Una « Madonnella » a Roma
Nome Madonna, Rione Regola, Secolo Autore Anonimo, Tecnica Mosaico, Cornice Stucco, Altezza da terra metri 6, Ubicazione Piazza Campo de’ Fiori,http://www.photoroma.com/foto.php?City=rm&ID1=354&ID2=0
Nome Madonna, Rione Regola, Secolo Autore Anonimo, Tecnica Mosaico, Cornice Stucco, Altezza da terra metri 6, Ubicazione Piazza Campo de’ Fiori,http://www.photoroma.com/foto.php?City=rm&ID1=354&ID2=0
dal sito Zenith:
http://www.zenit.org/article-11701?l=italian
L’errore dell’aborto selettivo fa riemergere l’orrore eugenetico
E’ giunta l’ora di ripensare la legge 194, afferma Carlo Casini
ROMA, mercoledì, 29 agosto 2006 (ZENIT.org).- Sulla scia delle reazioni all’aborto delle gemelline avvenuto all’Ospedale San Paolo del capoluogo lombardo, l’onorevole Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita (MpV), ha dichiarato a ZENIT che “l’episodio di Milano prova, ancora una volta, un effetto negativo della legge n. 194/1978”.
A questo proposito, Casini parla di una certa “equivocità dell’art. 6” della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza e sostiene che “nonostante, apparentemente, non sia consentito l’aborto eugenetico, è oramai accettata l’idea che si possa discriminare tra esseri umani”.
“L’aborto è sempre un male – ha sottolineato Casini –, ma la selezione embrionale aggiunge ingiustizia ad ingiustizia, tanto più se ricordiamo che ci sono famiglie disposte ad adottare un bambino down e che il mongolismo consente oggi di condurre una vita felice”.
Il noto giurista ha rilevato che “l’errore di Milano è venuto alla luce per l’eccezionalità del caso. Sarebbe rimasto nascosto se la gravidanza non fosse stata gemellare”.
E “purtroppo – ha aggiunto – l’errore diagnostico e l’errore tecnico nell’aborto sono frequenti. Essi sono stati evidenziati nei casi eccezionali di bimbi sopravvissuti per qualche tempo all’I.V.G. (a Milano, a Firenze, a Sassari ecc. ecc.), ma nulla sappiamo negli altri casi ben più numerosi di aborti cosiddetti ‘terapeutici’”.
Il Presidente del MpV ha precisato che “l’esperienza dei Centri di Aiuto alla Vita e del servizio telefonico ‘Telefono Rosso’ (06/3050077) prova l’errore diagnostico in molti casi in cui la gravidanza, nonostante la previsione di malformazioni, e l’autorizzazione all’I.V.G., è proseguita a causa dell’aiuto offerto alla donna”.
Anche per questo motivo, da tempo, il MpV sostiene la necessità di “rendere obbligatorio il riscontro diagnostico su ogni feto vittima del cosìddetto aborto ‘terapeutico’”.
Secondo l’onorevole Casini, “i risultati dovrebbero essere comunicati al Ministro della Salute perché ne possa riferire ogni anno al Parlamento”.
“E’ giunta l’ora di un ripensamento complessivo sulla legge 194/1978 – ha sottolineato il Presidente del MpV – ma intanto il riscontro diagnostico potrebbe essere preteso come una semplice circolare ministeriale. La legge 194/1978 resta ingiusta nel suo nucleo essenziale ma, almeno, modifichiamone la sua applicazione eliminando l’equivocità delle sue parole”.
Intervistati da ZENIT i due gemelli Luca e Paolo Tanduo, del Gruppo Giovani del Movimento per la Vita Ambrosiano, attivi in molte opere di volontariato nel campo culturale e biomedico, hanno detto di aver appreso “con stupore ed anche un po’ di orrore” quanto accaduto all’Ospedale S. Paolo di Milano.
