Pope Benedict XVI greets a Bhuddist monk
Pope Benedict XVI greets a Bhuddist monk, during the weekly general audience in St. Peter’s Square at the Vatican, Wednesday Oct. 10, 2007. (AP Photo/Plinio Lepri)
Pope Benedict XVI greets a Bhuddist monk, during the weekly general audience in St. Peter’s Square at the Vatican, Wednesday Oct. 10, 2007. (AP Photo/Plinio Lepri)
dal sito on line del giornale « Avvenire »:
Mattutino a cura di G. Ravasi
Nacqui cieca. Fui la più felice delle donne, come moglie, madre, massaia, occupandomi dei miei cari e rendendo la mia casa un luogo d’ordine e di ospitalità generosa. Giravo, infatti, per le stanze e per il giardino con un istinto infallibile come la vita, quasi che avessi gli occhi sulla punta delle dita. Bellissima l’immagine finale che delinea la straordinaria capacità di molti ciechi: essi hanno gli occhi sulla punta delle dita. Ho anch’io conoscenti non vedenti, come si suol dire con un eufemismo poco felice: in realtà, essi sono sia vedenti sia veggenti perché, attraverso gli altri sensi, riescono a vedere e, nel loro buio rispetto all’esteriorità delle cose immediatamente visibili, sanno essere più profondi di noi nel capire e nell’ascoltare, divenendo appunto « veggenti », cioè figure di forte spiritualità. Il pensiero va, ad esempio, ai non pochi pianisti, organisti, suonatori ciechi che estraggono la musica da se stessi più che dagli spartiti. Ma il testo, che sopra ho desunto dalla celebre Antologia di Spoon River del poeta americano Edgar Lee Masters (1869-1950), aggiunge un altro elemento. Questa donna, della quale lo scrittore cita l’ideale epitaffio, racconta con gioia la sua microstoria, ammonendoci che non è necessario essere come la modella perfetta della pubblicità per realizzare in pienezza la vita. Anzi, ci sono persone sane e belle alle quali manca una sola cosa e quindi tutto, cioè l’anima, l’interiorità, il pensiero. E ci sono persone disabili che sanno godere e gioire, bevendo ogni istante della loro esistenza. Ecco perché la cieca di quel villaggio americano merita un’epigramma tombale così festoso più di tanti sani e « normali ».
dal sito on line del giornale « Avvenire »
60 anni dopo, deve ancora essere narrato l’Olocausto dei protagonisti «minori» partendo dai loro scritti, spesso lasciati a metà.
Parla Friedländer, Premio per la pace a Francoforte Diari di Auschwitz, Shoà in microstorie
DA FRANCOFORTE DIEGO VANZI
V iene definito «l’ultimo epico narratore della storia della Shoah». Saul Friedländer compie 75 anni domani e a lui va quest’anno il prestigioso «Premio della Pace» dei librai tedeschi a Francoforte: un riconoscimento che nel 1951 venne assegnato ad Albert Schweitzer, nel 1955 a Hermann Hesse e lo scorso anno al sociologo Wolf Lepenies. A Friedländer il premio viene conferito per il suo «opus magnum», due volumi che rappresentano la sintesi del suo lavoro: Il
terzo Reich e gli ebrei.
Friedländer è forse l’ultimo storico cui è riuscito di coniugare la ricerca e la tragica esperienza vissuta della Shoah. Nato infatti a Praga da genitori ebrei di cultura tedesca, aveva 10 anni quando il padre e la madre vengono deportati dalla Francia dove avevano cercato scampo dai nazisti e uccisi ad Auschwitz. Saul riesce a sopravvivere sotto falso nome e ospite di un collegio cattolico. Nel 1948 emigra in Israele. Dal 1976 ha insegnato Storia moderna europea all’università di Tel Aviv, cui nel 1987 ha aggiunto una cattedra presso l’University of California. È considerato il più importante cronista vivente della Shoah.
Professore, i suoi genitori sono stati uccisi ad Auschwitz. Il 14 ottobre, le verrà conferito a Francoforte il «Premio della Pace dei librai tedeschi ». Cosa prova nel ricevere un riconoscimento in Germania?
«Sono riconoscente per tanto onore. Credo sia la prima volta che uno storico che si é occupato direttamente dell’Olocausto riceva il Friedenpreis.
