Archive pour le 27 octobre, 2007

San Patrizio

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Molti popoli per la mia predicazione sono rinati al Signore

dal sito:  http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010316_patrizio_it.html 

San Patrizio,  

Molti popoli per la mia predicazione sono rinati al Signore

 « Renderò grazie al mio Dio senza mai stancarmi, perché mi ha conservato fedele nel giorno della prova, sicché oggi posso offrire in sacrificio come ostia vivente la mia vita a Cristo, mio Dio, che mi ha salvato da tutti i miei affanni. Gli dirò: Chi sono io, o Signore, o a quale vocazione mi hai tu chiamato per ricoprirmi di tanti favori? 

Oggi, dovunque mi trovo, mi posso rallegrare sempre e magnificare il tuo nome tra le genti non solo nella prosperità, ma anche nelle afflizioni. Qualunque cosa, buona o cattiva che sia, devo sempre accoglierla con animo sereno e rendere incessanti grazie a Dio, il quale mi ha fatto dono di una fede incrollabile in lui e mi darà ascolto. 


Ancora in questi ultimi giorni della mia vita, sto pensando se intraprendere un’opera veramente santa e meravigliosa; se imitare cioè quei santi di cui il Signore aveva già predetto che avrebbero annunziato il suo Vangelo « in testimonianza a tutte le genti », prima della fine del mondo. 

Da dove è venuta in me questa sapienza, che prima non avevo? Io non sapevo neppure contare i giorni, né ero capace di gustare Dio. Come mai dunque mi è stato dato un dono così grande, così salutare, come è quello di conoscere Dio e di amarlo? Chi mi ha dato la forza di abbandonare la patria e i genitori, di rifiutare gli onori che mi venivano offerti e di venire tra le gemi di Irlanda a predicare il Vangelo, sopportando gli oltraggi degli increduli e l’infamia dell’esilio, senza contare le numerose persecuzioni fino alle catene e al carcere? Così ho sacrificato la mia libertà per la salvezza degli altri! 

Se ne sarò degno sono pronto anche a dare, senza esitazione e molto volentieri, la mia vita per il suo nome. Se il Signore me ne farà la grazia, desidero consacrare tutte le mie forze a questa causa. Ho tanti debiti verso il Signore perché egli mi ha fatto il dono inestimabile di rigenerare in lui con la mia opera molti popoli e di portarli alla pienezza della vita cristiana. Per la sua grazia ho potuto ordinare in tutti i loro villaggi alcuni chierici, a cui affidare queste genti, venute da poco alla fede. 

Questo è veramente un popolo che il Signore ha chiamato a sé dagli estremi confini della terra, come aveva promesso anticamente, per mezzo dei profeti: « A te verranno i popoli dall’estremità della terra e diranno: i nostri padri ereditarono molte menzogne, vanità che non giovano a nulla » (Ger 16, 19). E ancora: Ti ho posto come luce per le genti, perché tu sia loro salvezza sino all’estremità della terra (cfr. Is 49, 6). Attendo il compimento della sua promessa. Egli, infatti, che non inganna mai alcuno, dice nel vangelo: « Verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe » (Mt 8, 11). Siamo certi perciò che i credenti verranno da ogni parte del mondo.«  

Dalla « Confessione » di san Patrizio, vescovo (Cap. 14-16; PL 53, 808-809) 

Orazione 

O Dio, che hai inviato ai popoli dell’Irlanda il vescovo san Patrizio come apostolo del Vangelo, per sua intercessione concedi alle nostre comunità di riscoprire il senso missionario della fede e di annunziare agli uomini le meraviglie del tuo amore. Per il nostro Signore. 

Biografia: 

Nato in Gran Bretagna verso il 385, ancor giovane fu portato prigioniero in Irlanda e mandato a pascolare le pecore. Riconquistata la libertà, volle essere ascritto fra i chierici. In seguito, eletto vescovo d’Irlanda, evangelizzò con grande zelo i popoli di quell’isola, convertendone molti alla fede. Ebbe grandissimi meriti nella istituzione della gerarchia ecclesiastica dell’isola. Morì presso Down nel 461. 

A cura dell’Istituto di Spiritualità: 
Pontificia Università S. Tommaso
 

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del 26.6.07, di Sandro Magister : Perché san Francesco « è un vero maestro » per i cristiani d’oggi

del 26.6.2007, dal sito: 

 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/150081 

 

 

Perché san Francesco « è un vero maestro » per i cristiani d’oggi

 E perché lo è anche sant’Agostino. Da Assisi e da Pavia, mete dei suoi due ultimi viaggi in Italia, Benedetto XVI propone come modelli i due grandi convertiti. E critica le loro moderne « mutilazioni »

di Sandro Magister 

 

ROMA, 20 giugno 2007 – I suoi due ultimi viaggi in Italia, a Pavia e ad Assisi, Benedetto XVI li ha dedicati a due santi di primissima grandezza e di eccezionale influenza nella storia della Chiesa: Agostino e Francesco.

E in entrambi i casi papa Joseph Ratzinger ha concentrato l’attenzione su un preciso momento della vita dei due santi: la conversione.

La conversione – ha spiegato il papa – è la svolta cruciale dell’esistenza d’ogni cristiano. In essa la vita di ciascun uomo prende forma nuova da Gesù Cristo al quale egli si affida. Da lì in avanti la sua vita si distingue per il suo essere segnata da Cristo.

Se quindi Francesco « è un vero maestro » nella ricerca della pace, nella salvaguardia della natura, nella promozione del dialogo tra tutti gli uomini, lo è in un modo unico, che non può essere mutilato: « lo è a partire da Cristo ».

E quindi lo « spirito di Assisi » non ha niente a che vedere con l’indifferentismo religioso, proprio perché la vita e il messaggio di Francesco « poggiano così visibilmente su Cristo »:

« Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo (cfr Giovanni 14,6), unico Salvatore del mondo ».

Già altre volte, in precedenza, Benedetto XVI aveva criticato gli « abusi  » e i « tradimenti » che a suo giudizio snaturano la figura esemplare di Francesco.

Ma domenica 17 giugno, ad Assisi, il papa è tornato a predicare in maniera più organica sulla persona del santo e in particolare sulla sua conversione, di cui nel 2007 ricorre l’ottavo centenario.

