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Liturgia ed ecumenismo. Come applicare il Concilio Vaticano II
Per Benedetto XVI tra passato e presente della Chiesa non ci deve essere rottura ma continuità. Ne ha dato la prova con le sue ultime decisioni. Ricevendo meno critiche del previsto e molti più consensi. I commenti di Ruini, Amato, De Marcodi Sandro Magister ROMA, 16 luglio 2007 – Soltanto pochi mesi fa i vescovi francesi erano preoccupatissimi alla notizia che Benedetto XVI si apprestava a liberalizzare la celebrazione della messa detta di san Pio V. « Una simile decisione rischia di mettere in pericolo l’unità della Chiesa », scrissero i più allarmati. Benedetto XVI ha tirato dritto, col « motu proprio » diffuso il 7 luglio. Ma dai vescovi francesi non è venuta nessuna reazione di rigetto. E neppure dai vescovi delle nazioni più sensibili:
la Svizzera,
la Germania,
la Gran Bretagna. Anzi, i loro leader più autorevoli hanno salutato con commenti positivi la decisione del papa: dal cardinale Karl Lehmann, tedesco, al cardinale Cormac Murphy O’Connor, inglese, entrambi classificati come progressisti.
Lo stesso è avvenuto con il documento diffuso il 10 luglio dalla congregazione per la dottrina della fede, che fissa alcuni punti fermi della dottrina sulla Chiesa. Niente di paragonabile con le critiche che nell’estate del 2000 furono scagliate anche da ecclesiastici di primo piano contro la dichiarazione « Dominus Iesus » firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, in buona misura riguardante gli stessi punti di dottrina. Il cardinale Walter Kasper, uno dei critici di allora, ha questa volta appoggiato con decisione il documento vaticano: « Dire con chiarezza le proprie posizioni non limita il dialogo ecumenico ma lo favorisce ». E da Mosca, il metropolita Kirill di di Smolensk, presidente del dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato ortodosso russo, ha definito il testo « una dichiarazione onesta, perché per un dialogo sincero bisogna avere una visione chiara delle rispettive posizioni ».
Di critiche naturalmente ne sono arrivate contro l’uno e l’altro provvedimento, da dentro e da fuori
la Chiesa, specie da protestanti ed ebrei. Ma nel campo cattolico le proteste si sono limitate a settori circoscritti, per lo più italiani: il settore dei liturgisti e quello degli intellettuali che interpretano il Concilio Vaticano II come « rottura » e « nuovo inizio ».
Tra i liturgisti, il più accorato nel contestare il « motu proprio » papale è stato Luca Brandolini, vescovo di Sora, Aquino e Pontecorvo e membro della commissione liturgica della conferenza episcopale italiana, in un’intervista al quotidiano »
la Repubblica »:
« Non riesco a trattenere le lacrime, sto vivendo il momento più triste della mia vita di vescovo e di uomo. È un giorno di lutto non solo per me, ma per i tanti che hanno vissuto e lavorato per il Concilio Vaticano II. È stata cancellata una riforma per la quale lavorarono in tanti, al prezzo di grandi sacrifici, animati solo dal desiderio di rinnovare
la Chiesa ».
Tra i teorici del Vaticano II come « rottura » e « nuovo inizio » i più espliciti contro i provvedimenti papali sono stati il fondatore e priore del monastero di Bose, Enzo Bianchi, e lo storico del cristianesimo Alberto Melloni, coautore della « Storia del Concilio Vaticano II » più letta in tutto il mondo. Per Melloni, l’obiettivo di papa Ratzinger è niente meno quello di « sbeffeggiare » e « rottamare » il Concilio Vaticano II.
Quando invece, si sa, l’obiettivo palese di Benedetto XVI – da lui nitidamente enunciato ed argomentato nel memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 – è quello di liberare il Concilio da una sua particolare interpretazione: precisamente l’interpretazione della « rottura » e del « nuovo inizio » cara a Bianchi e Melloni.
« L’ermeneutica della discontinuità – ha detto il papa in quel discorso – rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare ».
Mentre la giusta interpretazione del Concilio Vaticano II, a giudizio di Benedetto XVI, è quest’altra:
« È l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato. È un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino ».
Il « motu proprio » che liberalizza il rito antico della messa e il successivo documento della congregazione per la dottrina della fede sono entrambi l’applicazione di questo enunciato.
Il papa l’ha spiegato nella lettera ai vescovi con cui ha accompagnato il « motu proprio ». Ma in più ha avuto l’accortezza di esporre le sue ragioni e discuterne il 27 giugno, dieci giorni prima della pubblicazione del « motu proprio », con un gruppo scelto di vescovi di vari paesi, tra i quali i cardinali Lehmann, Murphy O’Connor e i francesi Jean-Pierre Ricard, Philippe Barbarin e André Vingt-Trois. Alla successiva buona accoglienza del provvedimento da parte di tutti costoro ha contribuito questo incontro preliminare col papa.