Capisco che il tema dei miei lavori ha contribuito alla decisione. Vado però a Francoforte con sentimenti complessi e contrastanti; non posso dimenticare di essere in Germania e lo farò presente anche nella mia risposta alla laudatio ».
Oggi, a quasi 70 anni dalla «Notte dei cristalli» (il pogrom delle SS contro gli ebrei nel novembre 1938), vede ancora lacune nel campo della ricerca storica sul nazismo?
«Senza alcun dubbio, iniziando dalla ricerca nei piccoli centri, nelle città dell’Europa orientale dove coabitavano gruppi di differenti etnie. Prendiamo ad esempio cosa successe in un paese dove vivevano assieme ebrei, polacchi e ucraini ed infine arrivarono i tedeschi. Sarebbe necessario studiare la situazione prima, durante e dopo la guerra. Sarebbe una specie di ‘microstoria’, una storia cioè vista attraverso le vicende di protagonisti minori, come da voi in altro contesto ha fatto Carlo Ginzburg. Sarebbe molto importante in questo campo analizzare varie ‘microstorie’ ».
E la ricerca sul nazismo condotta in Germania? Le sembra sia stata portata avanti in maniera adeguata ed esaustiva?
«Sembrerebbe di sì, pur se ci sono ancor oggi molte voci contrarie. Esistono però innumerevoli studi scientifici sul periodo nazista ormai da due, tre decenni. Ed inoltre si nota un forte interesse soprattutto delle giovani generazioni».
Lei ha vissuto a lungo in Israele, ora abita a Los Angeles. Che cosa rappresenta per lei la Germania d’oggi? Che rapporto ha con questo Paese?
«Come con qualsiasi altro Paese. Non andrei a Francoforte se avessi sentimenti negativi verso i tedeschi.
Nella Germania oggi mi sento come in qualsiasi altra nazione europea».
Nel 1998 Martin Walser nel ricevere lui stesso il Premio della Pace aveva parlato di «strumentalizzazione di Auschwitz ». Ne erano sorte forti polemiche e lunghe discussioni. Il recente film di Robert Thalheim «Alla fine arrivano i turisti» mostra banalità e business ad Auschwitz. Non vede il pericolo che la tragica realtà dell’Olocausto venga screditata, sminuita o addirittura ridicolizzata?
«Sì, il pericolo esiste, esiste purtroppo già da anni attraverso i media e a causa della cattiva memoria di molti sia in America, come in Europa ed altrove. C’è la tendenza forse non a banalizzare ma a vestire di ‘kitsch’ gli avvenimenti drammatici del passato. A commercializzare le emozioni. Purtroppo lo si nota ovunque. Ma per fortuna ci sono anche altre voci e quella delle ‘banalità’ non mi sembra la tendenza principale».
Nella motivazione della giuria, lei viene definito come «colui che ha restituito alle vittime la dignità che era stata loro rubata». Era forse questo il fine a cui lei mirava con la pubintervista blicazione dei suoi numerosi libri?
«Sì, in effetti è proprio quello che volevo ottenere soprattutto con i miei due ultimi libri ( Il Terzo Reich e gli ebrei: Gli anni della persecuzione 1933-39. Gli anni dell’annientamento 1939-45) Ho voluto integrare la voce delle vittime, degli ebrei nella storia più generale, integrare in un contesto più ampio anche le varie voci individuali. Per questo ho utilizzato molti, moltissimi diari delle vittime, ne esistono centinaia. La maggior parte sono appartenuti a ebrei poi uccisi ma in cui si può seguire la vita delle vittime fin quasi agli ultimi momenti. Talvolta il diario termina nel mezzo di una frase e si può capire cosa poi sia successo. Ho cercato di inserire tutto ciò in maniera massiccia nei miei libri, cosicché forse ora esiste un’altra dimensione, una dimensione diversa e più completa nel presentare la storia».
Nei confronti del nazismo lei occupa un doppio ruolo: quello cioè di storico e quello del sopravvissuto. Non ha mai avvertito un conflitto tra questi due ruoli?
«L’ho avvertito da sempre, da quando ho cominciato a lavorare e scrivere sul periodo hitleriano. Lo stesso vale però anche per gli storici tedeschi della mia generazione che erano stati membri della Hitler Jugend
o del partito nazionalsocialista».
Con la pubblicazione del secondo volume lei ha completato l’opera monumentale «Il Terzo Reich e gli ebrei». Pensa di aggiungere ancora qualcosa?
