oggi (mf) dei Santi Martiri Canadesi oltre che di San Paolo della Croce

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I filosofi senza idee smontano la verità
Riscoprire la legge naturale e divina che ha costituito il fondamento della civiltà cristiana, é il vaccino consigliato da Roberto de Mattei nel suo ultimo libro La dittatura del relativismo, per combattere la malattia filosofica del nostro tempo: il relativismo intellettuale e morale…
di Maurizio Schoepflin
«La più grande malattia filosofica del nostro tempo è costituita dal relativismo intellettuale e dal relativismo morale, il secondo dei quali trova, almeno in parte, nel primo il proprio fondamento. Per relativismo o, se si preferisce, scetticismo – intendo, in sostanza, la teoria secondo la quale la scelta fra teorie concorrenti è arbitraria; ed è arbitraria perché non esiste alcunché che si possa considerare come verità obiettiva; ovvero, anche se esiste, non c’è alcuna teoria che si possa considerare come vera o comunque (anche se non vera) più vicina alla verità di un’altra; ovvero, se ci troviamo di fronte a due o più teorie, non abbiamo alcun modo o mezzo di decidere se una di esse è migliore dell’altra»: queste considerazioni si trovano nel secondo volume dell’opera « La società aperta e i suoi nemici« , pubblicata da Karl Raimund Popper nel 1945, e fa indubbiamente una certa impressione che a definire il relativismo « la più grande malattia filosofica del nostro tempo » non sia Benedetto XVI, bensì un laicissimo filosofo passato alla storia non certo per la sua assidua partecipazione a tridui di preghiera e processioni. Sembra pertanto fuori luogo la critica, tanto aspra quanto scontata, rivolta da Tomás Ibañez alla «virulenza e la costanza con cui Giovanni Paolo II e il cardinal Ratzinger hanno demonizzato il relativismo». Ibañez scrive queste parole nel Prologo del suo recente volume « Il libero pensiero » (Elèuthera, pp. 224, euro 20), il cui sottotitolo, « Elogio del relativismo« , non lascia adito a dubbi circa la tesi di fondo che viene in esso sostenuta: nelle prime pagine egli informa i lettori che è stato proprio l’insegnamento papale in materia di relativismo a fugare ogni suo dubbio sull’opportunità di scendere in campo per difendere a spada tratta quello che per Popper è soltanto un grave morbus philosophicus. Padronissimo, ovviamente, Ibañez di prendersela con il magistero dei romani pontefici, ma sembra opportuno ricordare che la confutazione del relativismo è antica quanto la storia della filosofia e ha visto schierarsi dalla sua parte la stragrande maggioranza dei pensatori occidentali; e questo sino ai nostri giorni, con i vari Quine, Apel, Putnam, Chomsky (!) pronti a dimostrare l’insostenibilità del relativismo. A onor del vero, va detto che gli studiosi tendono a distinguere una forma di relativismo forte da una debole, e intorno a tale distinzione costruiscono disquisizioni di non poco conto. Questa distinzione non sembra interessare troppo a Ibañez, tutto preso, come appare, dalla sua missione di apostolo del relativismo che sente di dover scendere in campo «tanto più quando si vede che i campioni laici della retorica della verità, egemoni di questi tempi, sono in consonanza con le autorità della Chiesa e partecipi della stessa crociata contro la tentazione di prestare orecchio al relativismo». Dunque, secondo il professore spagnolo, si sarebbe saldata una sorta di pericolosa alleanza filosofica fra trono (leggi: atei devoti) e altare, in chiave antirelativista e perciò antilibertaria. Di parere completamente diverso è Roberto de Mattei , professore dell’Università di Cassino e dell’Università Europea di Roma, che ha da poco mandato in libreria il volume « La dittatura del relativismo » (Solfanelli, pp. 128, euro 9), nel quale, come è facile comprendere sin dal titolo, viene manifestato un timore del tutto opposto a quello di Ibañez. Infatti, de Mattei ritiene che, in nome di princìpi relativistici e libertari, si stia affermando una vera e propria tirannia culturale, quella dello scetticismo, che fa dell’assenza della verità la propria bandiera e che conduce verso quel nichilismo che a giudizio di molti rappresenta l’autentica malattia mortale della cultura contemporanea; una malattia che fra le sue più terribili complicazioni annovera il totalitarismo: de Mattei è bravo a far vedere come l’assenza di verità e la negazione dell’esistenza di principi e di valori immutabili rappresentino il terreno ideale per far attecchire l’ideologia del più forte. De Mattei sviluppa argomentazioni rigorosamente razionali, ma non nasconde la convinzione che soltanto un assoluto religioso possa guarire l’uomo dai suoi mali e fondare una società veramente libera: «L’opposizione alla dittatura del relativismo – si legge nel libro – ha il suo passaggio necessario nella riscoperta della legge naturale e divina che ha costituito il fondamento della civiltà cristiana (…) Le radici cristiane della società (…) non sono solo storiche, ma prima di tutto costitutive, come costitutiva è per l’anima umana la vita soprannaturale della Grazia».