Tra i partecipanti all’incontro c’era anche, per l’Italia, il cardinale Camillo Ruini. L’8 luglio, il giorno dopo la pubblicazione del « motu proprio », egli ha pubblicato sul quotidiano della conferenza episcopale italiana, « Avvenire », l’editoriale riprodotto qui sotto.
Subito dopo, in questa stessa pagina, è riportata un’intervista con l’arcivescovo segretario della congregazione per la dottrina della fede, Angelo Amato, coautore del documento diffuso il giorno precedente. In essa egli risponde ad alcune critiche ai due ultimi provvedimenti papali, tra cui quella a proposito della preghiera per la conversione degli ebrei nel rito del venerdì santo del messale detto di san Pio V. L’intervista, uscita su « Avvenire » l’11 luglio, è stata curata da Gianni Cardinale.
Infine, come terzo commento scritto espressamente per www.chiesa, c’è una nota di Pietro De Marco, professore all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.
1. Sollecitudine per l’unità della Chiesa di Camillo Ruini
Dieci giorni fa, al termine dell’incontro dedicato al « motu proprio » sull’uso della liturgia romana anteriore al Concilio Vaticano II, Benedetto XVI ha voluto illustrare personalmente i motivi che lo hanno mosso a promulgare questo testo.
Come primo e principale di tali motivi il papa ha indicato la sollecitudine per l’unità della Chiesa, unità che sussiste non solo nello spazio ma anche nel tempo e che non è compatibile con fratture e contrapposizioni tra le diverse fasi del suo sviluppo storico.
Papa Benedetto ha ripreso cioè il contenuto centrale del suo discorso del 22 dicembre 2005 alla curia romana nel quale, a 40 anni dal Concilio, ha proposto come chiave di interpretazione del Vaticano II non “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, bensì quella “della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”.
Egli non fa valere così un suo personale punto di vista o una sua preferenza teologica, ma adempie il compito essenziale del successore di Pietro che, come dice il Concilio stesso (Lumen Gentium, n.23), “è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli”.
Allo stesso modo, nella lettera ai vescovi con cui accompagna e mette nelle loro mani il « motu proprio », papa Benedetto scrive che la ragione positiva che lo ha indotto a pubblicarlo è quella di giungere a una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Egli ricorda espressamente come, guardando alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si abbia “continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava maturando, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità”.
Da qui – prosegue il papa – deriva per noi “un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente”.
Solo ponendosi su questa lunghezza d’onda si può cogliere davvero il senso del « motu proprio » e si può metterlo in pratica in maniera positiva e feconda.
In realtà, come il papa ha spiegato abbondantemente nella sua lettera, non è fondato il timore che venga intaccata l’autorità del Concilio e messa in dubbio la riforma liturgica, o che venga sconfessata l’opera di Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Il messale di Paolo VI rimane infatti la “forma normale” e “ordinaria” della liturgia eucaristica, mentre il messale romano anteriore al Concilio può essere usato come “forma straordinaria”.
Non si tratta – precisa il papa – di “due riti”, ma di un duplice uso dell’unico e medesimo rito romano. Giovanni Paolo II, inoltre, già nel 1984 e poi nel 1988, aveva consentito l’uso del messale anteriore al Concilio, per le medesime ragioni che muovono ora Benedetto XVI a fare un passo ulteriore in questa direzione.
Tale passo ulteriore non è, del resto, a senso unico. Esso richiede una volontà costruttiva e una condivisione sincera dell’intenzione che ha guidato Benedetto XVI: non solo a quella larghissima maggioranza dei sacerdoti e dei fedeli che si trovano a proprio agio con la riforma liturgica seguita al Vaticano II, ma anche a coloro che rimangono profondamente attaccati alla forma precedente del rito romano.
In concreto, ai primi è richiesto di non indulgere, nelle celebrazioni, a quegli arbitrii che purtroppo non sono mancati e che oscurano la ricchezza spirituale e la profondità teologica del messale di Paolo VI.
Ai secondi è richiesto di non escludere per principio la celebrazione secondo questo nuovo messale, manifestando così concretamente la propria accoglienza del Concilio.
In tal modo si eviterà il rischio che un « motu proprio » emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla.
Nella sua lettera il papa, rivolgendosi ai vescovi, sottolinea che queste nuove norme “non diminuiscono in alcun modo” la loro autorità e responsabilità sulla liturgia e sulla pastorale dei propri fedel.
Come insegna il Vaticano II (Sacrosanctum Concilium, n.22), ogni vescovo è infatti “il moderatore della liturgia nella propria diocesi”, in comunione con il papa e sotto la sua autorità. Anche questo è un criterio di primaria importanza perché il « motu proprio » possa portare quei frutti di bene per i quali è stato scritto.