«Solo brevi cose. Sono piuttosto anziano, vedrò cosa posso fare ma nei limiti delle mie possibilità».
dal sito:
http://www.zenit.org/article-12161?l=italian
Benedetto XVI riflette su Sant’Ilario di Poitiers, Vescovo del IV secolo
Intervento all’Udienza generale del mercoledì
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 10 ottobre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale svoltasi in piazza San Pietro, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri Apostolici, si è soffermato sulla figura di Sant’Ilario di Poitiers.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di un grande Padre della Chiesa di Occidente, sant’Ilario di Poitiers una delle grandi figure di Vescovi del IV secolo. Nel confronto con gli ariani, che consideravano il Figlio di Dio Gesù una creatura, sia pure eccellente, ma solo creatura, Ilario ha consacrato tutta la sua vita alla difesa della fede nella divinità di Gesù Cristo, Figlio di Dio e Dio come il Padre, che lo ha generato fin dall’eternità.
Non disponiamo di dati sicuri sulla maggior parte della vita di Ilario. Le fonti antiche dicono che nacque a Poitiers, probabilmente verso l’anno 310. Di famiglia agiata, ricevette una solida formazione letteraria, ben riconoscibile nei suoi scritti. Non sembra che sia cresciuto in un ambiente cristiano. Egli stesso ci parla di un cammino di ricerca della verità, che lo condusse man mano al riconoscimento del Dio creatore e del Dio incarnato, morto per darci la vita eterna. Battezzato verso il 345, fu eletto Vescovo della sua città natale intorno al 353-354. Negli anni successivi Ilario scrisse la sua prima opera, il Commento al Vangelo di Matteo. Si tratta del più antico commento in lingua latina che ci sia pervenuto di questo Vangelo. Nel 356 Ilario assiste come Vescovo al sinodo di Béziers, nel sud della Francia, il « sinodo dei falsi apostoli », come egli stesso lo chiama, dal momento che l’assemblea fu dominata dai vescovi filoariani, che negavano la divinità di Gesù Cristo. Questi « falsi apostoli » chiesero all’imperatore Costanzo la condanna all’esilio del Vescovo di Poitiers. Così Ilario fu costretto a lasciare la Gallia durante l’estate del 356.
Esiliato in Frigia, nell’attuale Turchia, Ilario si trovò a contatto con un contesto religioso totalmente dominato dall’arianesimo. Anche lì la sua sollecitudine di Pastore lo spinse a lavorare strenuamente per il ristabilimento dell’unità della Chiesa, sulla base della retta fede formulata dal Concilio di Nicea. A questo scopo egli avviò la stesura della sua opera dogmatica più importante e conosciuta: il De Trinitate (Sulla Trinità). In essa Ilario espone il suo personale cammino verso la conoscenza di Dio e si preoccupa di mostrare che la Scrittura attesta chiaramente la divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre non soltanto nel Nuovo Testamento, ma anche in molte pagine dell’Antico, in cui già appare il mistero di Cristo. Di fronte agli ariani egli insiste sulla verità dei nomi di Padre e di Figlio e sviluppa tutta la sua teologia trinitaria partendo dalla formula del Battesimo donataci dal Signore stesso: « Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ».
Il Padre e il Figlio sono della stessa natura. E se alcuni passi del Nuovo Testamento potrebbero far pensare che il Figlio sia inferiore al Padre, Ilario offre regole precise per evitare interpretazioni fuorvianti: alcuni testi della Scrittura parlano di Gesù come Dio, altri invece mettono in risalto la sua umanità. Alcuni si riferiscono a Lui nella sua preesistenza presso il Padre; altri prendono in considerazione lo stato di abbassamento (kenosi), la sua discesa fino alla morte; altri, infine, lo contemplano nella gloria della risurrezione. Negli anni del suo esilio Ilario scrisse anche il Libro dei Sinodi, nel quale riproduce e commenta per i suoi confratelli Vescovi della Gallia le confessioni di fede e altri documenti dei sinodi riuniti in Oriente intorno alla metà del IV secolo. Sempre fermo nell’opposizione agli ariani radicali, sant’Ilario mostra uno spirito conciliante nei confronti di coloro che accettavano di confessare che il Figlio era somigliante al Padre nell’essenza, naturalmente cercando di condurli verso la piena fede, secondo la quale non vi è soltanto una somiglianza, ma una vera uguaglianza del Padre e del Figlio nella divinità. Anche questo mi sembra caratteristico: lo spirito di conciliazione che cerca di comprendere quelli che ancora non sono arrivati e li aiuta, con grande intelligenza teologica, a giungere alla piena fede nella divinità vera del Signore Gesù Cristo.
