Archive pour juillet, 2007

“La Chiesa preferisce che l’altare sia fisso”

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-9289?l=italian


La Chiesa preferisce che l’altare sia fisso” 

Intervista a padre Félix María Arocena, docente di Teologia liturgica 

PAMPLONA, giovedì, 3 maggio 2007 (ZENIT.org).- L’altare cristiano ha un alto valore simbolico, tanto che
la Chiesa preferisce che non sia un oggetto mobile ma fisso.

È questa una delle idee raccolte dal padre Félix María ArocenaSolano nel suo libro “El altar cristiano”, edito dalla “Biblioteca Litúrgica” del Centro de Pastoral Liturgica (Barcellona), che, in questa intervista concessa a ZENIT, spiega anche cosa significhi per il cristiano essere “altare” di Dio.

Il professor Arocena (San Sebastián, 1954) è presbitero della Prelatura dell’Opus Dei sin dal 1981 ed è laureato in Teologia e in Diritto canonico. Attualmente è professore di Teologia liturgica presso
la Facoltà di Teologia di Navarra.

Padre Arocena Solano collabora inoltre con il Segretariato nazionale di liturgia della Conferenza episcopale spagnola.

A suo avviso, Benedetto XVI dedica una attenzione particolare all’altare rispetto ai suoi predecessori?

P. Arocena: Vi è una sostanziale univocità tra i Padri, per quanto riguarda la concezione dell’altare, nella liturgia cristiana, come segno di Cristo. “L’altare è Cristo”, affermano.

Tutti i Vescovi di Roma sono stati sensibili a questa teologia. Tanto Benedetto XVI, quanto i suoi predecessori, hanno fatto “parlare” l’altare per mezzo della loro ars celebrandi.

L’altare cristiano può essere mobile?

P. Arocena: I secoli XVIII e XIX sono, da un certo punto di vista, i secoli delle missioni e delle esigenze pratiche dei missionari, che durante i loro viaggi si vedevano costretti a celebrare il santo Sacrificio su piccoli altari portatili.

L’altare cristiano può essere mobile; in questo caso, l’altare non è dedicato, è benedetto. La supplica della benedizione dell’altare mobile è particolarmente bella, con una teologia di fondo di grande densità dottrinale.

Tuttavia, considerata la sua enorme carica emblematica,
la Chiesa preferisce che l’altare sia fisso.

Bisogna mettere in evidenza che l’intera vita liturgica della Chiesa ruota intorno al mistero dell’altare. L’altare cristiano è un mistero. Il poeta cristiano di origini spagnole Aurelius Prudentius Clemens diceva che l’altare è il tavolo che ci dona il sacramento (mensa donatrix sacramenti).

Cristo è il centro dell’azione della Chiesa; l’altare, segno di Cristo, è il centro dell’edificio della chiesa.

La centralità dell’altare nell’insieme dello spazio liturgico non è teologicamente un punto di arrivo, ma il punto di partenza.

La centralità dell’altare, rispetto all’edificio del culto, riflette la centralità di Cristo rispetto all’assemblea liturgica, al mondo e alla storia.

Nelle cattedrali, questo carattere centrale dell’altare si apprezzava nella sua localizzazione: è stato tradizionalmente collocato nel presbiterio, all’incrocio tra il transetto e la navata.

Come deve essere coordinato l’altare con l’ambone e la sede?

P. Arocena: Il Catechismo della Chiesa cattolica contiene una bella teologia simbolica e mistica che invita ad una maggiore comprensione di ciascuno dei poli della celebrazione: altare, sede, ambone.

Ciascuno di questi luoghi rappresenta un’icona dello spazio, immagine viva di Cristo che si esprime attraverso il linguaggio dello spazio e delle relazioni simboliche che tali spazi occupano.

Nella celebrazione, Cristo è re nella sede, sacerdote nell’altare e profeta nell’ambone.

Sono le tre funzioni di Cristo (tria Christi munera) che postulano un progetto iconografico comune, coerente con questa teologia e che ad essa si ispiri.

A causa del suo profondo simbolismo cristologico, sarebbe scarsamente espressivo un altare, ad esempio, fatto di legno, un ambone di metallo e una sede di marmo.

Cosa significa per il cristiano essere “altare” di Dio?

P. Arocena: Il conoscitore del pensiero simbolico-sacramentale dell’antichità cristiana non rimarrà sorpreso nel sapere che la visione luminosa del cristiano come altare di Dio rappresenta una realtà che fonda le sue radici nella migliore letteratura patristica.

Vi è una predica di Pietro Crisologo in cui dice: “Fa’ del tuo cuore un altare (altare cor tuum pone)”. La liturgia non si esaurisce infatti con le celebrazioni. L’apertura esistenziale della liturgia si estende a una prospettiva ampia del culto esistenziale.

Così come Cristo, il capo, si fa altare del proprio sacrificio, così i battezzati, sue membra, si fanno altari viventi del suo sacrificio esistenziale. Ogni cristiano è, con parole di san Josemaría Escrivá, sacerdote della sua propria esistenza.

L’altare della chiesa e l’altare del cuore sono tra loro strettamente relazionati. Il primo è il cuore del santuario; il secondo è la realtà più profonda della persona, il santuario interiore.

L’altare della chiesa e l’altare del cuore si completano reciprocamente e, in un modo misterioso, formano un’unica cosa.

L’altare vero e perfetto dove si offre il sacrificio di Cristo è l’unità vivente di entrambi, perché la vita cristiana è una sorta di sistole celebrativa e diastole esistenziale che ingloba l’intera vita del battezzato.

Su questo altare vivo, rappresentato dal cuore, il cristiano offre “sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo”. Offre il suo corpo “come ostia viva, santa e gradita a Dio”.

È il culto spirituale dei cristiani che, concludendo la celebrazione eucaristica, sentono dire al celebrante che a loro si rivolge: “Glorificate Dio con la vostra vita. Andate in pace”. Dopo il sacrificio eucaristico, il sacrificio spirituale. Dopo la liturgia, la latreia.

Inizia per i cristiani – se così si può dire – “l’altra liturgia”, la dimensione cultuale propria della vita di coloro che appartengono a Cristo: una vita espressa sempre in termini di liturgia del sacrificio, di alleanza, di mediazione, di espiazione… 

 

Franz Michel Willam, il teologo che il papa ha tirato fuori dall’oblio

 Franz Michel Willam, il teologo che il papa ha tirato fuori dall’oblio


Autore nel 1932 di una celebre vita di Cristo, era stato da tutti dimenticato. Benedetto XVI lo cita in « Ges
ù di Nazaret » e uno studioso austriaco spiega perché
. Sulla base di un carteggio inedito tra i due

di Sandro Magister

ROMA, 3 luglio 2007
Nella prime righe della prefazione a « Gesù di Nazaret », Benedetto XVI ricorda che al tempo della sua giovinezza, negli anni Trenta e Quaranta, « vennero pubblicati una serie di libri entusiasmanti su Gesù
« .

E fa i nomi di alcuni autori: Romano Guardini, Karl Adam, Daniel Rops, Giovanni Papini, Franz Michel Willam.

I primi quattro, e ancor più i primi due, sono tuttora abbastanza noti e letti. Ma l’ultimo no. Franz Michel Willam (1894-1981) è oggi un nome ai più sconosciuto. Caduto nell’oblio.

E allora perché Joseph Ratzinger lo cita?