IL LIBRO È da poco in libreria « La dittatura del relativismo » di Roberto de Mattei (Solfanelli, pp. 128, euro 9). Il saggio denuncia la minaccia del relativismo che, dietro a un’apparenza libertaria, negando ogni criterio di verità oggettiva, apre la strada al totalitarismo e alla dittatura del più forte
L’AUTORE Roberto De Mattei (Roma 1948) insegna Storia moderna all’Università di Cassino e Storia del Cristianesimo e della Chiesa all’Università Europea di Roma. Collabora con Libero
LIBERO 17 ottobre 2007
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Messaggio del Papa per i cento anni delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani
CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 19 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il messaggio che Benedetto XVI ha inviato al Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, monsignor Angelo Bagnasco, in occasione del centenario della prima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani e della 45ª edizione di questo evento ecclesiale in corso di svolgimento a Pistoia e Pisa sul tema « Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano« .
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Al Venerato Fratello
Mons. ANGELO BAGNASCO
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
Cade quest’anno il centenario della prima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, svoltasi a Pistoia dal 23 al 28 settembre 1907, per iniziativa soprattutto del Prof. Giuseppe Toniolo, luminosa figura di laico cattolico, di scienziato ed apostolo sociale, protagonista del Movimento cattolico sul finire del XIX secolo e agli albori del XX. In questa significativa ricorrenza giubilare, invio volentieri il mio cordiale saluto a Lei, venerato Fratello, a Mons. Arrigo Miglio, Vescovo di Ivrea e Presidente del Comitato Scientifico ed Organizzatore delle Settimane Sociali, ai collaboratori e a tutti i partecipanti alla 45ª « Settimana », che si svolgerà a Pistoia e a Pisa dal 18 al 21 ottobre corrente. Il tema scelto – « Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano » -, pur essendo stato già affrontato in alcune precedenti edizioni, mantiene intatta la sua attualità ed anzi è opportuno che sia approfondito e precisato proprio ora, per evitare un uso generico e talvolta improprio del termine « bene comune ».
Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, rifacendosi all’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II, specifica che « il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro » (Cost. Gaudium et spes, 164). Già il teologo Francisco Suárez individuava un bonum commune omnium nationum, inteso come « bene comune del genere umano ». In passato, e ancor più oggi in tempo di globalizzazione, il bene comune va pertanto considerato e promosso anche nel contesto delle relazioni internazionali ed appare chiaro che, proprio per il fondamento sociale dell’esistenza umana, il bene di ciascuna persona risulta naturalmente interconnesso con il bene dell’intera umanità.
L’amato Servo di Dio Giovanni Paolo II osservava, in proposito, nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis che « si tratta dell’interdipendenza, sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come categoria morale » (n. 38). Ed aggiungeva: « Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come ‘virtù’, è la solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti » (ibid.).
Nell’Enciclica Deus caritas est ho voluto ricordare che « la formazione di strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della politica, cioè all’ambito della ragione autoresponsabile » (n. 29). Ed ho poi notato che « in questo, il compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali, senza le quali non vengono costruite strutture giuste, né queste possono essere operative a lungo » (ibid.). Quale occasione migliore di questa per ribadire che operare per un giusto ordine nella società è immediatamente compito proprio dei fedeli laici? Come cittadini dello Stato tocca ad essi partecipare in prima persona alla vita pubblica e, nel rispetto delle legittime autonomie, cooperare a configurare rettamente la vita sociale, insieme con tutti gli altri cittadini secondo le competenze di ognuno e sotto la propria autonoma responsabilità. Nel mio intervento al Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, l’anno scorso, ebbi a ribadire che agire in ambito politico per costruire un ordine giusto nella società italiana non è compito immediato della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici. A questo loro compito della più grande importanza, essi debbono dedicarsi con generosità e coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo. Per questo sono state sapientemente istituite le Settimane Sociali dei Cattolici Italiani e questa provvida iniziativa potrà anche in futuro offrire un contributo decisivo per la formazione e l’animazione dei cittadini cristianamente ispirati.
