Archive pour août, 2007

Lo spirito di proprietà o la povertà in Spirito

questo commento è dal sito Evangile au quotidien, non corrisponde con il vangelo che ho postato perché il sito liturgico francese non fa le letture di Maria: 

San Giovanni della Croce (1542-1591), carmelitano, dottore della Chiesa
Avvisi e sentenze

Lo spirito di proprietà o la povertà in Spirito ?

Non abbiate nessun desiderio se non quello di entrare, solo per amore di Cristo, nel distacco, nel vuoto e nella povertà riguardo a tutto quanto esiste sulla terra. Non proverete altri bisogni che quelli ai quali avrete così sottomesso il vostro cuore ; il povero in Spirito non è mai così felice quanto quando si trova nell’indigenza ; colui che ha un cuore che non desidera nulla, vive sempre nell’agiatezza…

I poveri in Spirito danno con grande liberalità tutto quanto possiedono. La loro gioia è di sapere farne a meno, offrendolo per amore di Dio e del prossimo. Non solo i beni, le gioie e i piaceri di questo mondo ci imgombrano e ci fanno perdere tempo nella nostra marcia verso Dio, ma pure le gioie e le consolazioni spirituali sono un ostacolo nella nostra marcia in avanti se le riceviamo o le ricerchiamo con uno spirito di proprietà.

una foto curiosa di Papa Pio X

una foto curiosa di Papa Pio X dans Papi

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oggi San Pio X (Giuseppe Sarto) Papa (dal 09/08/1903 al 20/08/1914)

dal sito: 

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oggi San Pio X (Giuseppe Sarto) Papa - (dal 09/08/1903 al 20/08/1914)


Giuseppe Sarto, vescovo di Mantova (1884) e patriarca di Venezia (1893), sale alla cattedra di Pietro con il nome di Pio X. È il primo Papa dell’età contemporanea a provenire dal ceto contadino e popolare, seguito 65 anni dopo da Papa Giovanni XXIII. È uno dei primi pontefici ad aver percorso tutte le tappe del ministero pastorale, da cappellano a Papa. È il pontefice che nel Motu proprio «tra le sollecitudini» (1903) afferma che la partecipazione ai santi misteri è la fonte prima e indispensabile alla vita cristiana. Difende l’integrità della dottrina della fede, promuove la comunione eucaristica anche dei fanciulli, avvia la riforma della legislazione ecclesiastica, si occupa della Questione romana e dell’Azione Cattolica, cura la formazione dei sacerdoti, fa elaborare un nuovo catechismo, favorisce il movimento biblico, promuove la riforma liturgica e il canto sacro. (Avvenire)
 