L’ha fatto soprattutto nell’omelia della messa. Come aveva fatto anche a Pavia domenica 22 aprile, ricordando sant’Agostino che è sepolto in quella città.

Ma anche negli altri discorsi della giornata trascorsa ad Assisi il papa ha insistito nel presentare il volto autentico del santo, respingendone i travisamenti. Ad esempio quando ha rivolto ai sacerdoti, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose della città questa raccomandazione:

« I milioni di pellegrini che passano per queste strade attirati dal carisma di Francesco, devono essere aiutati a cogliere il nucleo essenziale della vita cristiana ed a tendere alla sua ‘misura alta’, che è appunto la santità. Non basta che ammirino Francesco: attraverso di lui devono poter incontrare Cristo, per confessarlo e amarlo con ‘fede dritta, speranza certa e caritade perfetta’ (Preghiera di Francesco davanti al Crocifisso, 1: FF 276). I cristiani del nostro tempo si ritrovano sempre più spesso a fronteggiare la tendenza ad accettare un Cristo diminuito, ammirato nella sua umanità straordinaria, ma respinto nel mistero profondo della sua divinità. Lo stesso Francesco subisce una sorta di mutilazione, quando lo si tira in gioco come testimone di valori pur importanti, apprezzati dall’odierna cultura, ma dimenticando che la scelta profonda, potremmo dire il cuore della sua vita, è la scelta di Cristo. Ad Assisi, c’è bisogno più che mai di una linea pastorale di alto profilo. Occorre a tal fine che voi, sacerdoti e diaconi, e voi, persone di vita consacrata, sentiate fortemente il privilegio e la responsabilità di vivere in questo territorio di grazia. È vero che quanti passano per questa città, anche solo dalle sue ‘pietre’ e dalla sua storia ricevono un benefico messaggio. Ciò non esime da una proposta spirituale robusta, che aiuti anche ad affrontare le tante seduzioni del relativismo che caratterizza la cultura del nostro tempo ».

Ecco dunque qui di seguito le due omelie dedicate da Benedetto XVI ai due grandi convertiti Francesco e Agostino. Due omelie che sono espressione tipica della predicazione di questo papa, sempre strettamente legata alla liturgia del giorno:

1. La conversione di san Francesco

Assisi, 17 giugno 2007

Cari fratelli e sorelle, che cosa ci dice oggi il Signore, mentre celebriamo l’Eucaristia nel suggestivo scenario di questa piazza, in cui si raccolgono otto secoli di santità, di devozione, di arte e di cultura, legati al nome di Francesco di Assisi? Oggi tutto qui parla di conversione. [...] Parlare di conversione, significa andare al cuore del messaggio cristiano ed insieme alle radici dell’esistenza umana.

La Parola di Dio appena proclamata ci illumina, mettendoci davanti agli occhi tre figure di convertiti.

La prima è quella di Davide. Il brano che lo riguarda, tratto dal secondo Libro di Samuele, ci presenta uno dei colloqui più drammatici dell’Antico Testamento. Al centro di questo dialogo c’è un verdetto bruciante, con cui la Parola di Dio, proferita dal profeta Natan, mette a nudo un re giunto all’apice della sua fortuna politica, ma caduto pure al livello più basso della sua vita morale.

Per cogliere la tensione drammatica di questo dialogo, occorre tener presente l’orizzonte storico e teologico in cui esso si pone. È un orizzonte disegnato dalla vicenda di amore con cui Dio sceglie Israele come suo popolo, stabilendo con esso un’alleanza e preoccupandosi di assicurargli terra e libertà.

Davide è un anello di questa storia della continua premura di Dio per il suo popolo. Viene scelto in un momento difficile e posto a fianco del re Saul, per diventare poi suo successore. Il disegno di Dio riguarda anche la sua discendenza, legata al progetto messianico, che troverà in Cristo, « figlio di Davide », la sua piena realizzazione.

La figura di Davide è così immagine di grandezza storica e religiosa insieme. Tanto più contrasta con ciò l’abiezione in cui egli cade, quando, accecato dalla passione per Betsabea, la strappa al suo sposo, uno dei suoi più fedeli guerrieri, e di quest’ultimo ordina poi freddamente l’assassinio.

È cosa che fa rabbrividire: come può, un eletto di Dio, cadere tanto in basso? L’uomo è davvero grandezza e miseria: è grandezza perché porta in sé l’immagine di Dio ed è oggetto del suo amore; è miseria perché può fare cattivo uso della libertà che è il suo grande privilegio, finendo per mettersi contro il suo Creatore. Il verdetto di Dio, pronunciato da Natan su Davide, rischiara le intime fibre della coscienza, lì dove non contano gli eserciti, il potere, l’opinione pubblica, ma dove si è soli con Dio solo. « Tu sei quell’uomo »: è parola che inchioda Davide alle sue responsabilità.

Profondamente colpito da questa parola, il re sviluppa un pentimento sincero e si apre all’offerta della misericordia. Ecco il cammino della conversione.

Ad invitarci a questo cammino, accanto a Davide, si pone oggi Francesco.

Da quanto i biografi narrano dei suoi anni giovanili, nulla fa pensare a cadute così gravi come quella imputata all’antico re d’Israele. Ma lo stesso Francesco, nel Testamento redatto negli ultimi mesi della sua esistenza, guarda ai suoi primi venticinque anni come ad un tempo in cui « era nei peccati » (cfr 2 Test 1: FF 110).

Al di là delle singole manifestazioni, peccato era il suo concepire e organizzarsi una vita tutta centrata su di sé, inseguendo vani sogni di gloria terrena. Non gli mancava, quando era il « re delle feste » tra i giovani di Assisi (cfr 2 Cel I, 3, 7: FF 588), una naturale generosità d’animo. Ma questa era ancora ben lontana dall’amore cristiano che si dona senza riserve. Com’egli stesso ricorda, gli sembrava amaro vedere i lebbrosi. Il peccato gli impediva di dominare la ripugnanza fisica per riconoscere in loro altrettanti fratelli da amare.

La conversione lo portò ad esercitare misericordia e gli ottenne insieme misericordia. Servire i lebbrosi, fino a baciarli, non fu solo un gesto di filantropia, una conversione, per così dire, « sociale », ma una vera esperienza religiosa, comandata dall’iniziativa della grazia e dall’amore di Dio: « Il Signore – egli dice – mi condusse tra di loro » (2 Test 2: FF 110).