Secondo i due fratelli, “questo caso ‘grida’ a tutti ancora una volta come col cosiddetto aborto terapeutico si violi il diritto fondamentale dell’uguaglianza di ogni vita umana”, perché “viene detto che l’errore è stato ‘eliminare’ il gemello sbagliato, quello sano, ma noi ci permettiamo di dire che l’errore è che qualcuno si senta autorizzato a selezionare chi deve vivere e chi no”.
“Purtroppo – hanno concluso – anche il secondo gemellino è stato abortito, ma anche nel caso avessero fatto vivere solo il gemello sano, da gemelli, diciamo che gli avrebbero tolto un fortissimo legame di fratellanza”.
Interpellata da ZENIT, la dr.ssa Clementina Isimbaldi che cura la Rassegna Stampa di Medicina e Persona, ha sottolineato che “non si è trattato di una fatalità”, come hanno scritto in tanti.
“In realtà – ha detto – non si tratta solo di responsabilità medica; è l’uomo che manca, non c’è più l’uomo: è smarrita la ragione, la dote umana inconfondibile che fa la diversità dell’uomo rispetto agli altri esseri viventi. E’ smarrita la ragione e ridotto l’uomo”.
Secondo l’esponente di Medicina e Persona quanto accaduto è “un segnale del decadimento umano, è la mancanza di percezione della gravità di ciò che è accaduto e quindi della colpa, della propria colpevolezza, dell’essere stati all’origine della morte di due bambini, perché così è stato. Ammettere l’errore è l’inizio della possibilità di cambiare, di tornare cioè ad essere uomini”.
“Preoccupante – secondo la Isimbaldi – anche l’aspetto professionale dei medici”. In questo caso infatti “il ‘fare medico’ diviene mediocre, viene a patti con l’empirismo più grossolano, accettando una scommessa simile al gioco della roulette russa: premere il grilletto su uno dei due gemelli, rischiando di perdere anche il bambino sano, pur di far fuori il malato”.
“Qui l’errore – sostiene – è colpevole. Se si perde la ragione che dice: ‘Fermati, non hai in mano tutti gli elementi per poter decidere, sii uomo, rispetta l’altro uomo, volere non è potere’, anche l’aspetto professionale, scade in mediocrità ed empirismo senza rimedio”.
La Isimbaldi ha quindi sottolineato che “nell’epoca post-illuminista e tecnologica in cui viviamo, persa la ragione, la medicina torna ad essere magia. Come disse profeticamente Lejeune nel 1976: ‘Il vero pericolo è nell’uomo; nello squilibrio sempre più inquietante tra la sua potenza che aumenta e la sua saggezza che regredisce [...] E’ saggio essere un buon apprendista, è il dovere di ogni scienziato, ma è folle giocare allo stregone; nessuno può mai diventarlo’”.
“Chi persegue il mito di una società senza handicap – ha commentato poi –, diviene egli stesso vittima di questa utopia, da una parte scadendo in capacità tecnica e dall’altra perseguendo la selezione eugenetica al prezzo più alto: la morte di altri uomini”.
“E’ guerra dichiarata al bambino diverso – ha osservato l’esponete di Medicina e Persona –, fino a far morire un altro, sano, pur di raggiungere l’obiettivo. Per salvare il gemello sano si è arrivati a uccidere a caso, a procedere ugualmente”.
“Inaccuratezza che è segno di disprezzo per la vita, per qualunque vita, sana o malata che sia. La selezione eugenetica non è per l’uomo, ma contro l’uomo, contro ogni uomo”, ha poi concluso.