La cronaca quotidiana mostra che la società del nostro tempo ha di fronte molteplici emergenze etiche e sociali in grado di minare la sua stabilità e di compromettere seriamente il suo futuro. Particolarmente attuale è la questione antropologica, che abbraccia il rispetto della vita umana e l’attenzione da prestare alle esigenze della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Come è stato più volte ribadito, non si tratta di valori e principi solo « cattolici », ma di valori umani comuni da difendere e tutelare, come la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato. Che dire, poi, dei problemi relativi al lavoro in rapporto alla famiglia e ai giovani? Quando la precarietà del lavoro non permette ai giovani di costruire una loro famiglia, lo sviluppo autentico e completo della società risulta seriamente compromesso. Riprendo qui l’invito che ebbi a rivolgere nel Convegno Ecclesiale di Verona ai cattolici italiani, perché sappiano cogliere con consapevolezza la grande opportunità che offrono queste sfide e reagiscano non con un rinunciatario ripiegamento su se stessi, ma, al contrario, con un rinnovato dinamismo, aprendosi con fiducia a nuovi rapporti e non trascurando nessuna delle energie capaci di contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia.
Non posso infine non accennare ad un ambito specifico, che anche in Italia stimola i cattolici ad interrogarsi: è l’ambito dei rapporti tra religione e politica. La novità sostanziale portata da Gesù è che Egli ha aperto il cammino verso un mondo più umano e più libero, nel pieno rispetto della distinzione e dell’autonomia che esiste tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22,21). La Chiesa, dunque, se da una parte riconosce di non essere un agente politico, dall’altra non può esimersi dall’interessarsi del bene dell’intera comunità civile, in cui vive ed opera, e ad essa offre il suo peculiare contributo formando nelle classi politiche e imprenditoriali un genuino spirito di verità e di onestà, volto alla ricerca del bene comune e non del profitto personale.
Sono queste le tematiche quanto mai attuali a cui la prossima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dedicherà la sua attenzione. Per coloro che vi prendono parte assicuro un particolare ricordo nelle preghiera e, mentre auspico un fecondo e fruttuoso lavoro per il bene della Chiesa e dell’intero Popolo d’Italia, invio di cuore a tutti una speciale Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 12 Ottobre 2007
BENEDICTUS PP. XVI
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Predicatore del Papa: “Il cristiano esiste per l’Eucaristia e l’Eucaristia per il cristiano”
Commento di padre Cantalamessa alla liturgia di domenica prossima
ROMA, venerdì, 19 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia –, alla liturgia di domenica prossima, XXIX del tempo ordinario.
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XXIX Domenica del tempo ordinario [C]
Esodo 17, 8-13a; 2 Timoteo 3, 14-4,2; Luca 18, 1-8
DISSE LORO UNA PARABOLA SULLA NECESSITA’ DI PREGARE
Il vangelo comincia così: « In quel tempo, Gesú disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai ». La parabola è quella della vedova importuna. Alla domanda: « Quante volte si deve pregare? », Gesú risponde: Sempre! La preghiera, come l’amore, non sopporta il calcolo delle volte. Ci si chiede forse quante volte al giorno una mamma ama il suo bambino, o un amico il suo amico? Si può amare con gradi diversi di consapevolezza, ma non a intervalli più o meno regolari. Così è anche della preghiera.
