annuncio di una futura udienza del papa a lui e a un gruppo di firmatari della lettera dei 138, e di un’agenda di dialogo « su un effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana, sulla conoscenza obiettiva della religione dell’altro, sulla condivisione dell’esperienza religiosa e, infine, sull’impegno comune alla promozione del rispetto e dell’accettazione reciproci tra i giovani ».
Una breve risposta del cardinale Kasper su alcuni punti particolari e un intervento del papa hanno concluso la giornata.
La sala stampa della Santa Sede non ha messo in rete la relazione di Kasper, né essa è rintracciabile nel sito del Vaticano. L’ha però stampata « L’Osservatore Romano » del giorno dopo.
In ogni caso la sua lettura è di grande interesse. Perché descrive con chiarezza – da parte di chi ha autorità in materia – lo stato attuale dei rapporti ecumenici, nell’ordine:
– con le Chiese orientali precalcedoniane;
– con le Chiese ortodosse di tradizione bizantina, siriana e slava;
– con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma protestante;
– con le Comunità « evangelical »;
– con le Comunità carismatiche e pentecostali.
Kasper accompagna questa diagnosi con indicazioni su come proseguire fruttuosamente il cammino.
Ecco dunque qui di seguito il testo integrale della sua relazione, letta in lingua italiana ai cardinali il 23 novembre e tradotta nelle altre lingue a cura di www.chiesa:
Informazioni e riflessioni sulla situazione ecumenica attuale
di Walter Kasper
Presentare informazioni e riflessioni sulla situazione ecumenica attuale nel tempo a disposizione, sarà possibile soltanto per grandi linee e in modo purtroppo non esaustivo. Tuttavia, spero che questa mia relazione possa mettere in luce l’agire della provvidenza divina, che conduce verso l’unità i cristiani separati per fare della loro testimonianza un segno sempre più chiaro davanti al mondo.
I.
Inizierò con una prima osservazione, che ritengo essenziale. Ciò che noi chiamiamo ecumenismo – da distinguere dal dialogo interreligioso – trova il suo fondamento nel testamento lasciatoci da Gesù stesso la vigilia della sua morte: “Ut unum sint” (Giovanni 17,21). Il Concilio Vaticano II ha definito la promozione dell’unità dei cristiani come uno dei sui principali intenti (Unitatis redintegratio 1) e come un impulso dello Spirito Santo (UR 1, 4). Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato che la ricerca ecumenica è una via irreversibile (Ut unum sint 3), e papa Benedetto XVI, fin dal primo giorno del suo pontificato, ha assunto come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Egli è cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo (omelia del 20 aprile 2005 tenuta davanti al collegio cardinalizio). L’ecumenismo non è pertanto una scelta opzionale, ma è un sacro obbligo.
Naturalmente, ecumenismo non è sinonimo né di umanesimo bonario, né di relativismo ecclesiologico. Esso poggia sulla ferma consapevolezza che la Chiesa cattolica ha di se stessa e sui principi cattolici, di cui parla il decreto sull’ecumenismo (UR 2-4). È un ecumenismo della verità e della carità; le due sono intimamente connesse e non possono sostituirsi a vicenda. Innanzitutto va rispettato il dialogo della verità. Le norme concrete sono esposte in modo vincolante nel “Direttorio ecumenico” del 1993.
Il risultato più significativo dell’ecumenismo negli ultimi decenni – ed anche il più gratificante – non sono i vari documenti, ma la ritrovata fraternità, il fatto che ci siamo riscoperti fratelli e sorelle in Cristo, che abbiamo imparato ad apprezzarci gli uni gli altri ed abbiamo intrapreso insieme il cammino verso la piena unità (cf. UUS 42). Su questo cammino, la cattedra di Pietro è diventata nel corso degli ultimi quarant’anni un punto di riferimento sempre più importante per tutte le Chiese e tutte le Comunità ecclesiali. Se all’entusiasmo iniziale è subentrato un atteggiamento di maggiore sobrietà, ciò dimostra che l’ecumenismo è diventato più maturo, più adulto. Esso è ormai una realtà quotidiana, percepita come una normalità nella vita della Chiesa. È con grande gratitudine che dobbiamo riconoscere in tale sviluppo l’agire dello Spirito che guida la Chiesa.