dal sito on line del giornale « Avvenire:
Dure parole del Papa contro gli incendiari
L’uomo e l’ambiente le vette da preservare
La Terra ci è data in dono, scempiare il dono è segno non solo di stoltezza fallimentare, ma di una ingiustizia che chiede eticamente conto della nostra diserzione, e ne esige la correzione
Giuseppe Anzani
Dentro la nuvola nera di fumo che sale dal fianco della montagna guizza improvvisa una fiamma, si spande, divampa, e in breve disegna un fronte di fuoco che sale, diventa una rossa muraglia che il vento sospinge alla cima. Si torcono gli alberi come tizzoni, crepita la macchia mediterranea incenerendosi sul terreno arroventato. È l’incendio, un nuovo maledetto incendio, uno dei 7.164 incendi boschivi che hanno bruciato quest’anno in Italia 112.740 ettari (e il conto non è chiuso) con un aumento del 250 per cento rispetto all’anno scorso. Allarme, emergenza, intervento. Vigili del fuoco, Protezione civile, volontari si prodigano allo stremo, per domare il rogo (in un sol giorno si sono contati 304 focolai e 9mila chiamate); i Canadair ronzano sopra le fiamme lanciando la loro goccia d’acqua nel lago di fuoco. Per un piccolo punto spento, un altro punto s’innesca e divampa, a capriccio del vento. Occorrono ore lunghe, a volte giorni interi, per vincere. Quando poi l’aver vinto è solo più il censimento degli scheletri arborei residui, e della coltre di cenere che copre la vita distrutta d’un intero ecosistema, fatto anche da milioni di piccoli animali sterminati, come un lenzuolo di morte. Che non sia una lebbra tutta e sola italiana non ci consola. In Spagna l’estate è stata il medesimo inferno, in Grecia l’incendio del Peloponneso che ha divorato boschi e villaggi abitati ha fatto 63 morti. La tragedia delle terre più belle del mondo, affacciate al Mediterraneo, è fatalità, sventura, bersaglio di natura matrigna? Ma no, non ci crede più nessuno. È colpa umana, è dolo persino, è delitto. E sul profilo delittuoso si rinfocola periodicamente l’emozione del risentimento collettivo, che assimila ora la caccia ai piromani, in Grecia, ai modelli dell’antiterrorismo. Sulla repressione, da noi, la legge è già dura di suo: da quattro a dieci anni di carcere, per l’incendio boschivo. Resta però il solito problema di scovare i soliti ignoti. Con l’inquietudine di immaginare per versioni su progetti incendiari che dal fuoco cercano profitto: talvolta, si dice, per pascoli, per “lavoro” di spegnimento e ripulitura, o per appuntamenti di remunerato rimboschimento futuro. Ci appare allora un picco d’insipienza che sa di follia, se non si spengono – prima con la politica che col carcere postumo alla tragedia avvenuta – le tentazioni di un casalingo terrorismo del fuoco. Ieri il Papa ha detto parole dure e severe sulle «azioni criminose che mettono a rischio le persone ma anche l’ambiente, bene prezioso per l’umanità». Le persone per prime, si capisce; ma l’ambiente collocato in simultaneo scenario, come habitat del miracolo della vita, e per ultimo vertice della vita umana. Qualcosa lega insieme l’ecologia e la teologia, nell’unità d’una creazione “cosmica”, cioè ordinata e sapiente, nella quale il vertice-uomo fatto libero non può diventare l’elemento caotico che sconcia il disegno. La terra ci è data in dono, il dono va custodito e amato, e scempiarlo è il segno non soltanto di una stoltezza fallimentare (amartìa) che ci pone in zona erronea, ma di una ingiustizia (adikìa) che chiede eticamente conto della nostra diserzione, e ne esige la correzione. Questo mi sembra il senso delle brevi e pregnanti parole del Papa. Ci facciamo “civili” quanto più allacciamo la storia del mondo all’intuito dell’Amore che ce l’ha consegnato.