Fu il primo papa dell’età contemporanea a provenire dal ceto contadino e popolare, seguito 65 anni dopo da papa Giovanni XXIII anch’egli di origini contadine, ma fu senz’altro uno dei primi pontefici ad aver percorso tutte le tappe del ministero pastorale, da cappellano a papa.
Giuseppe Melchiorre Sarto nacque a Riese (Treviso), oggi Riese Pio X, il 2 giugno 1835, secondo dei 10 figli di Giovanni Battista Sarto e Margherita Sanson; il padre era messo comunale e nel tempo libero coltivava un piccolo appezzamento di terreno.
Sin da ragazzo dimostrò forza di carattere e tenace volontà; serenamente sopportava i sacrifici imposti dalla condizione povera della famiglia, percorse per anni ogni giorno a piedi, spesso scalzo, la strada che conduce da Riese a Castelfranco per poter frequentare la scuola.
Dotato di predisposizione allo studio, fu aiutato da alcuni sacerdoti e poi dal patriarca di Venezia, anch’egli originario di Riese, che gli offrì un posto gratuito nel Seminario di Padova, a quell’epoca uno dei migliori d’Italia e anche qui ben presto si notò la ricchezza della sua indole, dotata di notevole equilibrio.
Quando aveva 17 anni, nel 1852, morì il padre e gli amministratori del piccolo Municipio di Riese, per aiutare la numerosa famiglia, offrirono al giovane Giuseppe l’impiego occupato dal padre.
Ma l’eroica madre Margherita, rifiutò l’offerta, perché il ‘Bepi’ doveva seguire la sua vocazione sacerdotale; avrebbe pensato lei con il suo lavoro di sarta, a portare avanti la famiglia, lavorando notte e giorno.
Fu ordinato sacerdote a 23 anni (settembre 1858) e subito nominato cappellano a Tombolo (Padova) piccola parrocchia di montagna, dove giunse il 29/11/1858, qui profuse le giovani forze nell’apostolato e nel ministero sacerdotale per ben nove anni.
Essendo risultato primo al concorso, fu nominato nel 1867 parroco a Salzano, grosso borgo della provincia veneziana, dove rimase per circa nove anni.
Dotato di una salute di ferro, di un’energia che non conosceva debolezza e di una sorprendente capacità di rapportarsi con gli altri, egli si diede anima e corpo all’attività parrocchiale, suscitando l’ammirazione dei parrocchiani e dei confratelli sacerdoti.
Nel novembre 1875 il vescovo di Treviso lo chiamò presso di sé nominandolo Canonico della Cattedrale, Cancelliere della Curia Vescovile, Direttore spirituale del Seminario; incarichi di prestigio per il giovane sacerdote Giuseppe Sarto (aveva 40 anni), il quale trascorreva la mattina al vescovado e il pomeriggio in Seminario.
Adempiva ai suoi compiti con dedizione e competenza, la sua sollecitudine gli faceva portare a casa le pratiche non ancora evase che sbrigava anche nelle ore notturne, la sua buona salute gli consentiva di recuperare le forze con appena 4-5 ore di sonno.
Il suo modo di agire, pieno di comprensione verso gli altri e il suo amore particolare per i poveri, gli guadagnarono l’affetto e la stima di tutti, cosicché nessuno si meravigliò quando nel settembre 1884, papa Leone XIII lo nominò vescovo di Mantova.
La diocesi mantovana attraversava un periodo particolarmente difficile, sia al suo interno, sia con il potere civile, ma il modesto prete Giuseppe Sarto, conosciuto per la fama di oratore brillante e per la sua grande carità, si rivelò un capo, con uno spirito realistico, pronto a cogliere il nodo dei problemi e a trovarne le soluzioni pratiche, con una bonarietà sorridente ma che all’occorrenza sapeva accompagnarla con una fermezza innata.
Seppe pacificare gli animi e avviò un profondo rinnovamento della vita cristiana in tutta la diocesi; incoraggiò l’affermarsi delle cooperative operaie; formatosi sotto papa Pio IX e nel clima reazionario della monarchia asburgica, alla quale il Veneto fino al 1866 era soggetto, mons. Sarto era considerato un “intransigente”, che condannava il liberalismo e lo spirito di apertura alla mentalità moderna.
Erano problemi che agitavano la Chiesa del post Stato Pontificio e la ventata di modernismo proveniente da tanti settori della società, vedeva nelle diocesi italiane il contrapporsi di ideologie, con vescovi permissivi e altri intransigenti alle aperture.
Papa Leone XIII apprezzando il suo operato, lo elevò alla dignità cardinalizia il 12 giugno 1893 con il titolo di San Bernardo alle Terme e il 15 giugno lo destinava alla sede patriarcale di Venezia, anch’essa in una situazione particolarmente difficile.
Ma il suo ingresso poté avvenire solo il 24 novembre 1894, perché mancava il beneplacito del Governo Italiano; il re d’Italia Umberto I°, sosteneva di avere il diritto di scelta del patriarca per un antico privilegio della Repubblica Veneta, ma alla fine dopo 17 mesi si addivenne ad un compromesso.
Pur avendo conservato un certo attaccamento sentimentale per Francesco Giuseppe, il sovrano austriaco dei suoi primi trent’anni, al contrario dell’ambiente di curia, il patriarca Sarto manifestò verso la Casa Savoia e il giovane Regno d’Italia un atteggiamento più conciliante, ormai convinto che indietro non si sarebbe più ritornati.
Riteneva necessario preparare un progressivo riavvicinamento tra la nuova Italia e la Santa Sede, risolvendo la ‘Questione Romana’ e salvaguardando tutto ciò che vi era di essenziale sotto l’aspetto spirituale, ma abbandonando ciò che era transitorio nelle posizioni prese da papa Pio IX, dopo l’occupazione dello Stato Pontificio e perseguite anche da papa Leone XIII.
Incurante delle critiche e dello stupore di alcuni, non esitò ad indurre i cattolici veneziani ad allearsi con i liberali moderati, per far cadere l’amministrazione comunale massonica, che aveva soppresso il catechismo nelle scuole e fatto togliere il crocifisso negli ospedali.
Mobilitò i parroci e i gruppi di Azione Cattolica, moltiplicò le riunioni dei comitati, governò la stampa cattolica; il suo avvicinamento all’Italia ufficiale, era dettato da un realismo pastorale e non per simpatia all’ideologia liberale e modernista che personalmente rifiutò sempre.
A Venezia ci fu una fioritura della vita religiosa, gli adulti venivano istruiti nella fede e organizzati in Associazioni religiose; i bambini venivano preparati alla Prima Comunione e Cresima con particolare impegno, le celebrazioni liturgiche presero nuovo decoro con la solennità dei canti sacri.
In questo periodo conobbe il giovane Lorenzo Perosi, ne ammirò il talento musicale, lo aiutò e incoraggiò a diventare sacerdote, gli affidò la riforma del canto liturgico prima a Venezia e poi a Roma.
Amò i poveri, ai quali donava tutto quello che possedeva, giunto a Venezia non volle una porpora cardinalizia nuova, ma fece riadattare dalle sue sorelle che l’avevano seguito, quella vecchia del suo predecessore, donando ai poveri la somma equivalente per una nuova.
Pur essendo ostile al socialismo e al liberalismo, non mancò, come a Mantova, di preoccuparsi di tutto quanto potesse migliorare le condizioni di vita degli operai, incoraggiò le Casse Operaie parrocchiali, le Società di Mutuo Soccorso, gli uffici di collocamento popolare e per indirizzare il clero in questa direzione, istituì nel 1895 una cattedra di scienze economiche e sociali nel Seminario.