Nel « lungo cammino interiore » che ha portato Ratzinger a scrivere « Gesù di Nazaret » Willam non sembrerebbe essere un autore di riferimento. Lo sono molto di più Guardini, Henri De Lubac, Rudolf Schnackenburg e il rabbino ebreo Jacob Neusner.

Del filosofo e teologo italo-tedesco Guardini si ritrova nell’attuale papa l’idea della centralità della Chiesa per avvicinarsi realmente a Gesù, in ogni tempo e in ogni luogo, attraverso l’eucaristia e gli altri sacramenti.

Dal teologo francese De Lubac Ratzinger ha attinto la profonda conoscenza del pensiero dei Padri e l’intuizione dell’unione tra l’Antico e il Nuovo Testamento.

Col grande esegeta tedesco Schnackenburg il papa ha in comune la convinzione che il metodo storico-critico da solo non basta per comprendere la piena identità di Gesù.

Tra il rabbino Neusner e Ratzinger il dialogo è addirittura proseguito nelle pagine di « Gesù di Nazaret » e anche dopo, come ha riferito www.chiesa in un servizio dello scorso 11 giugno.

Willam, invece, nel libro è citato una sola volta, all’inizio. E poi sembra che di lui non vi sia più traccia. Ma è davvero così?

Sull’ultimo numero di « Vita e Pensiero », la rivista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è uscito un articolo che scioglie l’enigma.

Ne è autore il giovane teologo Philipp Reisinger, austriaco come Willam.

Egli cita un carteggio degli anni Sessanta tra Ratzinger e Willam e mette in luce come i due avessero in comune la convinzione che il segreto della grande teologia cristiana – quella che sa parlare non solo ai dotti è « la semplicità« , è « lo sguardo chiaro sull’essenziale ».

Semplicità ed essenzialità che Ratzinger ha voluto imprimere in ogni pagina del suo « Gesù di Nazaret ».

Ecco l’articolo apparso su « VIta e Pensiero » n. 3, 2007:

Ratzinger e il « cappellano » teologo. Un carteggio inedito

di Philipp Reisinger

L’austriaco Franz Michel Willam è oggi certamente la personalità meno conosciuta tra gli autori citati da Benedetto XVI nella prefazione del suo libro Gesù di Nazaret.

Chi era? E perché il papa lo ricorda? Solo a pochi è noto il carteggio, conservato nel convento di Thalbach a Bregenz, in Austria, tra lallora professore universitario Joseph Ratzinger e Franz Michel Willam, di lui più vecchio di 33 anni.

I due furono in stretto contatto in particolare negli anni 1967 e 1968. Uno dei motivi era il libro di Willam “Vom jungen Roncalli zum Papst Johannes XXIII. [Dal giovane Roncalli a papa Giovanni XXIII], edito nel 1967, e larticolo di Ratzinger Was heißt Erneuerung der Kirche? [Cosa significa il rinnovamento nella Chiesa?] apparso un anno prima sulla rivista Diakonia.

In quest’ultimo testo si trova scritto: La vera riforma è quella che si occupa di ciò che è autenticamente cristiano, che si lascia provocare e formare da esso. La vera riforma, il vero rinnovamento richiede semplicità. Rinnovamento è semplificazione: così Ratzinger sintetizzava efficacemente la sua tesi.

Willam, che aveva scoperto e fatto emergere la semplicità come idea dominante in papa Giovanni XXIII, riportava così in una lettera al vescovo Paulus Rusch quello che per lui era il passaggio centrale dellarticolo di Ratzinger:

La teoria della semplicità trova in Joseph Ratzinger la seguente versione: esiste la semplicità della comodità, che è la semplicità dellimprecisione, una mancanza di ricchezza, di vita e di pienezza. Ed esiste la semplicità dellorigine, che è la vera ricchezza. Rinnovamento è semplicità, non nel senso di una selezione o riduzione, bensì una semplificazione nel senso di un diventar-semplice, del muoversi verso quella vera semplicità che è il mistero dellesistente.

Il 22 maggio 1967 Willam scrive a Ratzinger:

Ho svolto una ricerca sulle concordanze nei cinque volumi contenenti i discorsi e i documenti del pontificato. Le parole semplice e semplicità’ sono le parole-chiave più ricorrenti in assoluto. Giovanni XXIII le intende certamente nello stesso modo in cui le intende lei: studiare la cosa in maniera precisa e porsi la domanda: come lo devo esprimere, in modo che la gente capisca il risultato?.

In questi giorni ho ricevuto il suo libro su papa Giovanni XXIII. Lho già letto qua e là e lo trovo davvero emozionante, è la risposta del professor Ratzinger dopo aver ricevuto il volume.

Ratzinger, in quanto nuovo decano della Facoltà teologica di Tubinga, scrisse una lunga e particolarmente benevola recensione del libro di Willam su Theologische Quartalschrift, 6, 1968:

Senza dubbio questo libro può essere definito come la pubblicazione sin qui di gran lunga più importante per illuminare la figura di Giovanni XXIII. Allo stesso tempo è di fondamentale importanza per la comprensione del Concilio Vaticano II. Il libro si staglia ampiamente al di sopra della moltitudine di ciò che è stato scritto in questi contesti, e ciò attraverso la completezza delle sue informazioni e levidenza dei collegamenti. [...] Lautore, quindi, merita un ringraziamento senza riserve per il suo paziente lavoro, e non ultimo anche perché ha saputo dire molte cose in spazi contenuti.

Willam fu davvero felice di questa recensione, e la citò in quasi tutte le lettere che scrisse nelle settimane dopo la sua pubblicazione. A un amico scrisse: Si ha limpressione che nel suo argomentare Ratzinger abbia in mente diversi dialoghi avvenuti durante il Concilio Vaticano II, anche con non cattolici come Oscar Cullmann.

Willam nutrì una grande ammirazione per il professor Ratzinger e gli chiese consiglio in molti frangenti, lasciandosi correggere e consigliare da lui con semplicità, malgrado la rilevante differenza detà. Nella già citata lettera, del 22 maggio 1967, tra le altre cose egli chiedeva al professore aiuto per una pubblicazione riguardante John Henry Newman, e concludeva la missiva con un complimento commosso:

Poiché non conosco alcun teologo che nel pensare sia vicino a Giovanni XXIII quanto lei la comune parola-chiave semplicità’ lo testimonia oggettivamente rivolgo questa richiesta proprio a lei.

La semplicità, così profondamente decisiva per Willam, si esprimeva anche nel fatto che egli non si sentì mai chiamato a formulare una propria particolare teologia. Piuttosto desiderò cogliere i segni dei tempi ed essere testimone delleterno nel contesto di tutti i cambiamenti che avvenivano nellarco della sua vita.

Anche qui è visibile una comunanza con Ratzinger, il quale affermò una volta:

Non ho mai cercato di fondare un particolare sistema, una teologia speciale. Intendo semplicemente pensare insieme alla fede della Chiesa, e ciò significa anzitutto pensare insieme ai grandi pensatori della fede. Non si tratta di una teologia isolata e proveniente da me stesso, bensì di una teologia che si apre nella maniera più allargata possibile al comune cammino di pensiero della fede.

Franz Michel Willam nacque il 14 giugno 1894 a Schoppernau nel Vorarlberg, figlio di un calzolaio e barcaiolo, dunque in un contesto semplice. Col nonno materno, il poeta patriottico Franz Michel Felder, condivideva non solo il nome, ma anche l’amore per la propria patria e il proprio popolo, lo slancio per la scrittura e la ricerca, nonché una miopia tendente quasi alla cecità.