In maniera più specifica, possiamo distinguere tre campi nell’ecumenismo. Innanzitutto, vanno menzionate le relazioni con le antiche Chiese orientali e con le Chiese ortodosse del primo millennio, che noi riconosciamo come Chiese in quanto, a livello ecclesiologico, come noi hanno mantenuto la fede e la successione apostoliche. In secondo luogo, ricordiamo le relazioni con le Comunità ecclesiali nate direttamente o indirettamente – come le Chiese libere – dalla Riforma del XVI secolo; esse hanno sviluppato una propria ecclesiologia prendendo a fondamento la Sacra Scrittura. Infine, la storia recente del cristianesimo ha conosciuto una cosiddetta terza ondata, quella del movimento carismatico e del movimento pentecostale, sorti all’inizio del XX secolo e diffusisi nel frattempo in tutto il mondo con una crescita esponenziale. L’ecumenismo deve dunque far fronte ad una realtà variegata e differenziata, caratterizzata da fenomeni molto diversi a seconda dei contesti culturali e delle chiese locali.
II.
Cominciamo con le Chiese del primo millennio. Già nei primi dieci anni di dialogo con le Chiese orientali pre-calcedoniane, ovvero nel periodo tra il 1980 ed il 1990, abbiamo realizzato importanti risultati. Grazie al consenso raggiunto tra papa Paolo VI e papa Giovanni Paolo II con i patriarchi rispettivi è stato possibile superare le antiche controversie cristologiche sorte intorno al Concilio di Calcedonia (451) e, per quanto riguarda la Chiesa assira dell’oriente, intorno al Concilio di Efeso (381).
Nella sua seconda fase, il dialogo si è concentrato sull’ecclesiologia, ovvero sul concetto di comunione ecclesiale e sui suoi criteri. Il prossimo incontro è previsto a Damasco dal 27 gennaio al 2 febbraio 2008. In tale sede, sarà discussa per la prima volta la bozza di un documento su “Natura, costituzione e missione della Chiesa”. Grazie a questo dialogo, Chiese di antica tradizione e addirittura di tradizione apostolica, prendono di nuovo contatto con la Chiesa universale dopo aver vissuto ai suoi margini per 1500 anni. Che ciò accada solo lentamente, passo per passo, è del tutto normale date le circostanze, ovvero i lunghi secoli di separazione e le grandi differenze di cultura e di mentalità.
Il dialogo con le Chiese ortodosse di tradizione bizantina, siriana e slava è stato avviato ufficialmente nel 1980. Con tali Chiese abbiamo in comune i dogmi del primo millennio, l’Eucaristia e gli altri sacramenti, la venerazione di Maria madre di Dio e dei santi, la struttura episcopale della Chiesa. Consideriamo queste Chiese, insieme alle antiche Chiese orientali, come Chiese sorelle delle chiese locali cattoliche. Differenze esistevano già nel primo millennio, ma non erano percepite in quell’epoca come un fattore di divisione all’interno della Chiesa. La separazione vera e propria è avvenuta tramite un lungo processo di allontanamento e di alienazione, a causa di una mancanza di comprensione e di amore reciproci, come ha osservato il Concilio Vaticano II (UR 14). Quello che avviene oggi è dunque, necessariamente, un processo inverso di mutua riconciliazione.