quando ero più giovane ho letto e meditato molte volte sui libri di Divo Barsotti, è stato una delle mie guide nel cammino del Signore anche se non l’ho mai conosciuto personalmente, oggi Sandro Magister riprende la lettura di questo sacerdote e mistico, dal sito:
http://chiesa.espresso.repubblica.it/printDettaglio.jsp?id=163161
Divo Barsotti, un profeta per la Chiesa d’oggiAnticipò di decenni le linee maestre dell’attuale pontificato. E oggi se ne scopre la grandezza, anche grazie a una mostra a lui dedicata. Visse a Firenze, nel vivo dei contrasti del Concilio e del dopoconcilio. Un commento critico del teologo Paolo Giannoni
di Sandro Magister
ROMA, 28 agosto 2007 – Al Meeting internazionale organizzato come ogni anno a Rimini in agosto, Comunione e Liberazione ha dedicato una mostra a una personalità cristiana immeritatamente poco nota, eppure grandissima: « Divo Barsotti, l’ultimo mistico del ’900″.
Divo Barsotti – morto a 92 anni d’età il 15 febbraio del 2006 nel suo eremo di San Sergio a Settignano, sopra Firenze – fu sacerdote, teologo, fondatore della Comunità dei Figli di Dio e insigne mistico e maestro spirituale.
Un anno prima di lui era morto a Milano don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione. I due non si incontrarono mai di persona, eppure si stimavano moltissimo.
Il tema che Comunione e Liberazione ha fissato per il Meeting di quest’anno è stato: « La verità è il destino per il quale siamo fatti ».
E proprio sul primato della verità don Barsotti fondò tutta la sua vita e il suo insegnamento, in profetica sintonia con le linee maestre dell’attuale pontificato. Un motivo in più per riscoprirne e valorizzarne l’eredità.
* * *
In vita, Divo Barsotti si trovò spesso solo e incompreso. Quand’era giovane sacerdote, isolato nella sua diocesi di San Miniato. Arrivato a Firenze, capito e sostenuto da pochi. Rimasto da solo, per anni, anche nel suo eremo di Settignano, abbandonato dai suoi primi seguaci. E anche dopo, ignorato e sottovalutato fino al termine della vita da gran parte dei media e dell’intelligencija cattolica.
Era un autodidatta, mai laureato nelle scienze teologiche. Ha scritto molto: 160 libri e innumerevoli articoli e pagine sparse, ma nessuna opera sistematica. Eppure la sua produzione scritta e orale testimonia una profondità, una coerenza, una lungimiranza, un acume critico, una libertà di spirito che oggi si rivelano assolutamente fuori dal comune.
Quando in Italia quasi nessuno conosceva la spiritualità russa, egli fu il primo a introdurla, con il primo dei suoi libri, nel 1946, e poi a diffonderla. Al grande santo russo Sergio di Radonez intitolò il suo eremo di Settignano, sulle colline di Firenze.
Ma quando l’orientalismo divenne una moda, più estetizzante che spirituale, egli la bollò con giudizi taglienti: « Noi fiorentini abbiamo il Beato Angelico, il Masaccio, Giotto, Cimabue. Forse non reggono il confronto con le icone russe? Ma sì che lo reggono e lo vincono anche ».
Quando in Italia e nelle facoltà teologiche romane, negli anni Quaranta e Cinquanta, stancamente dominava la manualistica, Barsotti non perdeva un libro dei grandi promotori d’oltralpe del « ressourcement », del ritorno alle fonti bibliche, patristiche, liturgiche: Jean Daniélou, Louis Bouyer, Henri De Lubac.
Quando nel 1951 pubblicò quel suo capolavoro intitolato « Il mistero cristiano nell’anno liturgico », egli fu il primo in Italia a sviluppare e approfondìre tesi affini a quelle di Odo Casel – il benedettino tedesco che sosteneva l’oggettiva efficacia della liturgia nel ripresentare l’avvenimento cristiano – prima ancora d’averne lette le opere.
Ma non tacque mai i punti deboli degli autori anche da lui più stimati. A Hans Urs von Balthasar – che prima di morire nel 1988 fu per sei mesi suo direttore spirituale – Barsotti non risparmiò le critiche per le sue tesi dubitative sull’inferno: « Se non ci fosse l’inferno, io non potrei accettare il paradiso ».