Nel 1917 Willam venne ordinato sacerdote a Bressanone, e nel 1921 divenne dottore in teologia. Dopo alcune esperienze pastorali, gli venne attribuito il ruolo di cappellano ad Andelsbuch, dove fu attivo come pastore e come studioso sino alla morte, il 18 gennaio 1981.

Ricercato e stimato da molti, lo scrittore, scienziato e antropologo volle sempre essere chiamato “cappellano, poiché questo nome esprimeva ciò che egli era e volle sempre essere: un sacerdote e pastore.

La vita di Willam fu modesta e tra la gente, nonché profondamente radicata nella tradizione cattolica. Nonostante vivesse nel solitario bosco di Bregenz, egli rimase in continuo contatto col mondo scientifico della teologia, in particolare con molti studiosi newmaniani. Era capace allo stesso modo di discutere di agricoltura montana con le persone che incontrava nelle sue molte passeggiate, così come, nel suo studio pieno di montagne di libri, di leggere senza problemi autori inglesi, francesi, spagnoli, italiani, latini e greci senza lausilio di un dizionario. Gli erano familiari moderni scienziati della natura come Heisenberg al pari dei filosofi greci Platone e Aristotele.

Tra le altre cose, Willam riuscì a dimostrare che la gnoseologia di Newman aveva derivazione aristotelica molto più che platonica. Questa teoria allinizio fortemente osteggiata nella cerchia degli esperti venne più tardi universalmente accettata, e il semplice cappellano divenne così uno specialista newmaniano di riconosciuto successo.

L’opera di Willam comprende 33 libri e 372 scritti poesie, racconti, saggi, recensioni pubblicati in 79 differenti riviste.

Il volume del 1932 “Das Leben Jesu im Lande und Volke Israels [La vita di Gesù nel territorio e nel popolo dIsraele], pubblicato in dieci edizioni e tradotto in dodici lingue, è il suo capolavoro, un vero e proprio bestseller del suo tempo, che rese Willam celebre internazionalmente.

Per la scrittura di questo libro Willam studiò a fondo la storia giudaica e osservò da antropologo per molti mesi gli usi e i costumi in Palestina.

La sua “Vita di Gesù”, scritta prima dellaffermarsi dellesegesi storico-critica della Bibbia, non si occupa della questione della storicità dei Vangeli e delle varie fonti linguistiche e idiomatiche della Sacra Scrittura. Il suo scopo consiste puramente e semplicemente nel presentare al lettore la vita e dunque la persona di Gesù partendo dai Vangeli, il cui contenuto egli riempiva di vivacità attraverso le conoscenze derivanti dai suoi studi antropologici.

Quando Willam parla di Gesù, allo stesso tempo egli ci sta dando una lezione di sguardo nel vero senso della parola: ci fa vedere, sentire e percepire come il Signore ha vissuto e operato.

Willam non è un mero teorico che elabora il suo pensiero indipendentemente dagli accadimenti concreti e dunque allontanandosi progressivamente dalla realtà. Non scrive solo per una cerchia di specialisti. La sua urgenza è la formazione religiosa del popolo. Questa urgenza deriva dal suo particolare amore e dalla sua particolare vicinanza alluomo semplice; gli riuscì di unire uno spirito lucido a un linguaggio lineare e comprensibile.

Un biografo di papa Benedetto XVI ha scritto: “La semplicità gli appartiene. Un distacco altezzoso non è mai stata la sua caratteristica, per quanto fossero complesse le problematiche teologiche affrontate.

Il frutto della semplicità è lo sguardo chiaro sullessenziale. E proprio questo Willam condivideva con Ratzinger, il quale citandolo nella prefazione a Gesù di Nazaret lo preserva giustamente dalloblio. 

 

Franz Michel Willam, il teologo che il papa ha tirato fuori dall’oblio
Autore nel 1932 di una celebre vita di Cristo, era stato da tutti dimenticato. Benedetto XVI lo cita in « Ges
ù di Nazaret » e uno studioso austriaco spiega perché
. Sulla base di un carteggio inedito tra i due

di Sandro Magister

ROMA, 3 luglio 2007 – Nella prime righe della prefazione a « Gesù di Nazaret », Benedetto XVI ricorda che al tempo della sua giovinezza, negli anni Trenta e Quaranta, « vennero pubblicati una serie di libri entusiasmanti su Gesù« .

E fa i nomi di alcuni autori: Romano Guardini, Karl Adam, Daniel Rops, Giovanni Papini, Franz Michel Willam.

I primi quattro, e ancor più i primi due, sono tuttora abbastanza noti e letti. Ma l’ultimo no. Franz Michel Willam (1894-1981) è oggi un nome ai più sconosciuto. Caduto nell’oblio.

E allora perché Joseph Ratzinger lo cita?

Nel « lungo cammino interiore » che ha portato Ratzinger a scrivere « Gesù di Nazaret » Willam non sembrerebbe essere un autore di riferimento. Lo sono molto di più Guardini, Henri De Lubac, Rudolf Schnackenburg e il rabbino ebreo Jacob Neusner.

Del filosofo e teologo italo-tedesco Guardini si ritrova nell’attuale papa l’idea della centralità della Chiesa per avvicinarsi realmente a Gesù, in ogni tempo e in ogni luogo, attraverso l’eucaristia e gli altri sacramenti.

Dal teologo francese De Lubac Ratzinger ha attinto la profonda conoscenza del pensiero dei Padri e l’intuizione dell’unione tra l’Antico e il Nuovo Testamento.

Col grande esegeta tedesco Schnackenburg il papa ha in comune la convinzione che il metodo storico-critico da solo non basta per comprendere la piena identità di Gesù.

Tra il rabbino Neusner e Ratzinger il dialogo è addirittura proseguito nelle pagine di « Gesù di Nazaret » e anche dopo, come ha riferito www.chiesa in un servizio dello scorso 11 giugno.

Willam, invece, nel libro è citato una sola volta, all’inizio. E poi sembra che di lui non vi sia più traccia. Ma è davvero così?

Sull’ultimo numero di « Vita e Pensiero », la rivista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è uscito un articolo che scioglie l’enigma.

Ne è autore il giovane teologo Philipp Reisinger, austriaco come Willam.

Egli cita un carteggio degli anni Sessanta tra Ratzinger e Willam e mette in luce come i due avessero in comune la convinzione che il segreto della grande teologia cristiana – quella che sa parlare non solo ai dotti è « la semplicità« , è « lo sguardo chiaro sull’essenziale ».

Semplicità ed essenzialità che Ratzinger ha voluto imprimere in ogni pagina del suo « Gesù di Nazaret ».

Ecco l’articolo apparso su « VIta e Pensiero » n. 3, 2007:

Ratzinger e il « cappellano » teologo. Un carteggio inedito

di Philipp Reisinger

L’austriaco Franz Michel Willam è oggi certamente la personalità meno conosciuta tra gli autori citati da Benedetto XVI nella prefazione del suo libro Gesù di Nazaret.

Chi era? E perché il papa lo ricorda? Solo a pochi è noto il carteggio, conservato nel convento di Thalbach a Bregenz, in Austria, tra lallora professore universitario Joseph Ratzinger e Franz Michel Willam, di lui più vecchio di 33 anni.

I due furono in stretto contatto in particolare negli anni 1967 e 1968. Uno dei motivi era il libro di Willam “Vom jungen Roncalli zum Papst Johannes XXIII. [Dal giovane Roncalli a papa Giovanni XXIII], edito nel 1967, e larticolo di Ratzinger Was heißt Erneuerung der Kirche? [Cosa significa il rinnovamento nella Chiesa?] apparso un anno prima sulla rivista Diakonia.