A Venezia amò tutti ed era amato da tutti; il 15 ottobre 1893 il cardinale era al capezzale dell’anziana madre morente, la quale aveva espresso il desiderio prima di morire di vedere il figlio vestito dei suoi abiti cardinalizi e lui volle accontentarla, si presentò all’improvviso quel mattino e la madre vedendolo esclamò con stupore: “Ah Bepi, sè tutto rosso!…” e lui: “E vu mare, sè tutta bianca!”.
Il 20 luglio 1903 ad oltre 93 anni, morì papa Leone XIII, che aveva governato la Chiesa oltre 25 anni e il patriarca di Venezia card. Sarto partì alla volta di Roma, alla stazione ferroviaria una gran folla lo circondò per salutarlo ed egli commosso rassicurò loro “Vivo o morto ritornerò”, del resto il biglietto per il treno che gli era stato offerto, era di andata e ritorno.
Quelle parole furono profetiche, perché il patriarca Sarto non tornò più a Venezia perché eletto papa; ma un suo successore, papa Giovanni XXIII, anch’egli patriarca della città lagunare, autorizzò il ritorno dell’urna con il corpo dell’ormai santo Pio X, che avvenne trionfalmente il 12 aprile 1959; l’urna esposta nella Basilica di San Marco, rimase a Venezia per un mese fino al 10 maggio, a ricevere il saluto e la venerazione dei suoi veneziani.
Il Conclave che seguì fu uno dei più drammatici, perché fu l’ultimo in cui venne esercitata “l’esclusiva” di un governo cattolico nei confronti di un papabile sgradito.
Il candidato più autorevole a succedere a Leone XIII era il suo Segretario di Stato card. Mariano Rampolla del Tindaro, ritenuto dal governo asburgico un continuatore della politica di sostegno dei cristiano-sociali in Austria e Ungheria e favorevole alle aspirazioni indipendentiste degli Slavi nei Balcani; il cardinale di Cracovia si fece portatore del veto imperiale contro Rampolla, fra le proteste del Decano del Sacro Collegio Cardinalizio e di altri cardinali, per l’ingerenza del potere civile.
Ad ogni modo il conclave durato quattro giorni designò il 3 agosto 1903, il patriarca di Venezia nuovo pontefice, nonostante le sue implorazioni a non votarlo, il quale alla fine accettò prendendo il nome di Pio X.
Il suo pontificato durò 11 anni, rompendo la sua personale cadenza negli incarichi ricevuti che furono stranamente sempre di nove anni; 9 anni in Seminario, 9 come cappellano a Tombolo, 9 anni come parroco a Salzano, 9 come canonico e direttore del Seminario a Treviso, 9 come vescovo di Mantova e 9 come patriarca di Venezia.
Aveva 68 anni quando salì al Soglio Pontificio instaurando una linea di condotta per certi versi di continuità con i due lunghissimi pontificati di Pio IX e Leone XIII che l’avevano preceduto, specie in campo politico, ma anche di rottura con certi schemi ormai consolidati, ad esempio, sebbene di umili origini egli rifiutò sempre di elargire benefici alla famiglia, come critica verso certi nepotismi e favoritismi più o meno evidenti, fino allora praticati.
Suo Segretario di Stato fu il card. Merry del Val, con il quale si dedicò ad una riaffermazione ben chiara dei diritti della Chiesa e ad una strategia ad ampio raggio per ristabilire l’ordine sociale secondo il volere di Dio.
Davanti ai grandi progressi di un liberalismo prevalentemente antireligioso, di un socialismo prevalentemente materialista e di uno scientismo presuntuoso, Pio X avvertì la necessità di erigere il papato contro la modernità, spezzando ogni tentativo di avviare un compromesso efficace tra i cattolici e la nuova cultura.
Con l’enciclica “Pascendi” del 1907 condannò il ‘modernismo’; in campo politico riprese la linea intransigente di Pio IX, egli considerava la separazione della Chiesa dallo Stato come un sacrilegio, gravemente ingiuriosa nei confronti di Dio al quale bisogna rendere non solo un culto privato ma anche uno pubblico.
La riaffermazione del potere papale, dopo le vicissitudini della caduta dello Stato Pontificio, portarono con il pensiero di Pio X ad identificare l’istituzione papale con la Chiesa intera, la Santa Sede con il popolo di Dio.
Non si può qui fare una completa panoramica del suo pontificato, vissuto alla vigilia della Prima Guerra Mondiale e del sorgere della Rivoluzione Russa, e in pieno affermarsi dei nuovi movimenti di pensiero come il modernismo, il liberalismo, infiltrati di materialismo e spirito antireligioso, con una Massoneria dilagante.
Centinaia di libri sono stati scritti su quel vivace periodo, ne citiamo uno: “Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia” di Pietro Scoppola, Bologna, 1961.
Il 20 gennaio 1904 papa Pio X reduce dal drammatico conclave che l’aveva eletto, stabilì che nessun potere laico esterno, potesse opporre un veto nell’elezione del pontefice e fulminò con scomunica quei cardinali che si prestassero a fare da portavoce, anche del semplice desiderio o indicazione di uno Stato.
Pio X che amava presentarsi come un “buon parroco di campagna” aveva in realtà notevoli doti e non era affatto sprovvisto di cultura, leggeva numerose opere, parlava e leggeva il francese, possedeva un gusto artistico e protesse i tesori d’arte della Chiesa; cultore della musica, amò il canto liturgico.
Uomo di grandezza morale, viveva in Dio e di Dio, esercitava le virtù cristiane fino all’eroismo, con una umiltà diventata la sua seconda natura senza la minima ostentazione; una effettiva povertà e un atteggiamento di distacco di fronte a se stesso che non abbandonava mai; una fede e una fiducia nella Provvidenza origine di quella serenità interiore che si poteva ammirare in lui; inoltre una carità che destava la meraviglia dei dignitari del Vaticano.
“Instaurare omnia in Cristo” era il motto di papa Pio X e con la forza e la costanza che gli erano proprie, cercò di attuare in tutti campi questa restaurazione della società cristiana a partire dalla Chiesa; riformò profondamente la Curia Romana e le varie Congregazioni, fece redigere un nuovo Codice di Diritto Canonico; applicò le norme per la Comunione frequente e per i bambini; riformò la Liturgia togliendo dal Messale molte cose inutili, riportò al ciclo delle domeniche, il posto che era stato usurpato dal ciclo dei Santi; sollecitò il canto e la musica nelle funzioni sacre; istituì l’obbligo del catechismo a piccoli e grandi e che da lui si chiamò “Catechismo di Pio X”.
Verso la fine del suo pontificato, sull’Europa si addensavano nubi minacciose di guerra, che coinvolgevano molti Stati cattolici in contrasto fra loro.
Dopo l’attentato di Serajevo all’arciduca ereditario Francesco Ferdinando, seguì il 28 luglio 1914 l’attacco dell’Austria alla Serbia e man mano il conflitto si estese a tutta l’Europa; per papa Pio X, già da tempo sofferente di gotta e quasi ottantenne, fu l’inizio della fine, il suo stato di salute e il deperimento fisico si accentuò e dopo una bronchite trasformatosi bruscamente in polmonite acuta, il pontefice morì nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1914; fu sepolto nelle Grotte Vaticane.
In vita era indicato come un “Papa Santo”, perché correva voce di guarigioni avvenute toccando i suoi abiti, ma lui sorridendo correggeva: “Mi chiamo Sarto non Santo”. Fu beatificato il 3 giugno 1951 da papa Pio XII e proclamato santo dallo stesso pontefice il 29 maggio 1954; la sua urna si venera nella Basilica di S. Pietro. 