Non meno critico era con quelli che si affidavano a lui come maestro di spirito. Giuseppe Dossetti fu suo discepolo spirituale dal 1951, da quando cioè abbandonò la politica per farsi monaco e sacerdote e dedicarsi integralmente a rinnovare a suo modo la Chiesa, fino alla morte nel 1996. Ma Barsotti non ne approvò affatto tutte le tesi politiche e teologiche. Un giorno scrisse nel suo diario: « Sembrerebbe meglio per don Giuseppe ritirarsi in qualche isolotto a Hong Kong ». Soprattutto, Barsotti non accettava che Dossetti fosse così legato a Giuseppe Alberigo e alla sua interpretazione del Concilio Vaticano II e del dopoconcilio come « nuovo inizio » della storia della Chiesa. Giudicava la frequentazione tra i due un « pericolo ». Arrivò a porre a Dossetti l’aut aut: o la rottura con Alberigo o la fine della direzione spirituale.
Lo stesso avvenne con altri eminenti cattolici fiorentini, Giorgio La Pira, Gianpaolo Meucci, Mario Gozzini, quando non ne approvava le posizioni politiche ed ecclesiali.
* * *
Anche ai papi don Barsotti rivolse delle critiche, che per lui erano un atto di giustizia « voluto dal Signore ».
Nel 1971 fu chiamato in Vaticano a predicare gli esercizi spirituali d’inizio Quaresima al papa Paolo VI e alla curia romana. Nelle prediche toccò il tema del potere di Pietro e disse – come poi ricordò nei suoi diari – che « la Chiesa ha un potere coercitivo perché Dio glielo ha affidato, e allora deve usarlo. In quegli anni infatti nella Chiesa dilagava l’anarchia e nelle Chiese del Nord Europa ci si faceva beffe del Santo Padre ».
Per « potere coercitivo » Barsotti intendeva l’affermazione della verità e la condanna dell’errore, esattamente ciò che il Concilio Vaticano II e gran parte della gerarchia cattolica dopo di esso avevano rinunciato a fare, come egli disse e scrisse più volte: una rinuncia « che praticamente negava l’essenza stessa della Chiesa ».
Di Giovanni Paolo II Barsotti era convinto ammiratore, per lo stesso motivo per il quale l’intelligencija cattolica lo svalutava: « Ciò che maggiormente ci ha fatto capire che Cristo è presente in questo papa è l’esercizio di un magistero che, più dell’ultimo Concilio, ha confermato la verità e ha condannato l’errore ». Un papa « che ha sempre insegnato l’esclusività della fede cristiana: solo Cristo salva ».
Ma anche a papa Wojtyla « colonna della Chiesa » Barsotti non ha taciuto le sue critiche, ad esempio sull’incontro interreligioso di Assisi del 1986. In esso, scrisse, « le intenzioni del papa erano chiarissime ». Non però le deduzioni di tanti uomini di Chiesa, i quali « affermano che l’evento di Assisi è il primo passo di un cammino che dovrebbe realizzare l’unità nella pace di ogni fede dogmatica ».
In due lettere, Barsotti scrisse a Giovanni Paolo II che il suo magistero di papa era « più importante o almeno altrettanto importante del magistero dell’ultimo Concilio », il quale « aveva messo solo delle virgole al discorso continuo della tradizione », e quindi « non si capisce perché si citi quasi esclusivamente questo Concilio ultimo ».
Barsotti godeva di silenzioso rispetto anche tra i cattolici progressisti, ma non perché ne assecondasse le aspettative. Tutt’altro. Nella vicenda della Chiesa italiana e mondiale egli rappresentava la resistenza alla deriva dopoconciliare, in nome dei « fondamentali » della fede cristiana. Tra gli uomini di Chiesa di grado elevato ne vedeva pochi altrettanto decisi a « mettere l’accento sull’essenziale, sulla novità di Cristo, che è la cosa di cui oggi la Chiesa ha più bisogno ». Nel 1990 ne indicò due, Joseph Ratzinger e Giacomo Biffi. Che divennero in seguito i suoi due « papabili » preferiti.