In quest’ultimo testo si trova scritto: La vera riforma è quella che si occupa di ciò che è autenticamente cristiano, che si lascia provocare e formare da esso. La vera riforma, il vero rinnovamento richiede semplicità. Rinnovamento è semplificazione: così Ratzinger sintetizzava efficacemente la sua tesi.

Willam, che aveva scoperto e fatto emergere la semplicità come idea dominante in papa Giovanni XXIII, riportava così in una lettera al vescovo Paulus Rusch quello che per lui era il passaggio centrale dellarticolo di Ratzinger:

La teoria della semplicità trova in Joseph Ratzinger la seguente versione: esiste la semplicità della comodità, che è la semplicità dellimprecisione, una mancanza di ricchezza, di vita e di pienezza. Ed esiste la semplicità dellorigine, che è la vera ricchezza. Rinnovamento è semplicità, non nel senso di una selezione o riduzione, bensì una semplificazione nel senso di un diventar-semplice, del muoversi verso quella vera semplicità che è il mistero dellesistente.

Il 22 maggio 1967 Willam scrive a Ratzinger:

Ho svolto una ricerca sulle concordanze nei cinque volumi contenenti i discorsi e i documenti del pontificato. Le parole semplice e semplicità’ sono le parole-chiave più ricorrenti in assoluto. Giovanni XXIII le intende certamente nello stesso modo in cui le intende lei: studiare la cosa in maniera precisa e porsi la domanda: come lo devo esprimere, in modo che la gente capisca il risultato?.

In questi giorni ho ricevuto il suo libro su papa Giovanni XXIII. Lho già letto qua e là e lo trovo davvero emozionante, è la risposta del professor Ratzinger dopo aver ricevuto il volume.

Ratzinger, in quanto nuovo decano della Facoltà teologica di Tubinga, scrisse una lunga e particolarmente benevola recensione del libro di Willam su Theologische Quartalschrift, 6, 1968:

Senza dubbio questo libro può essere definito come la pubblicazione sin qui di gran lunga più importante per illuminare la figura di Giovanni XXIII. Allo stesso tempo è di fondamentale importanza per la comprensione del Concilio Vaticano II. Il libro si staglia ampiamente al di sopra della moltitudine di ciò che è stato scritto in questi contesti, e ciò attraverso la completezza delle sue informazioni e levidenza dei collegamenti. [...] Lautore, quindi, merita un ringraziamento senza riserve per il suo paziente lavoro, e non ultimo anche perché ha saputo dire molte cose in spazi contenuti.

Willam fu davvero felice di questa recensione, e la citò in quasi tutte le lettere che scrisse nelle settimane dopo la sua pubblicazione. A un amico scrisse: Si ha limpressione che nel suo argomentare Ratzinger abbia in mente diversi dialoghi avvenuti durante il Concilio Vaticano II, anche con non cattolici come Oscar Cullmann.

Willam nutrì una grande ammirazione per il professor Ratzinger e gli chiese consiglio in molti frangenti, lasciandosi correggere e consigliare da lui con semplicità, malgrado la rilevante differenza detà. Nella già citata lettera, del 22 maggio 1967, tra le altre cose egli chiedeva al professore aiuto per una pubblicazione riguardante John Henry Newman, e concludeva la missiva con un complimento commosso:

Poiché non conosco alcun teologo che nel pensare sia vicino a Giovanni XXIII quanto lei la comune parola-chiave semplicità’ lo testimonia oggettivamente rivolgo questa richiesta proprio a lei.

La semplicità, così profondamente decisiva per Willam, si esprimeva anche nel fatto che egli non si sentì mai chiamato a formulare una propria particolare teologia. Piuttosto desiderò cogliere i segni dei tempi ed essere testimone delleterno nel contesto di tutti i cambiamenti che avvenivano nellarco della sua vita.

Anche qui è visibile una comunanza con Ratzinger, il quale affermò una volta:

Non ho mai cercato di fondare un particolare sistema, una teologia speciale. Intendo semplicemente pensare insieme alla fede della Chiesa, e ciò significa anzitutto pensare insieme ai grandi pensatori della fede. Non si tratta di una teologia isolata e proveniente da me stesso, bensì di una teologia che si apre nella maniera più allargata possibile al comune cammino di pensiero della fede.

Franz Michel Willam nacque il 14 giugno 1894 a Schoppernau nel Vorarlberg, figlio di un calzolaio e barcaiolo, dunque in un contesto semplice. Col nonno materno, il poeta patriottico Franz Michel Felder, condivideva non solo il nome, ma anche l’amore per la propria patria e il proprio popolo, lo slancio per la scrittura e la ricerca, nonché una miopia tendente quasi alla cecità.

Nel 1917 Willam venne ordinato sacerdote a Bressanone, e nel 1921 divenne dottore in teologia. Dopo alcune esperienze pastorali, gli venne attribuito il ruolo di cappellano ad Andelsbuch, dove fu attivo come pastore e come studioso sino alla morte, il 18 gennaio 1981.

Ricercato e stimato da molti, lo scrittore, scienziato e antropologo volle sempre essere chiamato “cappellano, poiché questo nome esprimeva ciò che egli era e volle sempre essere: un sacerdote e pastore.

La vita di Willam fu modesta e tra la gente, nonché profondamente radicata nella tradizione cattolica. Nonostante vivesse nel solitario bosco di Bregenz, egli rimase in continuo contatto col mondo scientifico della teologia, in particolare con molti studiosi newmaniani. Era capace allo stesso modo di discutere di agricoltura montana con le persone che incontrava nelle sue molte passeggiate, così come, nel suo studio pieno di montagne di libri, di leggere senza problemi autori inglesi, francesi, spagnoli, italiani, latini e greci senza lausilio di un dizionario. Gli erano familiari moderni scienziati della natura come Heisenberg al pari dei filosofi greci Platone e Aristotele.

Tra le altre cose, Willam riuscì a dimostrare che la gnoseologia di Newman aveva derivazione aristotelica molto più che platonica. Questa teoria allinizio fortemente osteggiata nella cerchia degli esperti venne più tardi universalmente accettata, e il semplice cappellano divenne così uno specialista newmaniano di riconosciuto successo.

L’opera di Willam comprende 33 libri e 372 scritti poesie, racconti, saggi, recensioni pubblicati in 79 differenti riviste.

Il volume del 1932 “Das Leben Jesu im Lande und Volke Israels [La vita di Gesù nel territorio e nel popolo dIsraele], pubblicato in dieci edizioni e tradotto in dodici lingue, è il suo capolavoro, un vero e proprio bestseller del suo tempo, che rese Willam celebre internazionalmente.

Per la scrittura di questo libro Willam studiò a fondo la storia giudaica e osservò da antropologo per molti mesi gli usi e i costumi in Palestina.

La sua “Vita di Gesù”, scritta prima dellaffermarsi dellesegesi storico-critica della Bibbia, non si occupa della questione della storicità dei Vangeli e delle varie fonti linguistiche e idiomatiche della Sacra Scrittura. Il suo scopo consiste puramente e semplicemente nel presentare al lettore la vita e dunque la persona di Gesù partendo dai Vangeli, il cui contenuto egli riempiva di vivacità attraverso le conoscenze derivanti dai suoi studi antropologici.

Quando Willam parla di Gesù, allo stesso tempo egli ci sta dando una lezione di sguardo nel vero senso della parola: ci fa vedere, sentire e percepire come il Signore ha vissuto e operato.