Autore:
Antonio Borrelli 

 

Publié dans:Papi |on 21 août, 2007 |Pas de commentaires »

All’insegna della riscoperta delle proprie radici cristiane, i fedeli di Ostia si apprestano a celebrare il loro patrono Sant’Agostino

dal sito:  

http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=150396 

21/08/2007 13.54.28

All’insegna della riscoperta delle proprie radici cristiane, i fedeli di Ostia si apprestano a celebrare il loro patrono Sant’Agostino

 

La comunità di Ostia si appresta a festeggiare, dal 23 al 28 agosto prossimi, il proprio patrono Sant’Agostino legato, come la madre Monica, al territorio ostiense. Culmine dell’evento sarà la Messa celebrata dal cardinale decano Angelo Sodano, nella Chiesa Regina Pacis di Ostia, il 28 agosto, memoria di Sant’Agostino. Il vescovo di Ippona è patrono di Ostia da soli tre anni, grazie ad un’iniziativa fortemente voluta dai fedeli e dalla comunità cittadina, guidata dall’associazione culturale Sant’Agostino. Per una riflessione sui frutti di questo patronato dell’autore delle Confessioni, Alessandro Gisotti ha intervistato don Salvatore Tanzillo, viceparroco della parrocchia Santa Monica di Ostia:

R. – Io credo che la gente l’abbia accolto molto bene. Certamente, è un’opera che deve continuare nel tempo: ci vogliono degli sforzi per far conoscere bene il patrono alle persone, costruire e ricostruire questa cultura cattolica. Adesso ci stiamo adoperando con l’associazione culturale Sant’Agostino, e naturalmente con le parrocchie di Ostia, per riportare all’attenzione questo Santo ricco di valori, ricco di pensieri forti molto attuali.

 
D. – Il territorio di Ostia ha una popolazione molto giovane: cosa può dire alla gioventù di oggi una figura come Sant’Agostino?

 
R. – I giovani hanno, secondo me, una possibilità enorme di attingere da Sant’Agostino dei punti di riferimento e dei valori che sono eterni. Forse la prima proposta forte che Sant’Agostino può fare ai giovani è quella dell’esperienza della maturazione e della trasformazione della vita. I giovani sono in un processo di crescita e soprattutto subiscono delle fasi di distorsione, di dispersione, di disordine che Sant’Agostino ha vissuto in prima persona. Le “Confessioni” sono proprio il manifesto di questa ricerca di affettività e di amore in tanti modi, arrivato poi a maturazione. L’altro elemento che può essere importante per i giovani è l’amicizia, che è una costante in Sant’Agostino. Quell’amicizia, certamente, che tutti i giovani cercano. Collegata a questo tema è la ricerca della verità e della felicità: lui si è messo in questa ricerca della verità e della felicità, a cui credo aspirino un po’ tutti i giovani.

 
D. – A pochi mesi dalla proclamazione di Sant’Agostino patrono di Ostia, la comunità dei fedeli ostiensi ha avuto un testimone d’eccezione, l’allora cardinale Joseph Ratzinger…

 
R. – Sì, prima di essere eletto al Soglio Pontificio, il cardinale Ratzinger venne pochi mesi prima proprio ad Ostia ad inaugurare una statua in ricordo di questa elezione a patrono di Sant’Agostino per la città di Ostia. Venne in quanto decano del Sacro Collegio, titolare della Chiesa di Sant’Aurea di Ostia Antica che, appunto, è la sede del decano del Collegio dei Cardinali; e lui venne proprio a Sant’Aurea, dove tenne anche una bellissima omelia…

 
D. – Quindi, in un certo senso, Ostia si lega a Sant’Agostino e naturalmente anche a Benedetto XVI?

 
R. – Certamente! Noi abbiamo questo onore di vedere il cardinale Ratzinger prima e adesso Papa Benedetto che continuamente fa riferimento alla figura di Sant’Agostino. Come sappiamo, il nostro Papa è un grande teologo ma è anche un grande conoscitore della filosofia, e quindi trova in Sant’Agostino una grande esperienza di spiritualità per gli uomini di oggi. 

 

Publié dans:Sant'Agostino |on 21 août, 2007 |Pas de commentaires »

Lo splendore di una bellezza e l’orizzonte di una speranza alla mostra su Santa Sofia

dal sito:

http://www.zenit.org/article-11616?l=italian

 

Lo splendore di una bellezza e l’orizzonte di una speranza alla mostra su Santa Sofia

 Presentata al Meeting la mostra sull’antica basilica bizantina, oggi museo di Istanbul 

 

RIMINI, lunedì, 20 agosto 2007 (ZENIT.org).- Domenica 19 agosto, è stata presentata al Meeting di Rimini la mostra dal titolo “Lo spazio della Sapienza Santa Sofia ad Istanbul” (Rimini Castel Sismondo 19 agosto- 11 novembre).