I primi importanti passi sono stati compiuti già durante il Concilio. Va ricordato ad esempio l’incontro e lo scambio di corrispondenza tra papa Paolo VI ed il patriarca ecumenico Athenagoras, il famoso “Tomos agapis”, e la cancellazione dalla memoria della Chiesa delle scomuniche reciproche del 1054, nel penultimo giorno del Concilio. Su tali basi, è stato possibile riprendere alcune forme di comunione ecclesiale del primo millennio: lo scambio di visite, di messaggi e di missive tra il papa ed i patriarchi, tra cui soprattutto il patriarca ecumenico; la cordiale coesistenza e collaborazione in molte chiese locali; la concessione per uso liturgico di edifici di culto da parte della Chiesa cattolica a cristiani ortodossi che vivono da noi nella diaspora, in segno di ospitalità e di comunione. Durante l’Angelus pronunciato in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo del 2007, papa Benedetto XVI ha sottolineato che con queste Chiese siamo già in una comunione ecclesiale pressoché piena.
Nei primi dieci anni del dialogo, dal 1980 al 1990, è stato puntualizzato ed evidenziato ciò che abbiamo in comune a proposito dei sacramenti (soprattutto dell’Eucaristia) e del ministero episcopale e sacerdotale. Tuttavia, la svolta politica del 1989-90, invece di semplificare le nostre relazioni, le ha complicate. Nel ritorno alla vita pubblica delle Chiese cattoliche orientali, dopo anni di brutali persecuzioni e di eroica resistenza pagata anche al prezzo del sangue, è stata vista dalle Chiese ortodosse la minaccia di un nuovo “uniatismo”. Così, negli anni novanta, nonostante gli importanti chiarimenti apportati dall’incontro di Balamand (1993) a Baltimora (2000) il dialogo si è arenato. La situazione di crisi si è acuita soprattutto nelle relazioni con la Chiesa ortodossa russa dopo l’erezione canonica di quattro diocesi in Russia nel 2002.
Grazie a Dio, dopo molti sforzi condotti con pazienza, lo scorso anno è stato possibile riavviare il dialogo; nel 2006 si è tenuto un incontro a Belgrado e circa un mese fa ci siamo nuovamente riuniti a Ravenna. In tale occasione, è emerso un decisivo miglioramento a livello di atmosfera e di rapporti, nonostante la partenza della delegazione russa per motivi inter-ortodossi. È iniziata così una promettente terza fase di dialogo.
Il documento di Ravenna, intitolato “Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa”, ha segnato una svolta importante. Per la prima volta, gli interlocutori ortodossi hanno riconosciuto un livello universale della Chiesa ed hanno ammesso che anche a questo livello esiste un protos, un primate, che può essere soltanto il vescovo di Roma secondo la taxis della Chiesa antica. Tutti i partecipanti sono consapevoli che questo è soltanto un primo passo e che il cammino verso la piena comunione ecclesiale sarà ancora lungo e difficile; tuttavia, con questo documento abbiamo posto una base per il dialogo futuro. Il tema che verrà affrontato nella prossima sessione plenaria sarà: “Il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio”.
Per quanto riguarda più specificatamente il patriarcato di Mosca della Chiesa ortodossa russa, le relazioni negli ultimi anni si sono sensibilmente appianate. Possiamo dire che non c’è più gelo ma disgelo. Dal nostro punto di vista, un incontro tra il Santo Padre ed il patriarca di Mosca sarebbe utile. Il Patriarcato di Mosca non ha mai escluso tale incontro categoricamente, ma ritiene opportuno risolvere prima i problemi che esistono a suo parere in Russia e soprattutto in Ucraina. Va ricordato comunque che molti incontri hanno luogo anche ad altri livelli. Tra questi menzioniamo la recente visita del patriarca Alexij a Parigi, considerata da entrambe le parti un passo importante.
Riassumendo, possiamo affermare che saranno ancora necessarie una continua purificazione della memoria storica e molte preghiere affinché, sulla base comune del primo millennio, riusciamo a colmare la frattura tra oriente ed occidente ed a ripristinare la piena comunione ecclesiale. Nonostante le difficoltà che permangono, forte e legittima è la speranza che, con l’aiuto di Dio e grazie alla preghiera dei tanti fedeli, la Chiesa, dopo la divisione del secondo millennio, tornerà nel terzo a respirare con i suoi due polmoni.
III.