Willam non è un mero teorico che elabora il suo pensiero indipendentemente dagli accadimenti concreti e dunque allontanandosi progressivamente dalla realtà. Non scrive solo per una cerchia di specialisti. La sua urgenza è la formazione religiosa del popolo. Questa urgenza deriva dal suo particolare amore e dalla sua particolare vicinanza alluomo semplice; gli riuscì di unire uno spirito lucido a un linguaggio lineare e comprensibile.

Un biografo di papa Benedetto XVI ha scritto: “La semplicità gli appartiene. Un distacco altezzoso non è mai stata la sua caratteristica, per quanto fossero complesse le problematiche teologiche affrontate.

Il frutto della semplicità è lo sguardo chiaro sullessenziale. E proprio questo Willam condivideva con Ratzinger, il quale citandolo nella prefazione a Gesù di Nazaret lo preserva giustamente dalloblio.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Sandro Magister |on 3 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

Padre Johann Georg Hagen, una vita tra astronomia e fede

dal sito:

http://www.zenit.org/article-11317?l=italian

Padre Johann Georg Hagen, una vita tra astronomia e fede 

Intervista con l’Assistente del Direttore della Specola Vaticana 

ROMA, lunedì, 2 luglio 2007 (ZENIT.org).- Padre Sabino Maffeo, S.I., attuale Assistente del Direttore della Specola Vaticana a Castel Gandolfo, ha pubblicato un volume dal titolo “J.G. Hagen S.I. Astronomo e Direttore spirituale della Beata E. Hesselblad” (Edizioni AdP, pagg. 112, € 10,00).

Il libro, uscito lo scorso anno in occasione del centenario della nomina del padre Hagen come Direttore della Specola Vaticana, contiene la fitta e interessante corrispondenza epistolare fra questo sacerdote gesuita e
la Beata Elisabetta dell’Ordine del SS. Salvatore di S. Brigida.

Padre Sabino Maffeo, oltre agli studi filosofico-teologici svolti presso
la Pontificia Università Gregoriana, si è laureato in Fisica Pura e ha insegnato all’Istituto Massimiliano Massimo di Roma.

E’ stato, successivamente, Direttore Tecnico della “Radio Vaticana” e Vice Direttore Amministrativo della Specola Vaticana. Il suo volume “
La Specola Vaticana. Nove Papi, una Missione” (2001) è considerato un prezioso contributo negli studi di storia della scienza e dei rapporti tra astronomia e fede.

Recentemente è stato pubblicato il suo libro sul gesuita austriaco Johann Georg Hagen. Ci potrebbe brevemente presentare la sua figura umana e sacerdotale?

P. Sabino Maffeo: Il padre Johan Georg Hagen (1847-1930), gesuita austriaco, fu Direttore dell’Osservatorio astronomico del Georgetown College a Washington. Era già ben noto in campo astronomico soprattutto per i suoi importanti lavori sulle stelle variabili, quando nel 1906, fu chiamato da Pio X a dirigere
la Specola Vaticana. Portò avanti con alacrità e competenza il lavoro fotografico della Carta del Cielo e del Catalogo astrografico al quale
la Specola si era impegnata in campo internazionale.

Con l’installazione di un telescopio visuale il padre Hagen poté continuare il suo lavoro sulle stelle variabili. Realizzò due nuove prove sperimentali della rotazione diurna della terra e, negli ulti anni della sua vita, si dedicò all’osservazione di oggetti celesti alquanto discussi, da lui chiamati “nebulose oscure”.

L’attività pastorale del padre Hagen, benché poco visibile, ma tuttavia non meno importante di quella scientifica, consisté essenzialmente nella direzione spirituale di una donna di eccezione: la beata Elisabetta Hesselblad, fondatrice del ramo romano e svedese dell’Ordine del SS. Salvatore di S. Brigida.

La storia della Chiesa è ricca di personalità in cui, insieme all’impegno scientifico, non è mai taciuta una profonda esigenza spirituale. In che modo padre Hagen ha saputo armonizzare questi due aspetti indissolubili nella sua vita di scienziato di fama internazionale e religioso?

P. Sabino Maffeo: Oggi si parla molto del rapporto scienza-fede e non poche volte i gesuiti della Specola Vaticana vengono interpellati da visitatori e giornalisti sul significato del loro lavoro di religiosi astronomi. La risposta più facile e immediata è quella di dire che il fatto stesso che ci siano uomini di Chiesa che sono anche uomini di scienza, dimostra con i fatti, più che con le parole, la piena compatibilità tra scienza e fede. Naturalmente ognuno dei membri della comunità religiosa della Specola realizza a suo modo la sintesi dei due aspetti della sua vita: quello religioso pastorale e quello scientifico.

Il caso del padre Hagen è del tutto particolare ed esemplare data la specificità, sopra accennata, della sua attività pastorale. Per questo, l’anno scorso, in occasione del centenario della nomina del padre Hagen a Direttore della Specola Vaticana, ho pensato di ricordarlo mettendo in evidenza questo aspetto poco noto della sua vita, pubblicando in un volumetto di 100 pagine, le circa 60 lettere che lui scrisse alla sua figlia spirituale. A parte l’effetto sorpresa in tutti quelli che, pur conoscendo il padre Hagen astronomo, non avevano mai saputo nulla di questo altro aspetto della sua vita, il libro è stato accolto con favore negli ambienti cattolici dove è di grande attualità la discussione e lo studio sul rapporto scienza-fede.

Il pregio del suo libro è quello di aver reso pubblico un aspetto non molto noto di padre Hagen. Una copiosa corrispondenza ci mostra il suo impegno pastorale come direttore spirituale della Beata Elisabatta Hesselblad, fondatrice delle Brigidine. Grazie a questo paziente lavoro, il rapporto tra scienza e fede appare vissuto in modo concreto e armonioso. Qual è, a suo avviso, la ricchezza di questa corrispondenza e del suo impegno pastorale?

P. Sabino Maffeo: L’attività pastorale del padre Hagen è particolarmente interessante sia per l’eccezionale vocazione della sua figlia spirituale, sia per l’intenso coinvolgimento con cui egli accompagnò
la Beata Elisabetta per tutte le tappe del suo cammino spirituale: conversione dal luteranesimo alla Chiesa cattolica, discernimento sulla sua vocazione alla vita consacrata, chiamata speciale a riportare le figlie di Santa Brigida nella casa romana di Piazza Farnese e ad operare in modo particolare per il ritorno alla Chiesa cattolica della Svezia, sua patria, e per la promozione dell’ecumenismo in generale.

Dai motivi e dalle raccomandazioni che più frequentemente si ripetono in queste lettere ci si può fare un’idea abbastanza chiara della spiritualità del padre Hagen e del suo modo personale di vivere, in perfetta serenità, il rapporto scienza-fede. Troviamo, in particolare, una forte insistenza sull’umiltà, sull’accettazione delle sofferenze e delle difficoltà, sulla fiducia nella Provvidenza divina, sull’importanza di fare il proprio dovere e di farlo solo per Dio. È importante notare che, per il padre Hagen, questo lavoro pastorale non era meno importante di quello astronomico: egli infatti, pur mettendo al primo posto il lavoro astronomico assegnatogli dall’obbedienza, affermava tuttavia che sarebbe stato il lavoro svolto per Elisabetta a costituire “una gemma nella mia corona eterna”.