La mostra cerca di raccontare lo splendore di quella che è stata per quasi un millennio la chiesa più sontuosa della Cristianità e l’esempio di molte chiese dell’Oriente. Iniziata dall’imperatore Costantino nel 337 e conclusa da suo figlio Costanzo nel 360, l’attuale Santa Sofia è quella costruita da Giustiniano il 27 dicembre 537.

Opera degli architetti Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto, l’archiettura di Santa Sofia è il risultato della combinazione di due tipologie come il Pantheon di Roma e la Basilica Costaniniana di San Pietro. Decorata con marmi policromi e mosaici a fondo d’oro, ha subito crolli, ricostruzioni, combattimenti e saccheggi.

Nel 1953 divenne museo nell’ambito della laicizzazione dello Stato turco voluto da Atatürk, soprannome dato a Mustafa Kermal, primo Presidente della Repubblica Turca.

Intervistato da ZENIT, Riccardo Piol, co-curatore della mostra, ha raccontato che l’idea è nata in modo semplicissimo: Marina Ricci, giornalista di “Canale 5”, andando a Istanbul su invito del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli per un viaggio in preparazione della vista del Santo Padre ha avuto l’occasione di vedere Santa Sofia. E’ tornata a casa con una foto sul cellulare della Madonna dell’abside ed ha convinto gli amici di Comunione e Liberazione che andava raccontata.

“Anche al fotografo ed al cameraman, che non sono persone particolarmente religiose – ha continuato Piol –, è parso evidente il significato di Santa Sofia, che è una bellezza che ha attraversato e vinto la storia. Ha attraversato il buio della storia senza mai abbandonare l’uomo e senza mai soccombere”.

Il curatore della mostra ha raccontato ancora a ZENIT che c’è subito stata una grande disponibilità del governo turco, in particolare del Presidente del Museo Topkapi Ilber Ortayli, decano degli storici di Istanbul, che ha reso possibile l’ingresso in Santa Sofia e la realizzazione di servizi fotografici e filmati.

Grande disponibilità anche da parte dell’Ambasciatore turco presso lo Stato italiano, Ugur Ziyal, che ha subito concesso il patrocinio per la mostra, esprimendo anche grande apprezzamento per l’iniziativa.

Piol ha quindi spiegato che l’obiettivo è quello di “raccontare come la bellezza di Santa Sofia abbia vinto la storia. Abbiamo riportato testi dell’epoca bizantina e della prima epoca ottomana e tutti dicevano ‘è bellissima, è il cielo in terra’”.

“E quella bellezza è la stessa che colpisce l’uomo di oggi e che comunque fa sì che Santa Sofia, chiesa cristiana e madre delle chiese della cristianità, moschea e madre di tutte le moschee, oggi museo, rimane un punto in cui la bellezza pone la domanda su ciò che la genera”, ha aggiunto.

Secondo Piol, “Santa Sofia ha vinto veramente il tempo. Ha vissuto la IV Crociata, la presa di Costantinopoli da parte degli Ottomani, l’incoronazione di re santi e di re tremendi”.
“Ha visto lo scisma la cui bolla è stata posta su un suo altare. Ha sofferto l’uomo e d ha conquistato l’uomo. E’ sopravvissuta a tutto questo, per cui la potenza che emana è enorme e difficile da spiegare, c’è solo da farsi prendere dallo stupore”.

“L’obiettivo della mostra – ha spiegato il curatore – è quello di far vedere come le realtà ed i siti della cristianità dei primi cristiani sia un patrimonio universale e possa ssere fonte di nuove collaborazioni. La mostra intende riprodurre quella sensazione di stupore che abbiamo provato quando abbiamo visitato Santa Sofia.”

“Per cui c’è un impatto emotivo e visivo molto forte, basato sia sulle immagini sia sui video che sull’audio, e poi tanti testi diversi, cronache delle varie epoche”, ha continuato.

Nella conferenza di presentazione l’Ambasciatore turco in Italia, Ugur Ziyal, ha spiegato che la mostra “valorizza un patrimonio umano da far crescere perché rappresenta il simbolo del dialogo, della tolleranza e dell’amicizia, che ci si augura rafforzi i rapporti culturali di questa collaborazione italo-turca”.

Ilber Ortayli, Presidente della Topkapi Palace Museum, ha sottolineato che “nonostante tutte le trasformazioni Santa Sofia non ha mai cambiato nome e anche in questo può essere considerato patrimonio comune, da consegnare al rispetto e all’ammirazione di tutti”.

Fabrizio Bisconti, Segretario della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, ha palato di una “mostra che suggestiona e avvolge il visitatore”.

Antonio Meneguolo, Vicario Episcopale per gli Affari Economici e moderator Curiae della diocesi di Venezia, ha raccontato come alcuni tesori di Costantinopoli raccolti in San Marco a Venezia, siano ora presenti alla mostra.

Marina Ricci ha invece concluso affermando che “Santa Sofia è bella e per noi rappresenta una pace reale, che può partire dal comune riconoscimento di bellezza”.

Alla Presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, è giunto anche un messaggio del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I in cui è scritto “sono commosso del vostro interesse per questo monumento, dove è possibile scoprire che il nostro Dio è amore e chiama tutti alla verità”.

Nel messaggio Bartolomeo I afferma poi: « Come tutti i templi cristiani da secoli, Santa Sofia ha un unico e insostituibile fine: svolgere la funzione dell’incruenta mistagogia con la quale si realizza l’unione dei fedeli con Dio, cioè la loro divinizzazione”.

