« Noli me tangere » Correggio

La chapelle de l’Université se trouve dans le complexe central de Miséricorde (Fribourg, avenue de l’Europe 21).
(questo crocefisso si trova nella cappella dell’Università di Friburgo)
http://www.unifr.ch/acf/celebrations/chapelle.html
dal sito: http://www.monasterovirtuale.it/elepreg.html
Rendimi forte, o Signore!
Accogli le parole che dalla mia anima
e dal mio cuore salgono a te, o ineffabile,
che parli nel silenzio. Ti supplico che io
non mi inganni nella conoscenza
della nostra natura più vera;
chinati verso di me e rendimi forte ed io farò
risplendere questa grazia sui miei fratell
i che sono figli tuoi.
La mia anima appartiene allo Spirito Santo.
Per questo credo e confesso la mia fede
da cui ricevo luce e vita.
Sei degno di lode, o Padre;
Il tuo servo vuol santificarsi con te,
secondo la possibilità che tu gli hai dato.
A te la gloria, ora e sempre
e nei secoli dei secoli. Amen. Preghiera su papiro
non ne so abbastanza sulla prima guerra mondiale per dire qualcosa in merito, mi è sembrato un articolo interessante e lo posto, il giudizio però non lo so dare, dal sito:
http://www.fattisentire.net/modules.php?name=News&file=article&sid=2646
Un monito per i nostri tempi
Il volto nascosto della Prima Guerra Mondiale
Le radici culturali della Grande Guerra sono il male di vivere e l’odio per la vita, mescolati all’ottimismo. La guerra si presenta a molti come una via d’uscita. In più, c’è la possibilità di far sparire per sempre l’ultimo impero cattolico. E questa meta fa gola a molti…
di Francesco Agnoli
L’alba del Novecento promette guerra, annuncia subito un clima di morte: non solo per motivi politici, geopolitici, economici, ma per molto altro ancora. Ci sono i nazionalismi, gli imperialismi che si scontrano, nel cuore dell’Europa, per il controllo dell’Africa, dei mari e dei primati economici. Ma soprattutto ci sono popoli stanchi, annoiati, divorati dal « male di vivere », pronti, spiritualmente prima che fisicamente, alla catastrofe. Solo la storiografia materialista può ignorare che prima di una guerra, prima di uno scontro che incendierà il mondo, che partorirà dal suo seno i totalitarismi, vi e qualcosa di profondo, qualcosa che affonda le sue radici nello spirito, nell’atmosfera culturale e religiosa di un’epoca. E il Novecento è l’età del positivismo darwiniano, che esalta la selezione del più forte, la lotta per la vita, il progresso, l’azione per l’azione, svincolata da ogni valutazione morale; l’epoca in cui la fede in Dio ha lasciato il posto alla fede nell’uomo, nella nazione, nella politica di potenza.
In molti si aspettano che l’uomo sia ormai maturo per divenire Dio, per sostituire l’antica lampada ad olio della fede con la lampadina elettrica del progresso, la croce col dominio, il servizio col potere. In tanti, allo stesso tempo, mescolano questo ottimismo, questa cieca fiducia infondata, destinata ad affondare col Titanic e la guerra, al pessimismo più nero, all’odio per la vita, ad un profondo sentimento di morte, naturale frutto di una mentalità individualista e antireligiosa. Nasce così una generazione di uomini combattuti tra speranze umane, troppo umane, di riscatto e di paradisi terreni, e scoramenti profondi, disperazioni travolgenti. Sono uomini come Thomas Mann, autori di libri intrisi di pessimismo e di odio gnostico per la vita, pronti, contemporaneamente, ad esultare con una gioia dissennata di fronte allo scoppio della guerra: «Da troppo tempo eravamo già una grande potenza: ci eravamo avvezzi e non ne traevamo l’attesa felicità [...]. Guerra dunque, e se occorreva contro tutti, per convincere tutti, per conquistare tutti [...] per questo partimmo con entusiasmo, compresi della certezza che l’ora secolare fosse giunta per la Germania… » (T. Mann, Doctor Faust, Mondadori, 1975). L’«ora secolare»: cioè un nuovo messianismo, quello nazionalista, accanto a quello marxista. In Italia, mentre i poeti crepuscolari denunciano la loro «malattia», la loro stanchezza di vivere e celebrano il funerale della poesia tradizionale, dicendo al lettore che non hanno più nulla da dire, che la loro parola è ormai muta, D’Annunzio e i futuristi esaltano la società del futuro, le macchine e gli aerei, il fuoco e la guerra, in un delirio fanatico che assume i contorni di una strana religiosità invertita, che utilizza anche, nel caso dei futuristi, un nuovo linguaggio, anarchico, disordinato, illogico. L’odio prende il posto della misericordia, la lotta all’esterno il posto del cammino interiore, il culto del superuomo il posto della saggezza cristiana, del senso del peccato e del limite. Umberto Saba, che ben conosce la nuova filosofia psicoanalitica, anch’essa intrisa di perversione e di tanatofilia [culto per la morte], scrive senza ambagi, nelle sue Scorciatoie, che le guerre non scoppiano solo per cause economiche, ma «sono in gran parte, almeno oggi, pretesti offerti all’istinto di morte». E Italo Svevo, anch’egli educato all’idea dell’uomo istintivo, dell’inconscio irrazionale freudiano, fa «guarire» il protagonista di un suo romanzo, Zeno Cosini, proprio in coincidenza con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ed arriva ad augurarsi che la Terra possa venir un giorno distrutta da una bomba terribile, per errare «nei cieli priva di parassiti e di malattie», cioè di uomini.