Il pensiero contemporaneo di matrice scientista sembra condannare fermamente ogni possibile compatibilità tra scienza e fede. Quest’ultima, infatti, è considerata una esperienza personale o addirittura meramente psicologica e spogliata del suo intimo significato. Quali prospettive si aprono nello studio sul rapporto tra scienza e fede alla luce delle recenti iniziative in tal senso?

P. Sabino Maffeo: Capita ogni tanto anche a me di sentirmi dire: come fa lei, che è sacerdote e scienziato allo stesso tempo, a mettere insieme fede e scienza? E quando chiedo che mi si faccia un esempio di incompatibilità mi sento riproporre il caso Galileo, l’evoluzionismo, la teoria del Big Bang e il racconto della creazione del libro della Genesi. Trovo cioè che, il più delle volte, il problema nasce dal fatto che pochi conoscono i progressi che, da più di qualche secolo, sono stati fatti nella Chiesa circa il modo di interpretare
la Bibbia. Per queste persone è ancora efficace la risposta di Galileo: sia la natura che la rivelazione hanno per autore lo stesso Dio: non è quindi possibile che la verità conosciuta esplorando la natura sia contraddetta da quella rivelata.

Diverso è il problema quando si ha a che fare non con l’ignoranza ma con l’ideologia, come nel caso degli atei e degli scientisti, per i quali la scienza è l’unica fonte di verità e la fede, essendo una sovrastruttura senza alcun fondamento oggettivo, non può che essere di ostacolo alla scienza.

[Di Giovanni Patriarca] 

 

Publié dans:Approfondimenti |on 3 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno aloe_ferox

July 02, 2007 : Aloe ferox

http://www.ubcbotanicalgarden.org/potd/2007/07/aloe_ferox.php#002186

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 2 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

« Mio Signore e mio Dio »

Papa Benedetto XVI
Udienza generale del 27/09/06 © copyright Libreria Editrice Vaticana

« Mio Signore e mio Dio »

Notissima e persino proverbiale è la scena di Tommaso incredulo, avvenuta otto giorni dopo la Pasqua. In un primo tempo, egli non aveva creduto a Gesù apparso in sua assenza, e aveva detto: « Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò ». In fondo, da queste parole emerge la convinzione che Gesù sia ormai riconoscibile non tanto dal viso quanto dalle piaghe. Tommaso ritiene che segni qualificanti dell’identità di Gesù siano ora soprattutto le piaghe, nelle quali si rivela fino a che punto Egli ci ha amati. In questo l’Apostolo non si sbaglia. Come sappiamo, otto giorni dopo Gesù ricompare in mezzo ai suoi discepoli, e questa volta Tommaso è presente. E Gesù lo interpella: « Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente ». Tommaso reagisce con la più splendida professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: « Mio Signore e mio Dio! ». A questo proposito commenta Sant’Agostino: Tommaso « vedeva e toccava l’uomo, ma confessava la sua fede in Dio, che non vedeva né toccava. Ma quanto vedeva e toccava lo induceva a credere in ciò di cui sino ad allora aveva dubitato » (In Iohann. 121, 5). L’evangelista prosegue con un’ultima parola di Gesù a Tommaso: « Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno ».

Il caso dell’apostolo Tommaso è importante per noi per almeno tre motivi: primo, perché ci conforta nelle nostre insicurezze; secondo, perché ci dimostra che ogni dubbio può approdare a un esito luminoso oltre ogni incertezza; e, infine, perché le parole rivolte a lui da Gesù ci ricordano il vero senso della fede matura e ci incoraggiano a proseguire, nonostante la difficoltà, sul nostro cammino di adesione a Lui.

 dans immagini sacre

I santi di oggi:

http://www.icvbc.cnr.it/bivi/schede/Toscana/Firenze/25cattedrale2.htm

Processo e Martiniano, santi, martiri, le reliquie sono all’altare che porta il loro nome nel transetto destro di S. Pietro in Vaticano. Prima erano custodite nell’Oratorio a loro dedicato, eretto e decorato da Pasquale I che vi depose i corpi. Demolito, furono posti in un’altare sotto l’organo della basilica. Questi martiri al cui primitivo sepolcro, presso il II miglio della via Aurelia, accorrevano numerosi fedeli ammalati, sono così ricordati nel
M.R.: 2 luglio – A Roma, sulla via Aurelia, il natale dei santi Martiri Processo e Martiniano, i quali, dal beato Pietro Apostolo battezzati nel carcere Mamertino, ed avendo sofferto, sotto Nerone, la contusione della bocca, l’eculeo, i nervi, le fiamme e gli scorpioni, alla fine, percossi con la spada, furono coronati col martirio.

[ Tratto dall’opera «Reliquie Insigni e « Corpi Santi » a Roma» di Giovanni Sicari ]

Publié dans:immagini sacre |on 2 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

dal « Mattutino » di Ravasi: GIOIA IN GOLA

sempre dal giornale Avvenire il « Mattutino di Ravasi: 

30 Giugno 2007 
MATTUTINO 

 

GIOIA IN GOLA 

 

La bambina che va sotto gli alberi / non ha che il peso della treccia / un fil di canto in gola. / Canta sola / e salta per la strada: ché non sa / che mai bene più grande non avrà / di quel po’ d’oro vivo per le spalle, / di quella gioia in gola.
Leggete con calma questi versi durante la quiete del sabato estivo. Provate a immaginare la scena: sotto l’ombra degli alberi una bambina canta e balla lievemente, mentre sulle sue spalle ondeggia la treccia d’oro dei suoi capelli biondi. È un’immagine di bellezza, di dolcezza, di innocenza, capace di purificare il nostro sguardo sporcato da tante figure truci, oscene, cupe che ci imbandisce costantemente il televisore. A « dipingere » poeticamente questa scena è un nostro finissimo poeta, il ligure Camillo Sbarbaro (1888-1967). È curioso ricordare che egli era un erborista di fama internazionale, grande esperto in licheni, e quindi proteso a esaltare il mistero e l’armonia della natura, anche nei suoi segni minimi.
Io, però, vorrei sottolineare di quei versi solo la finale: in essa si dichiara quale sia la vera felicità. Basta soltanto possedere e godere un po’ di bellezza semplice e naturale come lo è la capigliatura bionda di quella piccina e soprattutto avere «un fil di canto» e di «gioia in gola». Noi, invece, cerchiamo la felicità nell’eccesso, nella moltiplicazione del godimento e del possesso, mentre essa è celata come una perla in una modesta custodia, ossia nella semplicità e nella purezza di cuore. Aveva ragione un importante autore francese, François-René de Chateaubriand, quando affermava che «la vera felicità costa poco; se è cara, non è di buona qualità». Ritroviamo anche noi la limpidità, la lievità interiore, la luminosità serena e gusteremo la vera gioia

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 2 juillet, 2007 |Pas de commentaires »