Fu allora che l’amarezza si mutò in « dolcezza di anima e di corpo » (2 Test 3: FF 110). Sì, miei cari fratelli e sorelle, convertirci all’amore è passare dall’amarezza alla « dolcezza », dalla tristezza alla gioia vera. L’uomo è veramente se stesso, e si realizza pienamente, nella misura in cui vive con Dio e di Dio, riconoscendolo e amandolo nei fratelli.

Nel brano della Lettera ai Galati, emerge un altro aspetto del cammino di conversione. A spiegarcelo è un altro grande convertito, l’apostolo Paolo.

Il contesto delle sue parole è il dibattito in cui la comunità primitiva si trovò coinvolta: in essa molti cristiani provenienti dal giudaismo tendevano a legare la salvezza al compimento delle opere dell’antica Legge, vanificando così la novità di Cristo e l’universalità del suo messaggio.

Paolo si erge come testimone e banditore della grazia. Sulla via di Damasco, il volto radioso e la voce forte di Cristo lo avevano strappato al suo zelo violento di persecutore e avevano acceso in lui il nuovo zelo del Crocifisso, che riconcilia i vicini ed i lontani nella sua croce (cfr Efesini 2,11-22). Paolo aveva capito che in Cristo tutta la legge è adempiuta e chi aderisce a Cristo si unisce a Lui, adempie la legge.

Portare Cristo, e con Cristo l’unico Dio, a tutte le genti era divenuta la sua missione. Cristo « infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro della separazione… » (Efesini 2,14). La sua personalissima confessione di amore esprime nello stesso tempo anche la comune essenza della vita cristiana: « Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2, 20b). E come si può rispondere a questo amore, se non abbracciando Cristo crocifisso, fino a vivere della sua stessa vita? « Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Galati 2, 20a).

Parlando del suo essere crocifisso con Cristo, san Paolo non solo accenna alla sua nuova nascita nel battesimo, ma a tutta la sua vita a servizio di Cristo. Questo nesso con la sua vita apostolica appare con chiarezza nelle parole conclusive della sua difesa della libertà cristiana alla fine della Lettera ai Galati: « D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo » (6,17).

È la prima volta, nella storia del cristianesimo, che appare la parola « stigmate di Gesù ». Nella disputa sul modo retto di vedere e di vivere il Vangelo, alla fine, non decidono gli argomenti del nostro pensiero; decide la realtà della vita, la comunione vissuta e sofferta con Gesù, non solo nelle idee o nelle parole, ma fin nel profondo dell’esistenza, coinvolgendo anche il corpo, la carne.

I lividi ricevuti in una lunga storia di passione sono la testimonianza della presenza della croce di Gesù nel corpo di San Paolo, sono le sue stigmate. Non è la circoncisione che lo salva: le stigmate sono la conseguenza del suo battesimo, l’espressione del suo morire con Gesù giorno per giorno, il segno sicuro del suo essere nuova creatura (cfr Galati 6,15). Paolo accenna, del resto, con l’applicazione della parola « stigmate »’, all’uso antico di imprimere sulla pelle dello schiavo il sigillo del suo proprietario. Il servo era così « stigmatizzato » come proprietà del suo padrone e stava sotto la sua protezione. Il segno della croce, iscritto in lunghe passioni sulla pelle di Paolo, è il suo vanto: lo legittima come vero servo di Gesù, protetto dall’amore del Signore.

Cari amici, Francesco di Assisi ci riconsegna oggi tutte queste parole di Paolo, con la forza della sua testimonianza.

Da quando il volto dei lebbrosi, amati per amore di Dio, gli fece intuire, in qualche modo, il mistero della « kenosi » (cfr Filippesi 2,7), l’abbassamento di Dio nella carne del Figlio dell’uomo, da quando poi la voce del Crocifisso di San Damiano gli mise in cuore il programma della sua vita: « Va, Francesco, ripara la mia casa » (2 Cel I, 6, 10: FF 593), il suo cammino non fu che lo sforzo quotidiano di immedesimarsi con Cristo.

Egli si innamorò di Cristo. Le piaghe del Crocifisso ferirono il suo cuore, prima di segnare il suo corpo sulla Verna. Egli poteva veramente dire con Paolo: « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me ».

E veniamo al cuore evangelico dell’odierna Parola di Dio. Gesù stesso, nel brano appena letto del Vangelo di Luca, ci spiega il dinamismo dell’autentica conversione, additandoci come modello la donna peccatrice riscattata dall’amore.

Si deve riconoscere che questa donna aveva osato tanto. Il suo modo di porsi di fronte a Gesù, bagnando di lacrime i suoi piedi e asciugandoli con i capelli, baciandoli e cospargendoli di olio profumato, era fatto per scandalizzare chi, a persone della sua condizione, guardava con l’occhio impietoso del giudice.

Impressiona, al contrario, la tenerezza con cui Gesù tratta questa donna, da tanti sfruttata e da tutti giudicata. Ella ha trovato finalmente in Gesù un occhio puro, un cuore capace di amare senza sfruttare. Nello sguardo e nel cuore di Gesù ella riceve la rivelazione di Dio-Amore!

A scanso di equivoci, è da notare che la misericordia di Gesù non si esprime mettendo tra parentesi la legge morale. Per Gesù, il bene è bene, il male è male. La misericordia non cambia i connotati del peccato, ma lo brucia in un fuoco di amore. Questo effetto purificante e sanante si realizza se c’è nell’uomo una corrispondenza di amore, che implica il riconoscimento della legge di Dio, il pentimento sincero, il proposito di una vita nuova. Alla peccatrice del Vangelo è molto perdonato, perché ha molto amato. In Gesù Dio viene a donarci amore e a chiederci amore.

Che cosa è stata, miei cari fratelli e sorelle, la vita di Francesco convertito se non un grande atto d’amore? Lo rivelano le sue preghiere infuocate, ricche di contemplazione e di lode, il suo tenero abbraccio del Bimbo divino a Greccio, la sua contemplazione della passione alla Verna, il suo « vivere secondo la forma del santo Vangelo » (2 Test 14: FF 116), la sua scelta della povertà e il suo cercare Cristo nel volto dei poveri.

È questa sua conversione a Cristo, fino al desiderio di « trasformarsi » in Lui, diventandone un’immagine compiuta, che spiega quel suo tipico vissuto, in virtù del quale egli ci appare così attuale anche rispetto a grandi temi del nostro tempo, quali la ricerca della pace, la salvaguardia della natura, la promozione del dialogo tra tutti gli uomini.