Passiamo adesso alle relazioni con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma. Segni incoraggianti si sono verificati anche in questo campo. Tutte le Comunità ecclesiali si sono dette interessate al dialogo e la Chiesa cattolica è in dialogo con quasi tutte le Comunità ecclesiali. Un certo consenso è stato raggiunto nell’ambito delle verità di fede, soprattutto per ciò che riguarda le questioni fondamentali della dottrina sulla giustificazione. In molti luoghi esiste una fruttuosa collaborazione nella sfera sociale e umanitaria. Si è diffuso progressivamente un atteggiamento di fiducia reciproca e di amicizia, caratterizzato da un profondo desiderio di unità, che rimane tale nonostante ci siano, di tanto in tanto, toni più duri ed aspre delusioni. Di fatto, l’intensa rete di relazioni sia personali che istituzionali sviluppatasi nel frattempo è in grado di resistere alle occasionali tensioni.
Non c’è nessun arresto, ma un profondo cambiamento della situazione ecumenica. È lo stesso cambiamento sperimentato dalla Chiesa e dal mondo in generale. Qui mi limiterò a citare soltanto alcuni aspetti di questa trasformazione.
1) Dopo essere pervenuti ad un consenso fondamentale sulla dottrina della giustificazione, ci troviamo ora a dover nuovamente discutere di temi controversi classici, tra cui soprattutto l’ecclesiologia ed i ministeri ecclesiali (cf. UUS 66). A tal proposito, le “Cinque risposte” rilasciate lo scorso luglio dalla congregazione per la dottrina della fede hanno suscitato perplessità ed originato un certo malumore. L’agitazione sollevatasi intorno a tale documento era perlopiù ingiustificata, poiché il testo non afferma niente di nuovo, ma ribadisce in modo riassuntivo la dottrina cattolica. Tuttavia, sarebbe auspicabile rivedere la forma, il linguaggio e la presentazione al pubblico di simili dichiarazioni.
2) Le differenti ecclesiologie portano necessariamente ad avere visioni differenti di ciò che è lo scopo dell’ecumenismo. Così è un problema il fatto che ci manchi un concetto comune di unità ecclesiale quale obiettivo da raggiungere. Tale problema è ancora più grave se consideriamo che la comunione ecclesiale è per noi cattolici il presupposto per una comunione eucaristica e che l’assenza di una comunione eucaristica comporta grandi difficoltà pastorali, soprattutto nel caso di coppie e famiglie miste.
3) Mentre da una parte ci sforziamo di superare le vecchie controversie, dall’altra emergono nuove divergenze nel campo etico. Ciò riguarda in particolare le questioni attinenti alla difesa della vita, al matrimonio, alla famiglia e alla sessualità umana. A causa di questi nuovi fossati che si vengono a scavare, la testimonianza comune pubblica è notevolmente indebolita se non addirittura impossibilitata. La crisi che si verifica all’interno delle rispettive Comunità è esemplificata chiaramente dalla situazione insorta nella Comunione anglicana, che non è un caso isolato.
4) La teologia protestante, segnata durante i primi anni del dialogo dalla “rinascita luterana” e dalla teologia della Parola di Dio di Karl Barth, è ora ritornata ai motivi della teologia liberale. Di conseguenza, costatiamo che, da parte protestante, quei fondamenti cristologici e trinitari che erano stati finora un presupposto comune vengono a volte diluiti. Ciò che ritenevamo essere il nostro patrimonio comune ha cominciato a sciogliersi qua e là come i ghiacciai nelle Alpi.