La spinta che viene dal convegno di Verona – Immaginare la speranza per un cristianesimo del quotidiano

questo articolo è di Avvenire, sempre su Avvenire c’è la “Nota sul Convegno di Verona è interessante, il link però è sempre quello, va cercato l’articolo:

http://www.avvenire.it/ 

La spinta che viene dal convegno di Verona 

Immaginare la speranza per un cristianesimo del quotidiano 

Franco Giulio Brambilla  

Il quarto Convegno ecclesiale, celebrato a Verona lo scorso 16-20 ottobre, non ha mancato l’appuntamento con la speranza. Gli oltre 2700 delegati di tutte le Chiese d’Italia possono ancora oggi testimoniare che le assise scaligere sono diventate in pochi giorni non solo un convegno sulla speranza, ma un evento di speranza. Spenti da tempo i riflettori del circo mediatico, resta il compito della sua ricezione nel tessuto vivo della Chiesa e della società italiana.
La Nota pastorale, che i vescovi hanno pubblicato nella festa dei santi Pietro e Paolo (e che oggi questo giornale pubblica), riprende in modo meditato, limpido e sobrio, l’esercizio di «immaginazione della speranza», che il convegno aveva svolto con passione nei padiglioni della Fiera. «Immaginare la speranza» non è nient’altro che il modo con cui
la Chiesa, con un’operazione spirituale e culturale, legge il proprio tempo nello specchio del Vangelo. Non è un gesto che parte da zero, ma si colloca nella scia del postconcilio, quando
la Chiesa stessa ha cercato di «tradurre in italiano il Concilio».
La Nota chiama ora i credenti a testimoniare la speranza cristiana attorno a tre «scelte di fondo». La prima operazione si è accesa durante il convegno nell’incontro tra le attese dei delegati e il tema risuonato a Verona: Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. La presenza e la parola del Papa ne hanno interpretato lo spirito nel modo più alto, coronando la proposta delle relazioni dei protagonisti, il cardinale Tettamanzi e del cardinale Ruini, e di coloro che si sono avvicendati sul podio della Fiera. Benedetto XVI ha indicato «quel che appare davvero importante per la presenza cristiana in Italia», ricordando che il nostro Paese è «un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana.
La Chiesa qui è una realtà molto viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione». È questa la prima sfida che i Vescovi raccolgono.
La Nota richiama la felice espressione con cui il Papa ha per così dire inviato un’enciclica all’Italia: «dire il grande « sì » della fede», la speranza cristiana fondata sul Risorto, l’unità dinamica di eros e agape, fede e ragione, verità e carità. A un anno e sei mesi esatti dall’inizio del suo pontificato, egli ne ha scolpito le linee di forza attorno alla risurrezione di Cristo: «la più grande « mutazione » mai accaduta, il « salto » decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo». Questo primato della parola di Dio e dell’evangelizzazione, che è il tratto distintivo del programma della Chiesa italiana in questo decennio, prende forma sottolineando l’ »eccedenza » della speranza cristiana, di fronte a un’esperienza della vita immersa nell’immediatezza dei beni e nella frenesia del tempo che passa.
La Chiesa italiana intende privilegiare e coltivare in modo nuovo e creativo la caratteristica « popolare » del cattolicesimo italiano. Tutto questo si riassume in un’unica indicazione: prendersi cura della coscienza delle persone, della loro crescita e testimonianza nel mondo. Di qui la seconda sfida: si tratta di «immaginare la speranza» dentro le forme della vita quotidiana, che Verona ha messo a tema attraverso gli ambiti dell’esistenza umana (la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità, la tradizione, la cittadinanza). Gesto ardito, con cui il tratto singolare della fede diventa lievito nella pasta del mondo, leva dentro i meccanismi della storia. L’esercizio che i delegati hanno fatto per quasi due giorni al convegno deve pervadere come un fremito di novità le comunità cristiane nello scorcio di questo decennio. La cura della coscienza delle persone, l’abilitazione di tutti i credenti e dei laici in particolare a una testimonianza responsabile, personale e sociale, è l’imperativo storico del momento. La parte centrale della Nota l o indica con grande forza, non solo all’elaborazione riflessa del « Progetto culturale », privilegiando la comunicazione e la questione antropologica, ma anche alla cura delle sue forme «ordinarie e popolari». Non passerà inosservato questo richiamo a un cristianesimo del quotidiano. È qui che si gioca la verità non solo della fede, ma anche dell’impulso del Vaticano II che stenta a trovar casa dentro la coscienza credente e le forme ordinarie della vita. Correggere l’immagine spettacolarizzata del cristianesimo è il miglior biglietto da visita per il dialogo con altre culture religiose, il dialogo ecumenico, il compito educativo, la cura di tutte le povertà e la stessa presenza sociale. Allontanando per sempre i fantasmi di oscure egemonie politiche. E, infine, l’ultimo « esercizio di speranza » chiama a raccolta l’agire pastorale e culturale della Chiesa italiana, mediante un ripensamento profondo dei suoi stili e delle sue figure. L’assottigliarsi delle energie e delle risorse pastorali deve essere ripreso come un appello dello Spirito che invita le comunità cristiane a ripensare profondamente le forme elementari dell’esperienza cristiana: il primo annuncio, l’iniziazione cristiana, la parrocchia, la domenica, i temi che hanno impegnato nella prima parte di questo decennio a un profondo ripensamento dell’agire pastorale della chiesa. Un’immagine rinnovata di Chiesa deve puntare dritto al cuore della persona, alla necessità di un’azione formativa che corregge le storture di una pastorale che non tiene nel punto focale la vita della gente. Per questo «bisogna accelerare l’ora dei laici». Non solo per stare con loro, ma perché senza di loro è impossibile che avvenga quel mirabile scambio tra la vita delle persone e il lievito del Vangelo. Cura delle relazioni, corresponsabilità, pastorale integrata, convergenza tra le aggregazioni, molti nomi di un unico stile che potrà pensare al futuro della testimonianza solo con un volto rinnovato di chiesa e di corale presenza nel mondo. Immaginare la speranza è, alla fine, un « cantiere aperto » dove si sperimenta – come diceva il grande filosofo Marcel – «la divina leggerezza delle vita in speranza». 

 

IRAQ – Vescovi caldei: appello all’unità della Chiesa e del Paese…

dal sito:

http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=9710&size=A 

 

02/07/2007 17:23


IRAQ
Vescovi caldei: appello all’unità della Chiesa e del Paese, rifiutando l’ultimo Sinodo
I presuli del nord pubblicano una dichiarazione congiunta in cui indicano le più urgenti necessità della comunità cristiana: sicurezza, emigrazione, educazione e cura pastorale dei profughi. Appello al Vaticano perché annulli l’ultimo Sinodo, che ha portato a conclusioni “deludenti” e ne convochi uno a Roma. A tutti gli iracheni un invito ad impegnarsi per un’autentica riconciliazione; nuovo no alla Piana di Niniveh.

 

Kirkuk (AsiaNews) – La preoccupazione per la salvezza di tutto il Paese al di là delle differenze religiose e quella per la sopravvivenza della Chiesa in Iraq, hanno spinto i vescovi caldei  del nord a prendere una netta posizione comune sulla tragedia in atto. Un comunicato ufficiale firmato oggi dai 5 presuli suggerisce le questioni “scottanti” che il Patriarcato e
la Santa Sede, come pure Baghdad e la comunità internazionale, dovrebbero affrontare per il bene della popolazione e della debole comunità cristiana.  Di seguito il testo integrale in una traduzione a cura di AsiaNews: 

Noi, vescovi caldei delle diocesi di Kirku, Erbil, Alqosh, Zakho e Ahmadiyah, dopo aver incontrato i nostri sacerdoti nella cittadina di Ain Sifni, lunedì 2 luglio, e aver dibattuto i recenti sviluppi della situazione ecclesiastica e nazionale e aver spiegato le ragioni per la nostra mancata partecipazione al Sinodo tenuto nel monastero di Nostra Signora vicino Alqosh, dall’ 1 al 6 giugno, pubblichiamo la seguente dichiarazione: 

Introduzione 

Riguardo agli sviluppi della Chiesa e della situazione attuale dell’Iraq, riteniamo dovere della Chiesa emergere da questa insana condizione per permettere allo Spirito di palesarsi e di operare reali riforme nella sua struttura e missione. Con una visione chiara, senza imbarazzo, senza nascondendosi dietro l’autorità, la liturgia o la tradizione, il rinnovo e l’aggiornamento devono avvenire in modo continuo. Il futuro della nostra Chiesa e la sua forza ed unità dipendono da questo. Le nostre diocesi sono piccole e si basano sull’improvvisazione; miopi considerazioni personalistiche portano alla scelta di persone indegne per ruoli importanti, indebolendo la sua unità, testimonianza, attività pastorale e istituzioni. La riforma e il rinnovamento in una chiara ed oggettiva linea evangelica e lo scopo di aiutare l’unità e a collaborazione, ci rende la migliore fonte di speranza e gioia, non solo per i cristiani, ma per tutti gli iracheni. 