E quando il primo dei due divenne papa per davvero, nel 2005, avvenne quasi un passaggio di testimone. Mentre Barsotti, ultranovantenne, infermo, pian piano cessava di scrivere e parlare, nel pontificato di Benedetto XVI venivano affermate « urbi et orbi » – con l’autorità del successore di Pietro – proprio quelle tesi che il prete toscano aveva sostenuto in tutta la sua vita.
* * * È fortissima la somiglianza tra le diagnosi sul Concilio e il dopoconcilio formulate da Barsotti e da Ratzinger prima e dopo la sua elezione a papa, da ultimo nel colloquio del 24 luglio scorso con i preti del Cadore.
È notevole l’affinità tra i due nel cercare alimento nella grande tradizione della Chiesa e nello spezzare questo pane al gran numero dei semplici cristiani. Basti pensare, per Benedetto XVI, ai suoi due cicli delle catechesi del mercoledì: il primo dedicato alla Chiesa apostolica, con i profili ad uno ad uno degli apostoli e degli altri protagonisti del Nuovo Testamento; il secondo dedicato ai padri greci e latini dei primi secoli della Chiesa, ora arrivato a illustrare i grandi vescovi e teologi della Cappadocia, Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa.
È perfetta la coincidenza tra Barsotti e papa Ratzinger nel leggere le Sacre Scritture e penetrarne il senso profondo: non con i soli strumenti della scienza storica o filologica ma alla luce del loro Autore primo, lo Spirito Santo, riconoscibile nella tradizione della Chiesa.
Anche sulla politica e la storia le visioni dei due sono simili. Entrambi contrarissimi all’idea che nella storia terrena si edifichi progressivamente, quasi per naturale evoluzione, un regno di pace e di giustizia. Entrambi certissimi che l’eschaton, l’atto ultimo e definitivo della salvezza dell’uomo e del mondo, è già presente qui ed ora e non è altri che Gesù crocifisso e risorto.
Il « mistero cristiano » è lui, Gesù crocifisso e risorto, che siede alla destra del Padre ma nello stesso tempo si fa pane per gli uomini nell’eucaristia. Nella messa si attualizzano gli eventi del mistero. Anche qui c’è una straordinaria consonanza tra il Barsotti del « Mistero cristiano nell’anno liturgico » e delle successive riflessioni e le omelie di Benedetto XVI nelle messe pontificali.
Dal libro « Gesù di Nazaret », opera capitale di questo pontificato, alla centralità data all’eucaristia, all’enciclica « Deus caritas est » il magistero di Benedetto XVI appare di una coesione abbagliante. La stessa coesione che è apparsa nella vita e nelle opere di Barsotti. In una nota del suo « Mistero cristiano » del 1951 c’è una riflessione su eros e agape che sbalordisce per come anticipi il cuore dell’enciclica di papa Ratzinger.
In entrambi c’è la consapevolezza che la Chiesa vive sul fondamento della verità e che solo dalla « veritas » sgorghi la « caritas », come lo Spirito procede « ex Patre Filioque »: dal Padre e dal Figlio che è il Logos, il Verbo di Dio.
In quello che è forse il suo ultimo scritto pubblico, a commento di un libro uscito nel 2006 sul filosofo cristiano Romano Amerio, Divo Barsottti ha lasciato proprio questa consegna:
« Io vedo il progresso della Chiesa a partire da qui, dal ritorno della santa Verità alla base di ogni atto. La pace promessa da Cristo, la libertà, l’amore sono per ogni uomo il fine da raggiungere, ma bisogna giungervi solo dopo avere costruito il fondamento della verità e le colonne della fede ».