“Non ci disturba però il fatto che al giorno di oggi questo tempio non sia disposto al fine per il quale fu costruito, benché tutti noi cristiani avremmo desiderato il suo uso per motivi di culto, come d’aldronde era nelle intenzioni dei suoi costruttori”, ha continuato.

“Come disse il primo martire Stefano per il Tempio di Salomone, ‘l’Altissimo però non abita in templi manufatti. Il cielo è il mio trono e la terra sgabello ai miei piedi; qual casa mi edificherete, dice il Signore, e quale sarà il luogo del mio riposo? Non è forse stata la mia mano a fare tutto questo?’”, ha poi concluso. 

 

buona notte

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Lo spirito di proprietà o la povertà in Spirito ?

San Giovanni della Croce (1542-1591), carmelitano, dottore della Chiesa
Avvisi e sentenze

Lo spirito di proprietà o la povertà in Spirito ?

Non abbiate nessun desiderio se non quello di entrare, solo per amore di Cristo, nel distacco, nel vuoto e nella povertà riguardo a tutto quanto esiste sulla terra. Non proverete altri bisogni che quelli ai quali avrete così sottomesso il vostro cuore ; il povero in Spirito non è mai così felice quanto quando si trova nell’indigenza ; colui che ha un cuore che non desidera nulla, vive sempre nell’agiatezza…

I poveri in Spirito danno con grande liberalità tutto quanto possiedono. La loro gioia è di sapere farne a meno, offrendolo per amore di Dio e del prossimo. Non solo i beni, le gioie e i piaceri di questo mondo ci imgombrano e ci fanno perdere tempo nella nostra marcia verso Dio, ma pure le gioie e le consolazioni spirituali sono un ostacolo nella nostra marcia in avanti se le riceviamo o le ricerchiamo con uno spirito di proprietà.

San Bernardo – immagine e breve biografia

San Bernardo - immagine e breve biografia dans Santi

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dal sito:

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San Bernardo – Digione, Francia 1090 – Chiaravalle-Clairvaux, 20 agosto 1153

A ventidue anni si fa monaco, tirando con sé una trentina di parenti. Il monastero è quello fondato da Roberto di Molesmes a Cîteaux (Cistercium in latino, da cui cistercensi). A 25 anni lo mandano a fondarne un altro a Clairvaux, campagna disabitata, che diventa la Clara Vallis sua e dei monaci. È riservato, quasi timido. Ma c’è il carattere. Papa e Chiesa sono le sue stelle fisse, ma tanti ecclesiastici gli vanno di traverso. È severo anche coi monaci di Cluny, secondo lui troppo levigati, con chiese troppo adorne, « mentre il povero ha fame ».
Ai suoi cistercensi chiede meno funzioni, meno letture e tanto lavoro. Scaglia sull’Europa incolta i suoi miti dissodatori, apostoli con la zappa, che mettono all’ordine la terra e l’acqua, e con esse gli animali, cambiando con fatica e preghiera la storia europea. E lui, il capo, è chiamato spesso a missioni di vertice, come quando percorre tutta l’Europa per farvi riconoscere il papa Innocenzo II (Gregorio Papareschi) insidiato dall’antipapa Pietro de’ Pierleoni (Anacleto II). E lo scisma finisce, con l’aiuto del suo prestigio, del suo vigore persuasivo, ma soprattutto della sua umiltà. Questo asceta, però, non sempre riesce ad apprezzare chi esplora altri percorsi di fede. Bernardo attacca duramente la dottrina trinitaria di Gilberto Porretano, vescovo di Poitiers. E fa condannare l’insegnamento di Pietro Abelardo (docente di teologia e logica a Parigi) che preannuncia Tommaso d’Aquino e Bonaventura.
Nel 1145 sale al pontificato il suo discepolo Bernardo dei Paganelli (Eugenio III), e lui gli manda un trattato buono per ogni papa, ma adattato per lui, con l’invito a non illudersi su chi ha intorno: « Puoi mostrarmene uno che abbia salutato la tua elezione senza aver ricevuto denaro o senza la speranza di riceverne? E quanto più si sono professati tuoi servitori, tanto più vogliono spadroneggiare ». Eugenio III lo chiama poi a predicare la crociata (la seconda) in difesa del regno cristiano di Gerusalemme. Ma l’impresa fallirà davanti a Damasco.
Bernardo arriva in una città e le strade si riempiono di gente. Ma, tornato in monastero, rieccolo obbediente alla regola come tutti: preghiera, digiuno, e tanto lavoro. Abbiamo di lui 331 sermoni, più 534 lettere, più i trattati famosi: su grazia e libero arbitrio, sul battesimo, sui doveri dei vescovi… E gli scritti, affettuosi su Maria madre di Gesù, che egli chiama mediatrice di grazie (ma non riconosce la dottrina dell’Immacolata Concezione).
Momenti amari negli ultimi anni: difficoltà nell’Ordine, la diffusione di eresie e la sofferenza fisica. Muore per tumore allo stomaco. È seppellito nella chiesa del monastero, ma con la Rivoluzione francese i resti andranno dispersi; tranne la testa, ora nella cattedrale di Troyes.
Alessandro III lo proclama santo nel 1174. Pio VIII, nel 1830, gli dà il titolo di Dottore della Chiesa. 