Francesco è un vero maestro in queste cose. Ma lo è a partire da Cristo. È Cristo, infatti, « la nostra pace » (cfr Efesini 2,14). È Cristo il principio stesso del cosmo, giacché in lui tutto è stato fatto (cfr Giovanni 1,3). È Cristo la verità divina, l’eterno « Logos », in cui ogni « dia-logos » nel tempo trova il suo ultimo fondamento. Francesco incarna profondamente questa verità « cristologica » che è alle radici dell’esistenza umana, del cosmo, della storia.

Non posso dimenticare, nell’odierno contesto, l’iniziativa del mio predecessore di santa memoria, Giovanni Paolo II, il quale volle riunire qui, nel 1986, i rappresentanti delle confessioni cristiane e delle diverse religioni del mondo, per un incontro di preghiera per la pace. Fu un’intuizione profetica e un momento di grazia, come ho ribadito alcuni mesi or sono nella mia lettera al vescovo di questa Città in occasione del ventesimo anniversario di quell’evento.

La scelta di celebrare quell’incontro ad Assisi era suggerita proprio dalla testimonianza di Francesco come uomo di pace, al quale tanti guardano con simpatia anche da altre posizioni culturali e religiose. Al tempo stesso, la luce del Poverello su quell’iniziativa era una garanzia di autenticità cristiana, giacché la sua vita e il suo messaggio poggiano così visibilmente sulla scelta di Cristo, da respingere a priori qualunque tentazione di indifferentismo religioso, che nulla avrebbe a che vedere con l’autentico dialogo interreligioso.

Lo « spirito di Assisi », che da quell’evento continua a diffondersi nel mondo, si oppone allo spirito di violenza, all’abuso della religione come pretesto per la violenza. Assisi ci dice che la fedeltà alla propria convinzione religiosa, la fedeltà soprattutto a Cristo crocifisso e risorto non si esprime in violenza e intolleranza, ma nel sincero rispetto dell’altro, nel dialogo, in un annuncio che fa appello alla libertà e alla ragione, nell’impegno per la pace e per la riconciliazione. Non potrebbe essere atteggiamento evangelico, né francescano, il non riuscire a coniugare l’accoglienza, il dialogo e il rispetto per tutti con la certezza di fede che ogni cristiano, al pari del Santo di Assisi, è tenuto a coltivare, annunciando Cristo come via, verità e vita dell’uomo (cfr Giovanni 14,6), unico Salvatore del mondo.

Francesco di Assisi ottenga a questa Chiesa particolare, alle Chiese che sono in Umbria, a tutta la Chiesa che è in Italia, della quale egli, insieme con Santa Caterina da Siena, è patrono, ai tanti che nel mondo si richiamano a lui, la grazia di una autentica e piena conversione all’amore di Cristo.

2. La conversione di sant’Agostino

Pavia, 22 aprile 2007

Cari fratelli e sorelle, [...] nel tempo pasquale la Chiesa ci presenta, domenica per domenica, qualche brano della predicazione con cui gli Apostoli, in particolare Pietro, dopo la Pasqua invitavano Israele alla fede in Gesù Cristo, il Risorto, fondando così la Chiesa.

Nell’odierna lettura gli Apostoli stanno davanti al Sinedrio, davanti a quell’istituzione che, avendo dichiarato Gesù reo di morte, non poteva tollerare che questo Gesù, mediante la predicazione degli Apostoli, ora cominciasse ad operare nuovamente; non poteva tollerare che la sua forza risanatrice si facesse di nuovo presente e intorno a questo nome si raccogliessero persone che credevano in Lui come nel Redentore promesso.

Gli Apostoli vengono accusati. Il rimprovero è: « Volete far ricadere su di noi il sangue di quell’uomo ».

A questa accusa Pietro risponde con una breve catechesi sull’essenza della fede cristiana: « No, non vogliamo far ricadere il suo sangue su di voi. L’effetto della morte e risurrezione di Gesù è totalmente diverso. Dio lo ha fatto « capo e salvatore » per tutti, proprio anche per voi, per il suo popolo d’Israele ». E dove conduce questo « capo », che cosa porta questo « salvatore »?

Egli, così ci dice San Pietro, conduce alla conversione, crea lo spazio e la possibilità di ravvedersi, di pentirsi, di ricominciare. Ed Egli dona il perdono dei peccati, ci introduce nel giusto rapporto con Dio e così nel giusto rapporto di ognuno con se stesso e con gli altri.

Questa breve catechesi di Pietro non valeva solo per il Sinedrio. Essa parla a tutti noi. Poiché Gesù, il Risorto, vive anche oggi. E per tutte le generazioni, per tutti gli uomini Egli è il « capo » che precede sulla via, mostra la via e il « salvatore » che rende la nostra vita giusta.

Le due parole « conversione » e « perdono dei peccati », corrispondenti ai due titoli di Cristo « capo », archegòs in greco, e « salvatore », sono le parole-chiave della catechesi di Pietro, parole che in quest’ora vogliono raggiungere anche il nostro cuore. E che cosa vogliono dire?

Il cammino che dobbiamo fare, il cammino che Gesù ci indica, si chiama « conversione ». Ma che cosa è? Che cosa bisogna fare? In ogni vita la conversione ha la sua forma propria, perché ogni uomo è qualcosa di nuovo e nessuno è soltanto la copia di un altro.

Ma nel corso della storia della cristianità il Signore ci ha mandato modelli di conversione, guardando ai quali possiamo trovare orientamento. Potremmo per questo guardare a Pietro stesso, a cui il Signore nel cenacolo aveva detto: « Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli » (Luca 22, 32). Potremmo guardare a Paolo come a un grande convertito.

La città di Pavia parla di uno dei più grandi convertiti della storia della Chiesa: sant’Aurelio Agostino. Egli morì il 28 agosto del 430 nella città portuale di Ippona, in Africa, allora circondata ed assediata dai Vandali.

Dopo parecchia confusione di una storia agitata, il re dei Longobardi acquistò le sue spoglie per la città di Pavia, cosicché ora egli appartiene in modo particolare a questa città ed in essa e da essa parla a tutti noi, all’umanità, ma particolarmente a tutti noi qui in maniera speciale.