La situazione del popolo iracheno e dei cristiani in questi giorni deve essere oggetto di discussione costante tra di noi. 

La priorità del lavoro ecclesiale 

In diverse lettere individuali e comuni abbiamo pregato Sua Beatitudine il Patriarca (Delly) di affrontare con coraggio le priorità presentate da noi e trovare soluzioni adatte. 

Di seguito riportiamo le tematiche: 

1 – Studiare la presente situazione dei cristiani in Iraq e prendere una posizione decisa (netta) riguardo a quello che succede nel Paese ed assumere una linea e una politica ufficiale; 

2 – Esaminare lo stato dei profughi interni e all’estero e nominare sacerdoti per la  cura pastorale, morale e spirituale di questa gente  piuttosto che inviarli all’estero. 

3 – Organizzare la curia patriarcale come richiesto dalle leggi della Chiesa (canone orientale 114-125), i suoi registri, fondi, comitati multilaterali e ufficio stampa; 

4 – Per il Seminario ed il Babel College: trovare un posto appropriato ed una direzione che renda gli studenti capaci di rispondere alla loro vocazione e scegliere un direttore spirituale. Il gruppo responsabile del seminario deve essere un modello per i seminaristi nel loro cammino verso il sacerdozio. Per sviluppare e far progredire il Babel College (facoltà di teologia) grazie al quale gli studenti di tutte le Chiese ricevono la loro formazione teologica; 

5 – I candidati vescovi: la persona deve avere un’alta spiritualità, una buon reputazione, una solida cultura e apertura; buona esperienza di amministrazione come stabilito dalla Chiesa (can. 180), deve essere scelto con il criterio di Giovanni Paolo II, “Pastores dabo vobis”, e non sulla base di altre considerazioni, come invece abbiamo appreso è successo nell’ultimo Sinodo; 

6 – La vita dei sacerdoti: prendersi cura di aggiornare la loro formazione pastorale, culturale e spirituale e garantire loro uno stile di vita dignitoso; 

7 – Il tribunale ecclesiastico non ha potuto riunirsi per mesi a causa dell’insicurezza e dell’assenza dei sui membri. Per questo chiediamo la formazione di un tribunale nella zona nord, molti casi aspettano una decisione. 

Alcune altre questioni da affrontare sono: studiare programmi di educazione religiosa, la riforma liturgica, l’importanza della presenza cristiana in Iraq e gli sviluppi dell’emigrazione e della regione rimangono ancora in sospeso. 

Queste sono le ragioni del nostro boicottaggio del Sinodo ad Alqosh, che avevamo chiesto al Patriarca di posticipare in modo da poter aver tempo di studiare in modo approfondito le questioni sopraelencate. Ma egli ha insistito nel riunirsi subito. Da quello che abbiamo letto su due dichiarazioni ufficiali on-line le decisione sono deludenti: due di noi sono stati nominati al Sinodo permanente senza chiedere il nostro consenso ed il seminario minore sarà trasferito alla diocesi di Alqosh, senza l’approvazione del vescovo! 

Preghiamo perché
la Santa Sede sospenda questo Sinodo per il bene della nostra Chiesa e convochi un nuovo Sinodo a Roma sotto gli auspici del Santo Padre, e nel quale parteciperemo tutti quanti ed insieme discuteremo di ogni questione in modo aperto. Per preparare questo nuovo Sinodo, specialisti religiosi e laici possono aiutare. L’attuale situazione nazionale ed ecclesiastica rende urgente un tale incontro. 

Un appello agli iracheni in generale e ai cristiani in particolare 

In questa occasione lanciamo un appello sincero ai nostri fratelli e concittadini iracheni: non arrendetevi all’amara realtà; apritevi gli uni gli altri; affidatevi al linguaggio della ragione e del dialogo come unica via per risolvere i problemi; aderite ai comuni valori umani, nazionali e religiosi. Sotto questa luce scegliamo un nuovo metodo di pensare e di convivere in spirito di responsabilità e fratellanza, liberi dalla paura e dal pregiudizio. Dobbiamo tendere le nostre mani per un’autentica riconciliazione nazionale, vivendo il perdono, costruendo ponti di fiducia per il consolidamento della convivenza, al fine di preservare la madre patria così com’è sempre stata: un mosaico di diverse eredità storiche, culturale, religiose. 

Ai nostri fratelli e sorelle cristiani, che soffrono molto di questa caotica situazione, chiediamo di continuare a portare avanti il vostro principale ruolo storico, la promozione del  dialogo e di una cultura di pace e della civiltà dell’amore. Noi speriamo che, con pazienza e saggezza, con preghiera e collaborazione con gli uomini di buona volontà, possiamo migliorare la situazione del momento ““finché sia passato il pericolo” (Salmo 57, 2). Rifiutiamo perciò ogni “Safe Haven” per i cristiani nella piana di Niniveh o altrove, perché tutto l’Iraq è la nostra patria e noi dobbiamo vivere insieme con i nostri concittadini in pace ed armonia. Noi vescovi e sacerdoti della regione del nord vi garantiamo il nostro sostegno e solidarietà: le nostre chiese e centri sono aperti per accogliervi; non risparmieremo nessuno sforzo per aiutarvi. Allo stesso tempo chiediamo ad ognuno di voi di accogliere le famiglie in fuga dalle zone più pericolose e di aiutarle, non chiedendo loro affitti troppo cari, visto che la maggior parte è disoccupata. L’etica cristiana richiede questa assistenza come dice San Paolo: “Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza” (2 Cor 8,14). 

Appello alle congregazioni religiose e alle organizzazioni caritatevoli 

Lanciamo un appello anche alle congregazioni femminili e maschili della Chiesa cattolica affinché vengano nelle nostre diocesi, dove la sicurezza è ancora buona, a prendersi cura delle esigenze culturali, educative e spirituali degli abitanti e dei nuovi profughi, ad aprire scuole, istituti politecnici, scuole di infermeria … 

Chiediamo anche alle organizzazioni caritatevoli cattoliche di aiutare lo sviluppo di questi rifugiati attraverso l’avvio di piccoli progetti agricoli, economici, l’assistenza sanitaria e l’apertura di piccole fabbriche. Questo genere di aiuti fornirà opportunità di lavoro ai residenti e nutrirà la loro speranza facendo in modo che rimangano in Iraq e non emigrino. 

  

Petros Harboli, vescovo di Zakho 

Rabban Al Qas, vescovo di Amadyia e amministratore di Erbil 

Mikhael Mandassi, vescovo di Alqosh 

Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk 

Andrè Sana, emerito di Kirkuk 

 

buona notte

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http://blog.libero.it/Mellina/view.php

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 2 juillet, 2007 |Pas de commentaires »
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