Così sedicenti superuomini, in cerca della loro divinità non realizzata, e mezzi uomini, delusi dalla modernità e avvolti da un malsano desiderio di morire, si avviano come tanti automi verso un evento che li schiaccerà, e di cui non comprendono interamente la portata. Lo spiegherà molto bene Giuseppe Ungaretti, volontario al fronte, quando riconoscerà di essere partito con un’utopia anarchica nel cuore: distruggere con la guerra tutte le guerre, per aprire, nel sangue, un’era nuova. Di questa «era nuova» hanno bisogno soprattutto i giovani inglesi e tedeschi, che partono in massa, volontari, per la guerra, celebrandone lo scoppio, ancora nel 1914, con canti, processioni, manifestazioni incredibili di giubilo e di entusiasmo collettivo. Perché questa gioia, così incomprensibile e irrefrenabile? Perché proprio in queste due nazioni, le più industrializzate, le più scristianizzate d’Europa? Evidentemente perché la guerra si presenta a molti di loro come una via d’uscita, una fuga dal mondo in cui vivono, dal materialismo soffocante in cui sono cresciuti, dal moralismo borghese, verso un ignoto che può solo essere migliore e più nobile del noto. Evidentemente perché per giovani che non hanno alcun idea della Fede, l’unica possibilità di riscatto può sussistere unicamente in una grande avventura, capace di scaldare il loro cuore e di scardinare violentemente il tedio esistenziale. Si capisce molto studiando una figura importante di quegli anni, il ministro per la marina britannica Winston Churchill. All’alba della guerra scrive alla moglie: «Tutto tende verso la catastrofe e la rovina. Sono interessato, in piena azione e felice. Non è terribile essere fatto così? I preparativi hanno per me un fascino orrido [...] andiamo tutti alla deriva in una sorta di ottusa ipnosi catalettica, quasi che fosse opera di qualcun altro». E Lloyd George, che si trova a Downing Street al momento dello scoppio della guerra, racconterà in seguito: «Winston si precipitò nella sala raggiante, con il volto illuminato e un aspetto entusiasta [...]. Si vedeva che era un uomo davvero felice».
Non c’è un’Europa veramente decisa a scongiurare il conflitto, dunque, nel 1914, ma un mondo disorientato, fanaticamente proiettato verso destini terreni, o terribilmente prostrato, da tanta decadenza di valori e di ideali. Quella decadenza che aveva fatto scrivere a Verlaine, molti anni prima: «Tutto è mangiato, tutto è bevuto, nulla più da dire». Per alcuni, insomma, la guerra è la speranza di dire ancora qualcosa, di sentirsi vivi, magari di immaginare uno scontro tra Bene e Male che li faccia finalmente sentire uomini. E il potere comprende questi desideri, trasformando la guerra laica e industrializzata in una «guerra di religione»: il governo tedesco lanciando i suoi strali contro la perfida Albione, padrona dei mari e del mondo, e quello inglese e americano descrivendo i tedeschi come assetati di sangue, «pidocchi» coll’elmetto, nemici della civiltà e del bene. Utilizzano termini sacri, religiosi, Bene e Male, coloro che al bene e al male non credono più.