Ma ci sono anche forti controcorrenti sorte in reazione ai fenomeni sopra menzionati. Si riscontra in tutto il mondo una forte crescita di gruppi evangelicali, le cui posizioni coincidono perlopiù con le nostre nelle questioni dogmatiche fondamentali, soprattutto in campo etico, ma sono spesso molto divergenti per l’ecclesiologia, la teologia dei sacramenti, l’esegesi biblica e la comprensione della tradizione. Vi sono raggruppamenti di Chiesa alta che desiderano far valere nell’anglicanesimo e nel luteranesimo elementi della tradizione cattolica per ciò che riguarda la liturgia ed il ministero ecclesiale. A questi si aggiungono sempre più comunità monastiche che, vivendo spesso secondo la regola benedettina, si sentono vicine alla Chiesa cattolica. Inoltre, esistono comunità pietiste che, davanti alla crisi intorno alle questioni etiche, avvertono un certo disagio nelle Comunità ecclesiali protestanti; essi guardano con gratitudine alle chiare prese di posizione del Papa, che non molto tempo fa avevano apostrofato con toni meno benevoli.
Tutti questi gruppi, insieme alle comunità cattoliche di vita religiosa ed ai nuovi movimenti spirituali, hanno recentemente costituito “reti spirituali”, raggruppate spesso intorno a monasteri come Chevetogne, Bose e soprattutto Taizé ed anche in movimenti quali il movimento dei Focolari e Chemin neuf. In tal modo, possiamo dire che l’ecumenismo torna alle sue origini in piccoli gruppi di dialogo, di preghiera, di studio biblico. Recentemente questi gruppi hanno preso la parola anche pubblicamente, ad esempio nei grandi raduni dei movimenti a Stoccarda, nel 2004 e nel 2007. Emergono così, accanto ai dialoghi ufficiali diventati spesso più difficili, nuove forme di dialogo promettenti.
Questa panoramica generale ci mostra dunque che non esiste solamente un ravvicinamento ecumenico, ma che ci sono anche frammentazioni e forze centrifughe al lavoro. Se prendiamo in considerazione inoltre le numerose “Chiese” così dette indipendenti che continuano a sorgere soprattutto in Africa ed il proliferare di gruppuscoli spesso molto aggressivi, ci rendiamo conto che il paesaggio ecumenico è ora molto differenziato e confuso. Questo pluralismo non è altro che lo specchio della situazione pluralista della società così detta post-moderna, che spesso conduce ad un relativismo religioso.
Nel contesto attuale, particolarmente importanti sono pertanto incontri quali l’assemblea plenaria del Consiglio Ecumenico delle Chiese che ha avuto luogo il febbraio dello scorso anno a Porto Alegre (Brasile), il “Global Christian Forum” e l’“Assemblea ecumenica europea” tenutasi nel settembre del 2007 a Sibiu/Hermannstadt (Romania). Questi convegni vogliono riunire nel dialogo i vari gruppi divergenti e, per quanto possibile, tenere insieme il movimento ecumenico con le sue luci e le sue ombre e le sue nuove sfide in una situazione che è cambiata e sta tuttora cambiando rapidamente.
IV.
Parlare di pluralismo mi riconduce alla terza ondata della storia del cristianesimo, ovvero la diffusione dei gruppi carismatici e pentecostali, i quali, con circa 400 milioni di fedeli in tutto il mondo, sono al secondo posto tra le comunità cristiane in termini numerici e conoscono una crescita esponenziale. Privi di una struttura comune o di un organo centrale, essi sono tra loro molto diversi. Si considerano come il frutto di una nuova Pentecoste; di conseguenza, il Battesimo dello Spirito riveste per loro un ruolo fondamentale. Riferendosi a loro, papa Giovanni Paolo II aveva già fatto notare che questo fenomeno non deve essere considerato soltanto in modo negativo, poiché, al di là degli innegabili problemi, esso testimonia il desiderio di un’esperienza spirituale. Ciò non toglie che purtroppo molte di queste comunità sono nel frattempo diventate una religione che promette una felicità terrena.