Autore:
Domenico Agasso 

 

Publié dans:Santi |on 20 août, 2007 |Pas de commentaires »

MCCALL SMITH: LA MIA DETECTIVE AFRICANA

dal sito on line del giornale « Avvenire »

MCCALL SMITH: LA MIA DETECTIVE AFRICANA


Lo scrittore inglese nato nello Zimbabwe spiega perché la protagonista della sua fortunata serie di gialli piace così tanto: «È un’investigatrice ottima, ma sa che non si può risolvere tutto» 

Mrs Marple color ebano 

La proprietaria della «Ladies’ Detective Agency» dimostra che in Botswana esiste una parte sana del continente, dove vivono persone che conoscono il valore cristiano del perdono, la tolleranza, e non cedono alla tentazione della rabbia, anche nella povertà 

Di Laura Silvia Battaglia  

La sua Mma Ramotswe è una sorta di Miss Marple africana. Ma, della creatura in giallo, diventata famosa come alter ego della romanziera Agatha Christie, questa signora dai nervi saldi possiede solo la voglia di scovare la verità, al di là delle apparenze. Perché Precious Ramotswe, protagonista di una delle serie più fortunate della giallistica mondiale, firmata da Alexander McCall Smith, è più che una detective. È una signora incline al buon senso e al perdono ma a cui per prima capitano una serie di guai: per farvi fronte lei sa che più che la giustizia può la misericordia e più che la verità – a volte, anche se costa ammetterlo – può il mistero. Il suo creatore, ex docente di Medicina legale all’Università di Edimburgo (ma suona anche in un’orchestra amatoriale e si dice cucini da dio, pur se il suo vero divertimento è, come ci confessa, la scrittura), – ambienta queste amabili storie in Botswana. L’ultima della serie, appena uscita in Italia per Guanda (Un gruppo di allegre signore), ruota intorno a un enigma la cui chiave di volta è una zucca gialla e introduce una rivoluzione copernicana nella storia della Ladies’ Detective Agency di Gaborone: da oggi in poi, chi lavorerà per Precious Ramotswe, nelle pause dall’impiego non sarà più costretto a bere il tè rosso. Il tè, in queste storie, è quasi un calumet della pace: una cosa insolita, come insolita è questa narrazione rispetto alle molte altre sull’Africa.
«L’Africa che descrivo – confida l’autore – è un’Africa pacificata, molto lontana da quella di cui ogni tanto si occupa la stampa. Eppure esiste. È un vero peccato che ci si occupi solo di ciò che non funziona e il mio desiderio è restituire verità all’Africa buona».
La sua infanzia è stata vissuta in Zimbawe. Quanto è cambiato questo Paese da quando lei lo ha conosciuto per la prima volta?
«Moltissimo, credo. Sfortunatamente sono lontano da questo paese da moltissimi anni: non so più come sia, davvero».
Vale anche per il Botswana, come effetto della glo balizzazione, la perdita di alcuni valori tradizionali? È una situazione che ben si denuncia nell’ultimo libro della serie, quando Mma Ramotswe lamenta di vedere che i giornali descrivono gli individui sempre meno come persone e sempre più come consumatori.
«Ogni parte del mondo è soggetta alla pressione della globalizzazione e stiamo perdendo il senso del locale per il globale. Il Botswana non è esente da questo processo».
Nello stesso libro si dice: « Una vita senza storie da raccontare non è una vita e sono le storie a legarci gli uni agli altri ». In che modo e con quale intensità uno scrittore si lega alle proprie storie e ai propri personaggi? Lo fa fino al punto di non riuscire ad abbandonarli? Questo è l’ennesimo romanzo della serie dedicato a Precious Ramotswe.
«La mia lunga frequentazione con Mma Ramotswe e con i suoi amici suggerisce che io abbia un debole per questi personaggi. Ma credo che questa forma di fedeltà e di lunga amicizia sia una cosa positiva, in un mondo dominato dall’estraneità dei rapporti e dalla fretta. Gli uomini siamo abitudinari, ci affezioniano alle cose. Con le scarpe, ad esempio: se hai camminato tanto con un paio ai piedi, diventano vecchie amiche, non riesci a lasciarle. Mentre le nuove, non sempre ci stanno comode. Così è per me con i miei racconti e con le mie tre serie (le altre due sono 44 Scotland Streete Isabel Dalhousie, di cui, in ottobre, uscirà per Guanda l’ultimo episodio, Il piacere sottile della pioggia, n.d.r.). Credo che gli italiani in questo mi possiate capire: voi conoscete l’importanza della frequentazione e dell’amicizia coltivata nel tempo».
Nel mondo di Mma Ramotswe sembrano vigere, e alla fine trionfare, dei valori che si possono definire cristiani: il perdono e la tolleranza, l’amore che ci redime dalla sofferenza e dal dolore, il senso dell’attesa, lo sforzo di non cadere nella tentazione della rabbia. Era suo desiderio creare un personaggio che con i suoi comportamenti rendesse più avvicinabile l’ese rcizio di una morale?
«Non è stata una cosa preventivata. Ho solo deciso di creare un personaggio simile alle persone che si possono incontrare in Botswana e Mma Ramotswe ne è il risultato. È successo che nel momento in cui avevo deciso di descriverla, lei si fosse presentata con questi valori. Ho solo riportato ciò che ho « visto »».
C’è un passaggio nel suo libro in cui ci si interroga sul rapporto tra verità e coscienza a proposito dei sacerdoti. Si tratta di un tema delicato e quanto mai attuale…
«Sì, i sacerdoti combattono battaglie morali, e più di una battaglia, credo, anche con loro stessi. Ma chi, pur non essendo prete, non lo fa?»
Si inquadra nell’ottica precedente la riflessione sul mistero? Mma Ramotswe è una donna che sa risolvere tutto. Eppure sembra che lei, McCall Smith, ci tenga a sottolineare che non tutto si può risolvere.
«La vita è incerta e spesso un po’ oscura. Noi cerchiamo di farci strada in questo buio per come possiamo. Mma Ramotswe sa che spesso non ci sono soluzioni: lei semplicemente cerca la soluzione migliore nelle cose difficili e scomode».
C’è un mistero irrisolto nella sua vita di scrittore che affiderebbe con fiducia alla sua Miss Marple africana?
«Che faccenda intrigante! Mah, a dire il vero non saprei. Ma ci penserò, mai dire mai». 