Nel suo libro « Le Confessioni », Agostino ha illustrato in modo toccante il cammino della sua conversione, che col Battesimo amministratogli dal vescovo Ambrogio nel duomo di Milano aveva raggiunto la sua meta.

Chi legge « Le Confessioni » può condividere il cammino che Agostino in una lunga lotta interiore dovette percorrere per ricevere finalmente, nella notte di Pasqua del 387, al fonte battesimale il sacramento che segnò la grande svolta della sua vita.

Seguendo attentamente il corso della vita di sant’Agostino, si può vedere che la conversione non fu un evento di un unico momento, ma appunto un cammino. E si può vedere che al fonte battesimale questo cammino non era ancora terminato.

Come prima del Battesimo, così anche dopo di esso la vita di Agostino è rimasta, pur in modo diverso, un cammino di conversione, fin nella sua ultima malattia, quando fece applicare alla parete i Salmi penitenziali per averli sempre davanti agli occhi; quando si autoescluse dal ricevere l’Eucaristia per ripercorrere ancora una volta la via della penitenza e ricevere la salvezza dalle mani di Cristo come dono delle misericordie di Dio.

Così possiamo giustamente parlare delle « conversioni » di Agostino che, di fatto, sono state un’unica grande conversione nella ricerca del Volto di Cristo e poi nel camminare insieme con Lui.

Vorrei parlare brevemente di tre grandi tappe in questo cammino di conversione, di tre « conversioni ».

La prima conversione fondamentale fu il cammino interiore verso il cristianesimo, verso il « sì » della fede e del Battesimo. Quale fu l’aspetto essenziale di questo cammino?

Agostino, da una parte, era figlio del suo tempo, condizionato profondamente dalle abitudini e dalle passioni in esso dominanti, come anche da tutte le domande e i problemi di un uomo giovane. Viveva come tutti gli altri, e tuttavia c’era in lui qualcosa di diverso: egli rimase sempre una persona in ricerca. Non si accontentò mai della vita così come essa si presentava e come tutti la vivevano.

Era sempre tormentato dalla questione della verità. Voleva trovare la verità. Voleva riuscire a sapere che cosa è l’uomo; da dove proviene il mondo; di dove veniamo noi stessi, dove andiamo e come possiamo trovare la vita vera.

Voleva trovare la retta vita e non semplicemente vivere ciecamente senza senso e senza meta. La passione per la verità è la vera parola-chiave della sua vita. La passione per la verità realmente lo ha guidato.

E c’è ancora una peculiarità. Tutto ciò che non portava il nome di Cristo, non gli bastava. L’amore per questo nome – ci dice – lo aveva bevuto col latte materno (cfr Conf 3, 4, 8). E sempre aveva creduto – a volte piuttosto vagamente, a volte più chiaramente – che Dio esiste e che Egli si prende cura di noi (cfr Conf 6, 5, 8).

Ma conoscere veramente questo Dio e familiarizzare davvero con quel Gesù Cristo e arrivare a dire « sì » a Lui con tutte le conseguenze, questa era la grande lotta interiore dei suoi anni giovanili.

Egli ci racconta che, per il tramite della filosofia platonica, aveva appreso e riconosciuto che « in principio era il Verbo », il Logos, la ragione creatrice. Ma la filosofia, che gli mostrava che il principio di tutto è la ragione creatrice, questa stessa filosofia non gli indicava alcuna via per raggiungerlo; questo Logos rimaneva lontano e intangibile.

Solo nella fede della Chiesa trovò poi la seconda verità essenziale: il Verbo, il Logos, si è fatto carne.

E così esso ci tocca, noi lo tocchiamo. All’umiltà dell’incarnazione di Dio deve corrispondere – questo è il grande passo – l’umiltà della nostra fede, che depone la superbia saccente e si china entrando a far parte della comunità del corpo di Cristo; che vive con la Chiesa e solo così entra nella comunione concreta, anzi corporea, con il Dio vivente.

Non devo dire quanto tutto ciò riguardi noi: rimanere persone che cercano, non accontentarsi di ciò che tutti dicono e fanno. Non distogliere lo sguardo dal Dio eterno e da Gesù Cristo. Imparare l’umiltà della fede nella Chiesa corporea di Gesù Cristo, del Logos incarnato.

La sua seconda conversione Agostino ce la descrive alla fine del decimo libro delle sue « Confessioni » con le parole: « Oppresso dai miei peccati e dal peso della mia miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato una fuga nella solitudine. Tu, però, me lo impedisti, confortandomi con queste parole: « Cristo è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto per tutti »" (2 Cor 5, 15; Conf 10, 43, 70).

Che cosa era successo? Dopo il suo Battesimo, Agostino si era deciso a ritornare in Africa e lì aveva fondato, insieme con i suoi amici, un piccolo monastero. Ora la sua vita doveva essere dedita totalmente al colloquio con Dio e alla riflessione e contemplazione della bellezza e della verità della sua Parola.

Così egli passò tre anni felici, nei quali si credeva arrivato alla meta della sua vita; in quel periodo nacque una serie di preziose opere filosofico-teologiche.

Nel 391, quattro anni dopo il battesimo, egli andò a trovare nella città portuale di Ippona un amico, che voleva conquistare per il suo monastero. Ma nella liturgia domenicale, alla quale partecipò nella cattedrale, venne riconosciuto.

Il vescovo della città, un uomo di provenienza greca, che non parlava bene il latino e faceva fatica a predicare, nella sua omelia non a caso disse di aver l’intenzione di scegliere un sacerdote al quale affidare anche il compito della predicazione.

Immediatamente la gente afferrò Agostino e lo portò di forza avanti, perché venisse consacrato sacerdote a servizio della città.

Subito dopo questa sua consacrazione forzata, Agostino scrisse al Vescovo Valerio: « Mi sentivo come uno che non sa tenere il remo e a cui, tuttavia, è stato assegnato il secondo posto al timone… E di qui derivavano quelle lacrime che alcuni fratelli mi videro versare in città al tempo della mia ordinazione » (cfr Ep 21, 1s).

Il bel sogno della vita contemplativa era svanito, la vita di Agostino ne risultava fondamentalmente cambiata. Ora non poteva più dedicarsi solo alla meditazione nella solitudine. Doveva vivere con Cristo per tutti. Doveva tradurre le sue conoscenze e i suoi pensieri sublimi nel pensiero e nel linguaggio della gente semplice della sua città. La grande opera filosofica di tutta una vita, che aveva sognato, restò non scritta.