Questo ideale di preghiera continua si è realizzato, in forme diverse, sia in Oriente che in Occidente. La spiritualità orien¬tale l’ha praticato con la cosiddetta preghiera di Gesú: « Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me! ». L’Occidente ha formulato il principio di una preghiera continua, ma in modo più duttile, tanto da poter essere proposto a tutti e non solo a quelli che fanno professione esplicita di vita monastica. Sant’A¬gostino dice che l’essenza della preghiera è il deside¬rio. Se continuo è il desiderio di Dio continua è pure la preghie¬ra, mentre se manca il desiderio interiore, si può gridare quanto si vuole, per Dio si è muti. Ora questo desiderio segreto di Dio, fatto di ricordo, di bisogno di infinito, di nostalgia di Dio, può rimanere vivo, anche mentre si è costretti a fare altre cose: « Pregare a lungo non equivale a stare a lungo in ginocchio o a mani giunte o dire molte parole. Consiste piuttosto nel suscitare un continuo e devoto impulso del cuore verso colui che invochiamo ».
Gesú ci ha dato lui stesso l’esempio della preghiera incessante. Di lui si dice nei vangeli che pregava di giorno, sul far della sera, al mattino presto e che passava a volte l’intera notte in preghiera. La preghiera era il tessuto connettivo di tutta la sua vita.
Ma l’esempio di Cristo ci dice anche un’altra cosa importante. È illusorio pensare di poter pregare sempre, fare della preghiera una specie di respiro costante dell’anima anche in mezzo alle attività quotidiane, se non si riservano alla preghiera anche dei tempi fissi, in cui si attende alla preghiera, liberi da ogni altra occupazione. Quel Gesú che vediamo pregare sempre, è lo stesso che, come ogni altro ebreo del suo tempo, tre volte al giorno – al sorgere del sole, nel pomeriggio durante i sacrifici del tempio, e al tramonto – si fermava, si voltava verso il tempio di Gerusalemme e recitava le preghiere di rito, tra cui lo Shemà Israel, Ascolta Israele. Il Sabato partecipava anch’egli, con i discepoli, al culto nella sinagoga e diversi episodi evangelici avvengono proprio in questo contesto.
La Chiesa ha fissato anch’essa, si può dire fin dal primo momento di vita, un giorno speciale da dedicare al culto e alla preghiera, la Domenica. Sappiamo tutti cosa è diventata, purtroppo, la Domenica nella nostra società; lo sport, e in particolare il calcio, da fattore di svago e di distensione, è diventato qualcosa che spesso avvelena la Domenica… Dobbiamo fare il possibile perché questo giorno torni ad essere, come era nelle intenzioni di Dio nel comandare il riposo festivo, un giorno di serena gioia che rinsalda la nostra comunione con Dio e tra di noi, nella famiglia e nella società.
È di stimolo a noi cristiani moderni ricordare le parole che i martiri Saturnino e compagni rivolgono, nel 305, al giudice romano che li aveva fatti arrestare per aver partecipato alla riunione domenicale: « Il cristiano non può vivere senza l’Eucaristia domenicale. Non sai che il cristiano esiste per l’Eucaristia e l’Eucaristia per il cristiano? »
Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore dei Gesuiti
Lettera del 17/11/1555
« Non temete »
Mi sembra che lei dovrebbe risolversi a fare con calma ciò che può. Non sia preoccupata del resto, ma abbandoni alla divina Provvidenza ciò che non può adempiere da sola. Sono gradite a Dio la nostra cura e la nostra sollecitudine quando sono ragionevoli per condurre a buon fine gli affari di cui dobbiamo occuparci per dovere. Non piacciono a Dio l’ansia e l’inquietudine dello spirito: Il Signore vuole che i nostri limiti e le nostre debolezze si appoggino sulla sua fortezza e sulla sua onnipotenza, vuole che speriamo che la sua bontà supplirà all’imperfezione dei nostri mezzi.
Coloro che si incaricano di affari numerosi, pur con un’intenzione retta, devono risolversi a fare semplicemente ciò che è in loro potere… Se si devono lasciare da parte alcune cose, occorre armarsi di pazienza, e non pensare che Dio attenda da noi ciò che non possiamo fare. Egli non vuole che l’uomo si affligga per i suoi limiti…; non è necessario stancarsi esageratamente. Anzi, quando ci siamo sforzati di agire del nostro meglio, possiamo abbandonare tutto il resto a Colui che ha il potere di compiere tutto quello che vuole.
Voglia la divina bontà comunicarci sempre la luce della sapienza, affinché possiamo vedere chiaramente e adempiere fermamente quello che comanda, in noi e negli altri…, affinché accogliamo dalla sua mano ciò che ci manda, tenendo sempre presente ciò che è più importante: la pazienza, l’umiltà, l’obbedienza e la carità.