Nel 360 o il 361, Ilario potè finalmente tornare dall’esilio in patria e subito riprese l’attività pastorale nella sua Chiesa, ma l’influsso del suo magistero si estese di fatto ben oltre i confini di essa. Un sinodo celebrato a Parigi nel 360 o nel 361 riprende il linguaggio del Concilio di Nicea. Alcuni autori antichi pensano che questa svolta antiariana dell’episcopato della Gallia sia stata in larga parte dovuta alla fortezza e alla mansuetudine del Vescovo di Poitiers. Questo era appunto il suo dono: coniugare fortezza nella fede e mansuetudine nel rapporto interpersonale. Negli ultimi anni di vita egli compose ancora i Trattati sui Salmi, un commento a cinquantotto Salmi, interpretati secondo il principio evidenziato nell’introduzione dell’opera: «Non c’è dubbio che tutte le cose che si dicono nei Salmi si devono intendere secondo l’annunzio evangelico, in modo che, qualunque sia la voce con cui lo spirito profetico ha parlato, tutto sia comunque riferito alla conoscenza della venuta del Signore nostro Gesù Cristo, incarnazione, passione e regno, e alla gloria e potenza della nostra risurrezione» (Instructio Psalmorum 5). Egli vede in tutti i Salmi questa trasparenza del mistero di Cristo e del suo Corpo che è la Chiesa. In diverse occasioni Ilario si incontrò con san Martino: proprio vicino a Poitiers il futuro Vescovo di Tours fondò un monastero, che esiste ancor oggi. Ilario morì nel 367. La sua memoria liturgica si celebra il 13 gennaio. Nel 1851 il beato Pio IX lo proclamò Dottore della Chiesa.
Per riassumere l’essenziale della sua dottrina, vorrei dire che Ilario trova il punto di partenza della sua riflessione teologica nella fede battesimale. Nel De Trinitate Ilario scrive: Gesù «ha comandato di battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (cfr Mt 28,19), cioè nella confessione dell’Autore, dell’Unigenito e del Dono. Uno solo è l’Autore di tutte le cose, perché uno solo è Dio Padre, dal quale tutto procede. E uno solo il Signore nostro Gesù Cristo, mediante il quale tutto fu fatto (1 Cor 8,6), e uno solo è lo Spirito (Ef 4,4), dono in tutti… In nulla potrà essere trovata mancante una pienezza così grande, in cui convergono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo l’immensità nell’Eterno, la rivelazione nell’Immagine, la gioia nel Dono» (De Trinitate 2,1). Dio Padre, essendo tutto amore, è capace di comunicare in pienezza la sua divinità al Figlio. Trovo particolarmente bella la seguente formula di sant’Ilario: « Dio non sa essere altro se non amore, non sa essere altro se non Padre. E chi ama non è invidioso, e chi è Padre lo è nella sua totalità. Questo nome non ammette compromessi, quasi che Dio sia padre in certi aspetti, e in altri non lo sia» (ivi 9,61).
Per questo il Figlio è pienamente Dio senza alcuna mancanza o diminuzione: «Colui che viene dal perfetto è perfetto, perché chi ha tutto, gli ha dato tutto» (ivi 2,8). Soltanto in Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, trova salvezza l’umanità. Assumendo la natura umana, Egli ha unito a sé ogni uomo, «si è fatto la carne di tutti noi» (Tractatus in Psalmos 54,9); «ha assunto in sé la natura di ogni carne, e divenuto per mezzo di essa la vite vera, ha in sé la radice di ogni tralcio» (ivi 51,16). Proprio per questo il cammino verso Cristo è aperto a tutti – perché egli ha attirato tutti nel suo essere uomo – anche se è richiesta sempre la conversione personale: «Mediante la relazione con la sua carne, l’accesso a Cristo è aperto a tutti, a patto che si spoglino dell’uomo vecchio (cfr Ef 4,22) e lo inchiodino alla sua croce (cfr Col 2,14); a patto che abbandonino le opere di prima e si convertano, per essere sepolti con lui nel suo battesimo, in vista della vita (cfr Col 1,12; Rm 6,4)» (ivi 91,9).