Al suo posto ci venne donata una cosa più preziosa: il Vangelo tradotto nel linguaggio della vita quotidiana e delle sue sofferenze. Ciò che ora costituiva la sua quotidianità, lo ha descritto così: « Correggere gli indisciplinati, confortare i pusillanimi, sostenere i deboli, confutare gli oppositori… stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tollerare i cattivi e amare tutti » (cfr Serm 340, 3). « Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica » (Serm 339, 4).

Fu questa la seconda conversione che quest’uomo, lottando e soffrendo, dovette continuamente realizzare: sempre di nuovo essere lì per tutti, non per la propria perfezione; sempre di nuovo, insieme con Cristo, donare la propria vita, affinché gli altri potessero trovare Lui, la vera Vita.

C’è ancora una terza tappa decisiva nel cammino di conversione di sant’Agostino. Dopo la sua ordinazione sacerdotale, egli aveva chiesto un periodo di vacanza per poter studiare più a fondo le Sacre Scritture.

Il suo primo ciclo di omelie, dopo questa pausa di riflessione, riguardò il Discorso della Montagna; vi spiegava la via della retta vita, « della vita perfetta » indicata in modo nuovo da Cristo; la presentava come un pellegrinaggio sul monte santo della Parola di Dio. In queste omelie si può percepire ancora tutto l’entusiasmo della fede appena trovata e vissuta: la ferma convinzione che il battezzato, vivendo totalmente secondo il messaggio di Cristo, può essere, appunto, « perfetto » secondo il Sermone della Montagna.

Circa vent’anni dopo, Agostino scrisse un libro intitolato « Le Ritrattazioni », in cui passa in rassegna in modo critico le sue opere redatte fino a quel momento, apportando correzioni laddove, nel frattempo, aveva appreso cose nuove.

Riguardo all’ideale della perfezione nelle sue omelie sul Discorso della Montagna annota: « Nel frattempo ho compreso che uno solo è veramente perfetto e che le parole del Discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli Apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (cfr Retract. I 19, 1-3).

Agostino aveva appreso un ultimo grado di umiltà: non soltanto l’umiltà di inserire il suo grande pensiero nella fede umile della Chiesa, non solo l’umiltà di tradurre le sue grandi conoscenze nella semplicità dell’annuncio, ma anche l’umiltà di riconoscere che a lui stesso e all’intera Chiesa peregrinante era ed è continuamente necessaria la bontà misericordiosa di un Dio che perdona ogni giorno.

E noi – aggiungeva – ci rendiamo simili a Cristo, l’unico Perfetto, nella misura più grande possibile, quando diventiamo come Lui persone di misericordia.

In quest’ora ringraziamo Dio per la grande luce che si irradia dalla sapienza e dall’umiltà di sant’Agostino e preghiamo il Signore affinché doni a tutti noi, giorno per giorno, la conversione necessaria e così ci conduca verso la vera vita. Amen. 

Publié dans:Sandro Magister |on 27 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

“Adesso si mostra”: Le Quarantore

dal sito del giornale « 30giorni »: 

“Adesso si mostra” 

Le Quarantore: una tradizione che è stata per secoli, insieme alla festa del Corpus Domini, la più importante espressionedi pietà popolare verso l’Eucaristia nella vita della Chiesa. I ricordi dei cardinali Fiorenzo Angelini e Giovanni Canestri 

di Giovanni Ricciardi 

 Quando, prima del Concilio, non esisteva ancora la messa vespertina, nelle chiese, alla sera, vi era la cosiddetta “funzione”: rosario, esposizione del Santissimo, benedizione eucaristica. La vita delle parrocchie era scandita tutti i giorni da questo momento di adorazione. Ma il culto eucaristico nel corso dell’anno toccava il suo culmine con la celebrazione delle “Quarantore”.
      Oggi, almeno ai più giovani, questo nome potrebbe non dire nulla o quasi. Ricorderà forse qualcuno una scena del film di Luigi Magni, State buoni se potete, in cui san Filippo Neri fa inginocchiare i bambini dell’Oratorio davanti al Santissimo dando inizio a questa solenne e prolungata esposizione dell’Eucaristia – poteva durare quaranta ore di seguito, notte e giorno, o, più normalmente, tre giorni consecutivi dal mattino alla sera – che per secoli ha rappresentato un momento fondamentale della pietà cristiana. Ed è vero che Filippo fu a Roma uno dei più instancabili propagatori di questa pratica.
      Le origini delle Quarantore vanno però cercate in quel di Milano, nel decennio tra il 1527 e il 1537. Erano in uso, anche prima d’allora, forme particolari di preghiera e digiuno che si praticavano soprattutto durante la Settimana Santa, dal giovedì al sabato, in ricordo delle quaranta ore trascorse da Gesù nel sepolcro, secondo un computo che si fa risalire a sant’Agostino. Ma negli anni del terribile Sacco di Roma, sotto la minaccia della guerra e della peste, queste pratiche furono celebrate anche in altri momenti dell’anno, finché nel 1534 l’eremita fra Buono da Cremona chiese e ottenne l’autorizzazione a unire alla preghiera delle Quarantore l’esposizione ininterrotta del Santissimo. Tre anni dopo, l’idea fu ripresa da sant’Antonio Maria Zaccaria, fondatore dei Barnabiti, che propose di esporre in questa forma l’Eucaristia in Duomo e poi, a turno, in tutte le chiese di Milano. L’approvazione di papa Paolo III, con il breve del 28 agosto 1537, ebbe l’effetto di propagare rapidamente la pratica in tutta Italia, soprattutto grazie all’opera dei cappuccini, prima, e poi dei gesuiti. Le Quarantore approdarono a Roma nel 1548 e furono sempre più raccomandate dai pontefici, fino all’enciclica Graves et diuturnae con cui Clemente VIII, nel 1592, esortò il popolo a celebrarle in tutte le chiese della città per scongiurare le guerre di religione che allora divampavano in Francia. La volontà di rendere il più possibile festoso e solenne il momento portò alla realizzazione di vere e proprie “scenografie” progettate per l’esposizione del Santissimo, che ebbero non poca influenza per il successivo sviluppo dell’arte barocca.
      Ma non occorre tornare indietro fino alla Roma di “Pippo bono” per trovare testimonianze di una tradizione che è stata per secoli nella vita della Chiesa, insieme alla festa del Corpus Domini, la più importante espressione di pietà popolare verso l’Eucaristia. Dall’Italia le Quarantore si diffusero rapidamente in tutta Europa, per approdare anche negli Stati Uniti alla metà dell’Ottocento. La tradizione si è mantenuta assai viva fino al secondo dopoguerra e agli anni del Concilio, perdendo poi d’importanza, ma senza mai scomparire del tutto. Ne abbiamo parlato con due membri del Sacro Collegio profondamente legati a Roma, il primo per nascita, Fiorenzo Angelini, il secondo per “adozione”, Giovanni Canestri. E questo perché, ricorda il cardinale Canestri, «le Quarantore a Roma sono sempre state vissute, molto più che altrove, con particolare intensità e fervore».