__________
E il suo discepolo Paolo Giannoni riapre la disputa « Firenze contro Roma »
La riscoperta di don Divo Barsotti – con il non lontano avvio della sua causa di beatificazione – rimette al centro dell’attenzione anche il caso della Chiesa di Firenze alla quale egli apparteneva, un caso analizzato da un servizio di www.chiesa del 25 giugno 2007:
> Firenze contro Roma: un cattolicesimo in stato di disagio
All’analisi proposta in quel servizio – da parte soprattutto del professor Pietro De Marco, anche lui di Firenze – ha ora replicato un altro esponente di rilievo del cattolicesimo fiorentino: don Paolo Giannoni, 72 anni, per quasi mezzo secolo docente alla Facoltà Teologica di Firenze e dell’Italia Centrale, oggi monaco benedettino camaldolese ed eremita presso la chiesa di Sant’Andrea a Mosciano.
La replica di don Giannoni – molto ampia e approfondita, con acute critiche al « ricentraggio » dottrinale e al risveglio d’identità cristiana promossi dagli ultimi due papi – è riportata integralmente in quest’altra pagina di www.chiesa:
> Identità cristiana o progetto di potere? Una riflessione sulla Chiesa di Wojtyla e Ratzinger
Nelle tredici cartelle del suo scritto Giannoni cita due volte Barsotti.
Una prima volta ricorda che anche Barsotti, come altri esponenti della Chiesa fiorentina, in alcuni momenti fu mal compreso e osteggiato dalle gerarchie ecclesiastiche:
« La attuale ‘canonizzazione’ di don Barsotti non può far dimenticare la sofferenza da lui patita per la opposizione contro i suoi libri degli anni ’50, mentre viveva e portava una ricchezza particolare all’interno della vita teologica e spirituale europea del tempo ».
In effetti, nel 1960, la congregazione vaticana del Sant’Uffizio censurò il suo libro « Commento all’Esodo », pubblicato in Francia con l’imprimatur ma proibito in Italia. Barsotti fu convocato a Roma e gli venne imposta la ritrattazione. Il libro ebbe il via libera dopo il Concilio Vaticano II ed è giunto oggi in Italia alla sua sesta edizione, col titolo « Meditazioni sull’Esodo ».
La seconda volta in cui cita Barsotti, Giannoni scrive:
« Problematica ma preziosa era la voce di don Barsotti, anche se ormai viveva una polemica dura nei confronti della cultura contemporanea. Purtroppo si determinò una sua autarchia, certo sempre feconda, ma chiusa e amara in un animo che peraltro aveva dolcezze mitissime; e si dice questo con l’amore riconoscente verso un padre nello Spirito ».
In questa frase ci sono sia critica che ammirazione. Don Giannoni, che pure è ascrivibile al cattolicesimo progressista colto, riconosce d’essere stato anche lui figlio spirituale di Barsotti.
E in effetti, l’edizione attualmente in commercio in Italia del capolavoro di Barsotti, « Il mistero cristiano nell’anno liturgico », si apre con la prefazione proprio di don Giannoni, dal suo eremo di Mosciano.
__________
San Pascasio Radberto (? – circa 849), monaco benedettino
Commento sul vangelo di Matteo, 11, 24; PL 120, 799-800
« Anche voi state pronti »
« Vegliate, perché non conoscete il giorno né l’ora ». Lo dice a tutti, anche se pare che si rivolga solo agli uomini di allora, come avviene in molti altri passi delle Scritture. Queste parole riguardano tutti allo stesso modo, perché ciascuno, con la sua morte, troverà il suo ultimo giorno e la fine del mondo. È inevitabile che ognuno esca da questo mondo tale quale sarà giudicato in quel giorno. L’uomo perciò deve badare a non deviare e a non cessare mai dalla vigilanza, perché il giorno della venuta del Signore non lo trovi impreparato. E troverà impreparato colui che tale sarà stato nell’ultimo dì della sua vita.