 

per la rubrica di bioetica intervento del dr. Carlo Valerio Bellieni: L’aborto non salvaguarda la salute della donna

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-11609?l=italian

 

L’aborto non salvaguarda la salute della donna

 ROMA, domenica, 19 agosto 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento del dottor Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario « Le Scotte » di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita. 

* * * 

Di recente la posizione della Chiesa in tema di aborto è stata oggetto di attacco, specialmente da quando ha puntato il dito verso certe organizzazioni internazionali che proclamano l’aborto come un diritto da diffondere al pari del diritto all’acqua o ai farmaci salvavita. Il fatto che non viene compreso è che la condanna non nasce unicamente da valutazioni morali (la vita è sacra dal momento del concepimento) che tuttavia hanno un indiscutibile fondamento scientifico (l’analisi del DNA attesta che dal concepimento è presente e vivo un essere umano diverso dalla madre), ma riguarda anche l’impatto psicologico e talora negativo sul piano fisico che l’aborto ha su chi lo compie. Vediamo di capire dunque due punti: primo, se permettere l’aborto sia un passo a favore della salute della donna, e secondo, se la definizione di “salute” che implica il diritto all’aborto ci soddisfa.

Salute della donna: Varie legislazioni permettono l’aborto in base all’idea che la nascita di un bambino non voluto sia un rischio per la salute della donna. In realtà questo è l’unico caso in tutta la medicina in cui il paziente (in questo caso la donna) si autodiagnostica la malattia (il fatto che la nascita sia pericolosa per la sua salute) e fa le sue scelte “terapeutiche” in totale autonomia dal medico, almeno nei primi mesi. Quante sbagliano “diagnosi”? Possono esserci soluzioni “terapeutiche” alternative? L’assoluta discrezionalità della scelta ci impedisce di saperlo.

Ma è il bambino un pericolo per la salute della madre oppure è l’aborto ad essere pericoloso per la donna? Il Journal of Child Psychology & Psychiatry del 2006, riporta che le donne che abortiscono sono a maggior rischio di problemi mentali (depressione, ansia, comportamenti suicidi) rispetto alle altre; e già molti studiosi hanno parlato dei rischi da aborto chimico (Ann Pharmacother. 2005 Sep;39(9):1483-8). Non solo, ma una recente ricerca pubblicata dal British Medical Journal mostra che portare a termine senza abortire una gravidanza non desiderata ha lo stesso livello di rischio di depressione per la madre che l’aborto di una gravidanza non desiderata, dunque l’argomento che abortendo si preserva la madre da patologie depressive legate alla nascita indesiderata viene meno.

Ma ancora, uno studio norvegese mostra che le donne che hanno avuto un aborto spontaneo mostrano problemi psicologici maggiori di quelle che hanno avuto un aborto volontario, ma solo nei primi giorni; a distanza di 2 e poi di 5 anni, i problemi delle prime scompaiono, mentre persistono i disagi psicologici di quelle che hanno avuto un aborto volontario. Dunque, ciò che secondo questa ricerca provoca disagio mentale profondo non è la perdita del figlio, ma averlo fatto volontariamente. E’ dunque l’aborto una maniera per preservare la salute della donna? Esistono motivi per dubitarne.

Forse è per questo che i medici inglesi sono sempre più restii a praticare aborti, come recentemente segnala il quotidiano britannico Independent; anche perché ormai si sa bene che dalla 20° settimana il feto ha la possibilità di provare dolore durante l’intervento e perché con le ecografie possiamo chiaramente renderci conto della sua umanità. Per esempio possiamo vedere il feto piangere o camminare

Ma il problema nasce quando si domanda cosa è la salute che con l’aborto si vorrebbe tutelare. Perché in questo caso ci si rifà sempre alla criticatissima definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948 secondo cui la salute sarebbe il “completo benessere psico-fisico-sociale”. Capiamo bene come questo “pieno benessere” non esiste: chi di noi non ha qualche piccola o grande contrarietà o allergia? Ma capiamo anche che con questo criterio chiunque potrebbe compiere atti lesivi verso altre persone, giustificandole con il fatto che se non li avesse compiuti la sua “salute” ne avrebbe avuto un danno. Pensiamo per esempio ad un marito che picchiasse la moglie dicendo che altrimenti avrebbe avuto un imprecisato nocumento per la salute psico-fisica.

La giustificazione del perché con un adulto questo non sia possibile e con un feto sì, è data correntemente dal fatto che il feto non è nato, dunque non sarebbe una persona e avrebbe per questo meno diritti. E’ una posizione difficilmente sostenibile oggi che gli studi moderni ci mostrano non solo l’umanità del feto, ma tutta la sua sensibilità, e anche le ragioni biologiche per non reputarlo un’appendice della madre. Dunque, tutto l’impianto del diritto all’aborto si regge su una definizione zoppicante.

La tutela della salute della donna basata sulla diffusione dell’accesso all’aborto ha mostrato i suoi limiti. Essa, infatti, invece che avere come oggetto la cancellazione della vita nascente, dovrebbe partire da un aiuto sociale ed economico prioritario ed obbligatorio per gli Stati verso le donne in difficoltà; ma anche da un impulso culturale verso una maggiore conoscenza dei propri diritti di gestante e della crescita psico-fisiologica propria e del bambino in utero.

Publié dans:bioetica |on 20 août, 2007 |Pas de commentaires »
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