 
Giovanni Canestri: «La struttura era semplice. Si cominciava al mattino con una messa solenne al termine della quale si esponeva l’Eucaristia che rimaneva ininterrottamente sull’altare fino alla conclusione, altrettanto solenne. Spesso, alla sera, s’invitava un predicatore a parlare al popolo e i sacerdoti erano a disposizione per confessare. Era un momento in cui la vita spirituale della parrocchia si rinnovava. Era un grande aiuto per tutti»   
 

      «Il ricordo delle Quarantore mi riporta a uno dei momenti più belli e difficili della mia vita sacerdotale, quello della guerra» racconta Canestri. «Nel 1941 fui assegnato come viceparroco alla parrocchia di San Giovanni Battista de Rossi, sulla via Appia. Il parroco, don Marcello, un romano verace, di piazza Fontana di Trevi, vi aveva già introdotto con grande fervore questa tradizione, che egli aveva a cuore dal tempo in cui, bambino, la mamma lo portava a fare visita al Santissimo in quella speciale occasione. E io stesso vi sono rimasto legato, anche quando divenni parroco alla borgata Ottavia e poi a Casalbertone». Gli chiediamo come si svolgesse questa pratica: «La struttura era semplice. Si cominciava al mattino con una messa solenne al termine della quale si esponeva l’Eucaristia che rimaneva ininterrottamente sull’altare fino alla conclusione, altrettanto solenne. Spesso, alla sera, s’invitava un predicatore a parlare al popolo e i sacerdoti erano a disposizione per confessare. Era un momento in cui la vita spirituale della parrocchia si rinnovava. Era un grande aiuto per tutti». La tradizione, ricorda ancora monsignor Canestri, coinvolgeva l’intera città per tutto il corso dell’anno: «C’era una vera e propria organizzazione a livello diocesano. Ogni chiesa aveva il proprio turno. In molte chiese di Roma erano affissi i manifesti che esponevano il calendario annuale delle Quarantore nelle varie parrocchie. La parte del leone la facevano le chiese del centro, dove l’esposizione era ininterrotta e durava anche la notte, mentre da noi, ad esempio, la chiesa chiudeva alle nove. C’erano associazioni di fedeli, confraternite e gruppi che facevano a gara per assicurare la presenza davanti a Gesù Eucaristia a ogni ora. Gli altari e i banchi erano addobbati per l’occasione ed esistevano libretti in italiano per favorire la meditazione personale e la preghiera comunitaria davanti al Santissimo. Furono anni molto belli. Allora mi interessavo dei ragazzi e vedevo le mamme che impallidivano per non lasciare mancare il necessario ai figli. La chiesa si riempiva. Don Marcello aiutava la gente del quartiere in un modo straordinario. In certi periodi distribuivamo 8mila minestre al giorno. Quando si cominciò a stare meglio, cercai di organizzare una festa in onore del parroco, per ringraziarlo a nome di tutti del bene compiuto. Non l’avessi mai pensato… si arrabbiò moltissimo! “Queste cose a Roma non si fanno”, mi disse. “Fai del bene e poi scordatene”. Non c’era bisogno di parole, bastavano i gesti, come quando si esponeva l’Eucaristia, era la stessa cosa. Bastava mettere qualche giorno prima delle tovaglie bianche, speciali, e tirare fuori quel bell’ostensorio di legno che don Marcello aveva fatto scolpire dai maestri della Val Gardena. Questo era tutto. Poi vennero altri problemi. Dopo la guerra incominciò la fuga dei romani dal centro e questo indebolì la pratica delle Quarantore, che, come ho detto, aveva nel centro della città il suo punto di forza. E anche l’organizzazione diocesana venne gradualmente meno». Gli chiediamo se ci siano stati anche altri motivi che hanno portato a trascurare questa devozione: «Forse, a poco a poco è prevalsa l’idea che per fare pastorale occorrano tante parole. Ma non è così. Il giorno in cui arrivarono gli alleati a Roma era una domenica di giugno. Avevamo l’orecchio teso alle notizie della radio. A un certo punto, si sparse la notizia che gli americani erano già a Ciampino. In quel momento, suona il telefono. C’era un ammalato, sull’Appia, che chiedeva un sacerdote. Sono uscito di fretta, ho cercato di sbrigarmi. Ma avevo letto un libro in cui si diceva che non è conveniente dire all’ammalato subito: “Vuoi confessarti?”. E allora entro in questa casa, faccio un lungo giro di parole, racconto dei grandi avvenimenti di quelle ore. Ricorderò sempre questo vecchio grave ma limpido, che mi guardava perplesso. A un certo punto, ha sbottato: “Ma che m’importa a me dell’alleati? Me voglio confessa’!”. Avevo venticinque anni, ma quella lezione non l’ho mai più dimenticata. È il sacramento che conta. Le Quarantore suggerivano questo».