Tra gli incendiari non possiamo dimenticare quanti vedono nella guerra la possibilità di far sparire per sempre l’ultimo Impero cattolico, l’ultimo segno concreto di una possibile fratellanza tra popoli basata sulla Fede, non sugli idoli pagani del «sangue e del suolo»: l’Impero Austro-ungarico di Francesco Giuseppe e di Carlo I. È significativo al riguardo il pensiero del socialista massimalista Benito Mussolini, allorché nei suoi discorsi interventisti si scaglia contro un imperatore che segue a capo scoperto la processione del Corpus Domini, e lo accusa di essere «ostinato negatore» dei principi della Rivoluzione Francese. Ugualmente interessante il trattato segreto di Londra, in cui l’Inghilterra chiede esplicitamente al governo italiano di escludere la Santa Sede, che lotta per scongiurare il conflitto, da qualsiasi azione diplomatica. L’impero Austro-ungarico, ci racconta François Fejto nel suo Requiem per un impero defunto, dedicato «alla memoria di miopadre che fu liberale, massone e leale cittadino della monarchia austro-ungarica», viene ucciso anche da un complotto massonico, che vuole «repubblicanizzare e decattolicizzare l’Europa». Scrive Fejto: «Fu a ragione che Bardoux scriverà, in Le Temps del 30 aprile 1938, che il « protestantesimo e la massoneria si erano alleati per distruggere l’Austria, considerata allora, in questi ambienti, come la cittadella dello spirito clericale e retrogrado »». E prosegue affermando che «è innegabile che il fatto di demolire l’Austria corrispondeva alle idee dei massoni, in Francia e negli Stati Uniti, e che essi erano quasi senza riserve a favore del suo smantellamento». Solo così si può giustificare la sorda ostilità verso l’imperatore cattolico Carlo, ostacolato da austrofobi, pangermanisti, massoni ed anticattolici di ogni risma, nel suo tentativo di concludere anzitempo la guerra e riportare la pace. Quel Carlo, bisogna ricordarlo, che in nome di una moralità, anche nella guerra, si oppone all’idea tedesca di usare i sommergibili per bombardare Venezia, e che «pone limiti alla guerra aerea e all’uso delle bombe incendiarie», in nome del rispetto dei civili. Ma l’Austria morirà, e sulle sue ceneri nascerà una nuova Europa: peggiore di prima, costruita, in tanti casi, come quello della Cecoslovacchia e della Jugoslavia, a tavolino, sulla pelle dei popoli, con l’unico risultato di favorire, solo pochi anni dopo, lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale. «Nel nostro XX secolo, ha scritto David Bereznak, ci massacriamo reciprocamente per servire dei miti»: il mito repubblicano, quello anticattolico, quello nazionalista e quello marxista.
L’Imperatore Carlo sulla via dell’esilio
«Carlo è però un cristiano « senza se e senza ma »: sa che chi governa le sorti dell’uomo è la Provvidenza, che anche le più grandi e più belle costruzioni dell’uomo sono figlie del tempo e nel tempo sorgono e periscono, è consapevole che l’autorità del principe cristiano è servizio. Per questo i re devono anche soffrire, consapevoli che da ogni male temporale Dio è capace di trarre un bene superiore. Sa che la dinastia, di cui egli è l’ultimo rappresentante sovrano, ha dato il suo sangue e il sangue dei suoi soldati per difendere la cristianità. Ma sa pure che essa è carica di responsabilità storiche non lievi: ha duramente limitato – certo meno di altri regimi, ma non meno oggettivamente -almeno in una fase della sua storia, i diritti della Chiesa, ha fatto soffrire più di un pontefice, ha reso più difficile l’evangelizzazione dei popoli dell’impero. E sa che a qualcuno dei sovrani può essere chiesto dalla Provvidenza di scontare anche in questa vita il debito contralto dai suoi predecessori, per il bene proprio e dei sudditi».
(Oscar Sanguinetti e Ivo Musajo Somma, Un cuore per la nuova Europa. Appunti per una biografia del beato Carlo d’Asburgo, D’Ettoris editori, 2004, p. 87).
RICORDA
«Tra tutti gli uomini ci deve essere lotta aperta».
(Charles Darwin, The Descent of man, and selection in relation to sex, ed. 2, New York 1886, p. 618).
Bibliografia
Andrea Granelli -Andrea Tornielli, Papi, guerre e terrorismo, Sugarco, 2006.
François Fejto, Requiem per un impero defunto, Mondadori, 1991.
Elena Bianchini, Carlo I d’Austria, Tabula Fati, 2005.
Francesco Agnoli, Conoscere il Novecento. La storia e le idee, Il Cerchio, 2005.