Con i pentecostali classici è stato possibile intavolare un dialogo ufficiale. Con altri sussistono serie difficoltà a causa dei loro metodi missionari alquanto aggressivi. Il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, davanti a questa sfida, ha organizzato in vari continenti seminari per vescovi, teologi e laici attivi nell’ecumenismo: in America Latina (Sao Paolo e Buenos Aires), in Africa (Nairobi e Dakar), in Asia (Seoul e Manila). Il risultato di questi seminari traspare anche nel documento finale di Aparecida (2007) dell’assemblea generale dei vescovi latino-americani e caraibici. È innanzitutto necessario fare un esame di coscienza pastorale e chiederci in modo auto-critico: perché tanti cristiani lasciano la nostra Chiesa? Non dobbiamo cominciare col domandarci cosa è che non va nei pentecostali, ma quali sono le nostre carenze pastorali. Come possiamo reagire a questa nuova sfida con un rinnovamento liturgico, catechetico, pastorale e spirituale?
V.
Questa domanda ci conduce alla domanda conclusiva: in che modo proseguire il cammino ecumenico? Non è possibile dare un’unica risposta. La situazione è troppo diversa a seconda delle regioni geografiche, degli ambienti culturali, delle chiese locali. Sono le singole conferenze episcopali che dovranno assumersi le loro responsabilità.
In linea di principio dobbiamo partire dal comune patrimonio di fede e restare fedeli a ciò che con l’aiuto di Dio abbiamo già raggiunto ecumenicamente. Per quanto possibile dobbiamo dare una testimonianza comune di questa fede in un mondo sempre più secolarizzato. Ciò significa, nella situazione attuale, anche riscoprire e rafforzare i fondamenti di questa nostra fede. Di fatti, tutto vacilla e si svuota di senso se non abbiamo una fede salda e consapevole nel Dio vivente Trino e Unico, nella divinità di Cristo, nella forza salvifica della croce e della risurrezione. Per chi non sa più cosa è il peccato e cosa è il coinvolgimento nel peccato, la giustificazione del peccatore non ha nessuna rilevanza.
Soltanto poggiando sulla fede comune, è possibile dialogare su quelle che sono le nostre differenze. E ciò deve avvenire in modo chiaro ma non polemico. Non dobbiamo offendere la sensibilità degli altri o discreditarli; non dobbiamo puntare il dito su ciò che i nostri interlocutori ecumenici non sono e su ciò che essi non hanno. Piuttosto, dobbiamo dare testimonianza della ricchezza e della bellezza della nostra fede in modo positivo ed accogliente. Dagli altri ci aspettiamo lo stesso atteggiamento. Se questo accade, allora tra noi ed i nostri interlocutori potrà esserci, come dice l’enciclica “Ut unum sint” (1995), uno scambio non solo di idee ma di doni, che arricchiranno entrambi (UUS 28; 57). Tale ecumenismo di scambio non è un impoverimento, ma un arricchimento reciproco.
Nel dialogo fondato sullo scambio spirituale il dialogo teologico avrà anche nel futuro un ruolo essenziale. Però sarà fecondo solo se verrà sostenuto da un ecumenismo della preghiera, della conversione del cuore e della santificazione personale. L’ecumenismo spirituale è infatti l’anima stessa del movimento ecumenico (UR 8; UUS 21-27) e deve essere promosso da noi in prima linea. Senza una vera spiritualità di comunione, che permette di far spazio all’altro senza rinunciare alla propria identità, ogni nostro sforzo sfocerebbe in un arido e vuoto attivismo.
Se facciamo nostra la preghiera di Gesù pronunciata alla vigilia della sua morte, non dobbiamo perderci di coraggio e vacillare nella nostra fede. Come dice il Vangelo, dobbiamo essere fiduciosi che ciò che chiediamo nel nome di Cristo verrà esaudito (Giovanni 14,13). Quando, dove e come non saremo noi a deciderlo. Questo va lasciato a colui che è il Signore della Chiesa e che radunerà la sua Chiesa dai quattro venti. Noi dobbiamo accontentarci di fare del nostro meglio, riconoscendo con gratitudine i doni ricevuti, ovvero ciò che l’ecumenismo ha finora realizzato e guardare al futuro con speranza. Basta gettare con un minino di realismo uno sguardo ai “segni dei tempi” per comprendere che non c’è nessuna alternativa realistica all’ecumenismo, e soprattutto nessuna alternativa di fede.