 
  Fiorenzo Angelini: «Erano uno dei momenti centrali nella vita spirituale della gente. C’erano delle punte alte di spiritualità, anche molto popolare; ci potevi trovare delle persone incolte, ma non ignoranti. Mia madre, per esempio, che certamente non sapeva niente di teologia, ma ragionava molto più di me. Ogni sera, nelle parrocchie di Roma, quando c’era la benedizione e suonavano le campane, lei mi diceva: “Adesso si mostra!”. E si fermava, qualunque cosa stesse facendo» 
 

      «Ricordo ancora con commozione» fa eco il cardinale Angelini «quando ero al Seminario romano e andavamo con i compagni alle Quarantore a San Giovanni, assicurando soprattutto i turni di adorazione notturna. Le Quarantore erano uno dei momenti centrali nella vita spirituale della gente, ed erano come un prolungamento più solenne della “funzione” serale quotidiana. Queste celebrazioni erano come degli iceberg, in cui c’erano delle punte alte di spiritualità, anche popolare, molto popolare; ci potevi facilmente trovare delle persone incolte, ma non ignoranti. Mia madre, per esempio, che certamente non sapeva niente di teologia, ma ragionava molto più di me. Ogni sera, nelle parrocchie di Roma, quando c’era la benedizione e suonavano le campane, lei mi diceva: “Adesso si mostra!”. E si fermava, qualunque cosa stesse facendo».
      «Sarebbe bello riproporre oggi le Quarantore» aggiunge il cardinale Angelini «e che i vescovi le sostenessero. In realtà si sente il bisogno di avere, nelle nostre città rumorose, delle oasi di spiritualità. Ad esempio, ci sono alcune chiese a Roma, come la cappella di San Marco a piazza Venezia, o San Claudio a piazza San Silvestro, o ancora Sant’Anastasia al Palatino, in cui l’esperienza dell’adorazione perpetua ha una risposta assai positiva, e sono sempre molto frequentate».
      Ma la forma stessa delle Quarantore, come accennavamo, non è completamente scomparsa, perlomeno in Italia. Il cardinale arciprete di Santa Maria Maggiore a Roma, Francis Bernard Law, le ripropone da qualche anno nella Basilica Liberiana. Ma basta anche solo cercare su internet per accorgersi delle tante parrocchie, soprattutto nella provincia italiana, che ancora le celebrano; o di iniziative su scala nazionale, come quella che da qualche anno è promossa dall’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre, che a marzo ha riproposto le Quarantore “per la Chiesa che soffre” in quaranta località italiane, tra cui Roma e Milano, in collaborazione con altrettante comunità parrocchiali. Lo scorso marzo a Foggia, durante una missione popolare, le Quarantore sono state riproposte pubblicamente: è stato allestito un grande tendone in una delle piazze più importanti della città e la gente è stata invitata a entrare e a fermarsi a pregare davanti all’Eucarestia. L’allestimento “volante” richiamava – forse senza volerlo – proprio l’antica usanza della Roma seicentesca di creare scenografie apposite in occasione delle Quarantore, alcune delle quali furono progettate da artisti del calibro di Gian Lorenzo Bernini.
      Anche la popolare parrocchia di San Luca a Roma, lo scorso aprile, ha dato vita alle Quarantore, organizzate dal movimento “Pro Sanctitate” fondato da monsignor Giaquinta. E non è un caso che questa realtà ecclesiale sia legata proprio a questa forma di adorazione. Sono le consacrate della “Pro sanctitate” infatti a custodire, nel cuore di Roma, in via dei Serpenti, la casa in cui morì, il 16 aprile del 1783, Benedetto Giuseppe Labre, il santo mendicante e pellegrino, sepolto oggi nel vicino santuario della Madonna dei Monti, che aveva fatto delle Quarantore lo strumento privilegiato della sua santificazione: «Non v’era lontananza di luogo» scriveva il suo confessore, padre Marconi, «non piogge sì dirotte, non freddo sì crudo, non caldo sì eccessivo che lo potesse trattenere, benché egli andasse mal coperto nel capo, mal vestito e mal difeso nei piedi. Passava egli intere giornate genuflesso davanti al Suo altare. La sua devozione verso Gesù sacramentato non è possibile a esprimersi. Questa fu quella che gli meritò il nome con cui veniva chiamato da quei che lo conoscevano: il povero delle Quarantore, per vederlo così assiduo nelle chiese ove il Santissimo Sacramento era esposto alla pubblica venerazione».
 

Publié dans:Approfondimenti |on 27 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

buona notte

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Purple Bells

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 27 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

Rispondere alla chiamata di Dio alla conversione

Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Le confessioni, libro 8

Rispondere alla chiamata di Dio alla conversione

A trattenermi erano le frivolezze delle frivolezze, le vanità delle vanità, antiche amiche mie, che mi tiravano di sotto la veste di carne e sussurravano a bassa voce: « Tu ci congedi ? Da questo momento non saremo più con te eternamente, e non ti sarà più concesso di fare questo e quell’altro eternamente ». E quali cose non mi suggerivano?… Così mi attardavano, poiché indugiavo a staccarmi e scuotermi da esse per balzare ove tu mi chiamavi. L’abitudine, tenace, mi diceva: « Pensi di poterne fare a meno? » Ma la sua voce era ormai debolissima. Dalla parte ove avevo rivolto il viso, pur temendo a passarvi, mi si svelava la casta maestà della continenza, limpida, sorridente, invitante con verecondia a raggiungerla senza esitare, protese le pie mani verso di me per ricevermi e stringermi, ricolme di una frotta di buoni esempi… « Il Signore Dio loro mi diede ad essi. Perché ti reggi, e non ti reggi, su di te? Gèttati in lui senza timore. Non si tirerà indietro per farti cadere. Gèttati tranquillo, egli ti accoglierà e ti guarirà »…
Questa disputa avveniva nel mio cuore, era di me stesso contro me stesso solo… Quando dal più segreto fondo della mia anima l’alta meditazione ebbe tratto e ammassato tutta la mia miseria davanti agli occhi del mio cuore, scoppiò una tempesta ingente, grondante un’ingente pioggia di lacrime. Per scaricarla tutta con i suoi strepiti mi alzai e mi allontanai… Io mi gettai disteso, non so come, sotto una pianta di fico e diedi libero corso alle lacrime. Dilagarono i fiumi dei miei occhi, sacrificio gradevole per te, e ti parlai a lungo, se non in questi termini, in questo senso: « E tu, Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore, sarai irritato fino alla fine? Dimentica le nostre passate iniquità » (Sal 6,4; 78,5)… Lanciavo grida disperate: « Per quanto tempo, per quanto tempo il « domani e domani »? Perché non subito, perché non in quest’ora ? » …
A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo più volte: « Prendi e leggi, prendi e leggi ». Mutai d’aspetto all’istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna parte. Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L’unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato… Così tornai concitato al luogo dove avevo lasciato il libro dell’Apostolo all’atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: « Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze » (Rm 13,13s). Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 27 octobre, 2007 |Pas de commentaires »

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