dal sito della Radio Vaticana:
18/08/2007 12.42.46
Il Papa riceve il cardinale Schönborn. L’arcivescovo di Vienna invita i cattolici austriaci a uscire dalle parrocchie per testimoniare la fede tra i lontani
Il Papa ha ricevuto oggi nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, accompagnato da mons. Egon Kapellari, vescovo di Graz-Seckau. L’incontro avviene a circa tre settimane dal viaggio pastorale di Benedetto XVI in Austria che si svolgerà dal 7 al 9 settembre sul motto: “‘Guardare Cristo’ … e mi sarete testimoni”. Su questa visita, che si inserisce nella cornice dell’850° Anniversario della Fondazione del Santuario di Mariazell, Luis Badilla ha intervistato lo stesso cardinale Schönborn:
R. – Alla vigilia del pellegrinaggio del Papa a Vienna e a Mariazell, la Chiesa austriaca appare molto dinamica, molto viva. Si parla di un risveglio dopo i momenti difficili degli anni passati…
D. – Sono contento di sentirle dire che c’è un grande risveglio. Non tutti lo vedono così perché ci sono anche segni di stanchezza, e questo non tanto nella Chiesa quanto nella società. Registriamo una sorta di mancanza di «vento», per dirla con il linguaggio del mare. Però è vera una cosa: dopo anni molto difficili assistiamo ad una presa di coscienza, ad un senso del coraggio più esplicito da parte dei cristiani austriaci, che sentono sempre di più come questa nostra società abbia bisogno del Vangelo, della fede, della preghiera … Ma, a onor del vero, devo dire anche che non so se, di fronte a questa sfida, siamo all’altezza di quanto il Signore ci chiede. Lui ci chiede di andare avanti, di uscire fuori dalle nostre comunità per dare testimonianza del Vangelo. Non siamo ancora abbastanza e sufficientemente missionari …
R. – Quali sono in questo momento le priorità pastorali per la Chiesa e per i vescovi in Austria?
D. – All’interno della Chiesa – prima di tutto – c’è la realtà della grande rete delle comunità parrocchiali, che hanno una grande vitalità ma anche tutti i problemi che derivano dalla mancanza di preti e di giovani. Si tratta dunque d’incoraggiare l’intera rete delle parrocchie di tutta l’Austria, e questo è uno degli scopi principali del viaggio del Santo Padre: infatti, a Mariazell sono stati invitati, con priorità, i rappresentanti dei Consigli pastorali delle parrocchie. Per loro, il Santo Padre avrà esplicite parole di incoraggiamento. Un’altra sfida, questa volta ad extra, quindi fuori dalle comunità parrocchiali, è – senza alcun dubbio – la missionarietà: la disponibilità ad aprirsi ad altri, alla maggioranza della società, cioè alla maggioranza dei nostri cittadini che molto spesso sono persone lontane dalla fede e dalla Chiesa. Ripeto: la grande sfida oggi è la missionarietà. Lo abbiamo sperimentato nella nostra bella esperienza della «Grande Missione» della città di Vienna, dalla quale sono uscite varie iniziative missionarie che sono tuttora in corso. Anche in questo ambito ci aspettiamo molto dall’incoraggiamento del Santo Padre … “Andate e rendete testimonianza della vostra fede!” …
D. – La Chiesa austriaca ha un altro impegno prioritario, e cioè la Dottrina sociale della Chiesa. Quali le considerazioni della Chiesa austriaca sulla attuale realtà e sulle dinamiche sociali del Paese?
R. – Anzitutto va detto che la società austriaca vive in questo periodo un benessere abbastanza unico, forse inedito nella sua storia. Il clima sociale inoltre è abbastanza sereno. Per esempio, non ci sono più i grandi scioperi del passato. La disoccupazione c’è ma è molto più bassa che in altri Paesi. Dobbiamo ringraziare Dio per questa situazione molto favorevole. Dall’altra parte, però, ci sono alcune situazioni preoccupanti. La prima è il costante e considerevole aumento del divario fra ricchi e poveri. Il numero di persone che vivono al limite più basso del benessere, o sulla soglia della povertà, è in continuo crescendo. Questo fenomeno è conseguenza della globalizzazione che, ovviamente, di per sé non è negativa in tutti i suoi aspetti – certamente no! – ma causa questa situazione che ci preoccupa tanto. L’altro punto, last but not least, riguarda l’accoglienza della vita. Questa grande ferita esiste in molti Paesi europei, ma soprattutto da noi, in Austria. Il “sì” alla vita, sia al suo inizio sia alla sua fine naturale, è sempre più spesso messo in discussione. Dunque per noi una preoccupazione molto grande. La Chiesa in questo ambito è molto attiva, sia per dare aiuto alle donne in difficoltà nell’accogliere il proprio bimbo sia per favorire l’alternativa all’eutanasia. Parlo, in concreto, della rete di case nelle quale si procura di dar l’accompagnamento necessario, umano e cristiano, ai moribondi. Tutte queste iniziative sono da noi molto legate alla Chiesa e producono un effetto positivo sulla società.
D. – Eminenza, quali sono le attese degli austriaci e dei cattolici? Cosa vi aspettate dal Papa?
R. – Anzitutto, l’incoraggiamento e la fortificazione nella fede, perché questo è stato da sempre il compito di Pietro: fortifica i tuoi fratelli… Credo che, come lui stesso ha detto all’inizio del suo pontificato, Benedetto XVI verrà tra noi per “mostrare la bellezza della fede”; per mostrare quanto sia bello seguire Cristo. Noi aspettiamo con gioia questo incoraggiamento!