La fedeltà a Dio è un dono della sua grazia. Perciò sant’Ilario chiede, alla fine del suo trattato sulla Trinità, di potersi mantenere sempre fedele alla fede del battesimo. E’ una caratteristica di questo libro: la riflessione si trasforma in preghiera e la preghiera ritorna riflessione. Tutto il libro è un dialogo con Dio. Vorrei concludere l’odierna catechesi con una di questa preghiere, che diviene così anche preghiera nostra: «Fa’, o Signore – recita Ilario in modo ispirato – che io mi mantenga sempre fedele a ciò che ho professato nel simbolo della mia rigenerazione, quando sono stato battezzato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Che io adori te, nostro Padre, e insieme con te il tuo Figlio; che io meriti il tuo Spirito Santo, il quale procede da te mediante il tuo Unigenito… Amen» (De Trinitate 12,57).
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto le Figlie di San Giuseppe che in questi giorni hanno celebrato il loro Capitolo Generale. Care sorelle, sull’esempio del vostro fondatore, il beato Clemente Marchisio, diffondete con rinnovato ardore l’amore per l’Eucarestia, sacramento e vincolo di perfetta carità. Saluto i rappresentanti della Famiglia Domenicana, giunti così numerosi in occasione dell’Ottavo centenario della fondazione del primo monastero domenicano da parte di S. Domenico.
Cari amici, formulo voti che questa significativa circostanza contribuisca ad infondere in voi rinnovato fervore spirituale per una generosa testimonianza cristiana. Saluto inoltre la Delegazione del Centro sportivo Italiano e dell’Associazione Calcio Ancona e li incoraggio ad operare affinchè il gioco del calcio diventi sempre più strumento di educazione ai valori etici e spirituali della vita. Saluto altresì i fedeli provenienti da San Salvatore Telesino ed invoco su tutti la continua assistenza del Signore.
Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domani ricorre la memoria liturgica del beato Giovanni XXIII. La sua indimenticabile testimonianza evangelica sostenga voi, cari giovani, nell’impegno di quotidiana fedeltà a Cristo; incoraggi voi, cari ammalati, specialmente voi cari piccoli amici dell’Istituto per la cura dei tumori di Milano, a seguire pazientemente Gesù nel cammino della prova e della sofferenza; aiuti voi, cari sposi novelli, a fare della vostra famiglia il luogo del costante incontro con l’Amore di Dio e dei fratelli.
[APPELLO DEL SANTO PADRE:]
E’ in corso a Ravenna in questi giorni la decima Sessione Plenaria della Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme, che affronta un tema teologico di particolare interesse ecumenico: « Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa – Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità ». Vi chiedo di unirvi alla mia preghiera affinchè questo importante incontro aiuti a camminare verso la piena comunione tra cattolici e ortodossi, e si possa giungere presto a condividere lo stesso Calice del Signore.
San Silvano (1886-1938), monaco ortodosso
Scritti
« Insegnaci a pregare »
Se cerchi di pregare con la mente unita al cuore e non ci riesci, allora pronuncia la preghiera con la bocca e tieni ferma la mente sulle parole della preghiera, come insegna la « Scala di perfezione » [di san Giovanni Climaco]. Col tempo il Signore ti darà anche la « preghiera del cuore », senza pensieri; e allora pregherai liberamente, senza sforzo. Alcuni hanno fatto del male al loro cuore perché troppo presto hanno voluto pregare con la mente unita al cuore e hanno finito col non riuscire più a dire la preghiera neppure con la bocca. Ma tu riconosci l’ordine della vita spirituale: i doni sono concessi all’anima semplice, umile, sottomessa. A chi è sottomesso e moderato in tutto – nel cibo, nelle parole, nei movimenti – il Signore stesso dona la preghiera, e questa, per energia divina, si celebrerà nel profondo del cuore.
La preghiera continua proviene dall’amore e viene a mancare a causa della maldicenza, della negligenza e dell’intemperanza. Chi ama Dio può pensare a lui giorno e notte, perché nessuna occupazione impedisce di amare Dio. Gli apostoli amavano il Signore e il mondo non costituiva un ostacolo a questo amore, e per questo si ricordavano del mondo e pregavano per esso e predicavano. Ad Arsenio il Grande fu detto: « Fuggi gli uomini », ma lo Spirito di Dio anche nel deserto ci insegna a pregare per gli uomini e per il mondo intero.