2. Sapere chi siamo aiuta il dialogo Intervista con l’arcivescovo Angelo Amato, segretario della congregazione per la dottrina della fede
D. – Eccellenza, il primo dei « responsa » pubblicati dalla congregazione per la dottrina della fede riafferma che il Concilio Vaticano II non ha cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa. Ma non dovrebbe essere ovvio?
R. – Dovrebbe. Ma purtroppo non è così. Ci sono interpretazioni che, da parti contrapposte, vorrebbero che con l’ultimo Concilio ci sia stata una rottura con la tradizione della Chiesa cattolica. Alcuni ascrivono questo presunto fatto come una gloria del Concilio stesso, altri come una sciagura. Ebbene non è così. Ed era opportuno riaffermarlo in modo chiaro e inequivocabile. Richiamando anche quanto affermato con nettezza dal beato Giovanni XXIII nella sua allocuzione dell’11 settembre 1962, all’inizio del Concilio: « il Concilio… vuole trasmettere pura e integra la dottrina cattolica, senza attenuazioni o travisamenti… ». Bisogna che questa dottrina certa e immutabile, alla quale è dovuto ossequio fedele, sia esplorata ed esposta nella maniera che l’epoca nostra richiede. Altra è la sostanza del « depositum fidei », o le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo in cui vengono enunciate, sempre tuttavia con lo stesso senso e significato.
D. – La seconda risposta, che è poi quella centrale, prende di petto la questione del « subsistit in ». Come deve essere quindi interpretata questa affermazione del Concilio secondo cui
la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica?
R. – In effetti questa affermazione ha subito varie interpretazioni e non tutte coerenti con la dottrina conciliare sulla Chiesa. La risposta della congregazione, basata sui testi del Concilio e anche sugli atti dei lavori del Concilio stesso, che vengono citati in nota, riafferma che la sussistenza indica la perenne continuità storica e la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo nella Chiesa cattolica, nella quale concretamente si trova
la Chiesa di Cristo su questa terra. Non è quindi corretto pensare che
la Chiesa di Cristo oggi non esisterebbe più in alcun luogo o che esisterebbe solo in modo ideale oppure « in fieri » in divenire, in una futura convergenza o riunificazione delle diverse Chiese sorelle, auspicata o promossa dal dialogo ecumenico. No.
La Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica, esiste nella storia nella Chiesa cattolica.
D. – Ma perché allora – e questo è il tema della terza risposta – il Concilio non ha affermato appunto che
la Chiesa cattolica « è »
la Chiesa di Cristo e invece ha usato il termine « sussiste »?
R. – Questo cambio di termine non è e non può essere interpretato come una rottura col passato. In latino « subsistit in » è un rafforzativo di « est ». La continuità di sussistenza comporta una sostanziale identità di essenza tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica. Con l’espressione « subsistit in » il Concilio intendeva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa di Cristo. Esiste
la Chiesa come unico soggetto nella realtà storica. Allo stesso tempo però il « subsistit in » esprime anche il fatto che fuori della compagine della Chiesa cattolica non ci sia un vuoto ecclesiale assoluto, ma si possano trovare « numerosi elementi di santificazione e di verità… che in quanto doni propri della Chiesa di Cristo spingono all’unità cattolica ».
D. – La quarta risposta riguarda le implicazioni ecumeniche di quanto affermato sinora. E chiarisce il perché il Concilio Vaticano II attribuisca il nome di « Chiese » alle Chiese orientali, ortodosse e precalcedoniane, separate dalla piena comunione con Roma.
R. – La risposta è chiara. Queste Chiese, quantunque separate da Roma, hanno veri sacramenti e soprattutto in forza della successione apostolica, il sacerdozio e l’Eucaristia, e per questo meritano il titolo di Chiese particolari o locali, e sono chiamate sorelle delle Chiese particolari cattoliche. A questo però bisogna aggiungere che queste Chiese sorelle risentono di una carenza, di un « vulnus », in quanto non sono in comunione con il capo visibile dell’unica Chiesa cattolica che è il papa, successore di Pietro. E questo non è un fatto accessorio, ma uno dei principi costitutivi interni di ogni Chiesa particolare.
D. – L’ultima risposta ribadisce poi che alle comunità cristiane nate dalla Riforma del XVI secolo non si può attribuire il titolo di « Chiesa ».
R. – È un fatto doloroso, lo comprendo, ma, come afferma il Concilio, queste comunità non hanno custodito la successione apostolica nel sacramento dell’0rdine, privandosi così di un elemento costitutivo essenziale dell’essere Chiesa. A causa della mancanza del sacerdozio ministeriale queste comunità non hanno conservato quindi la genuina e integra sostanza del mistero eucaristico. Per questo, secondo la dottrina cattolica, non possono essere chiamate « Chiese » in senso proprio.
D. – Questo vale anche per la comunione anglicana?
R. – Sì.
D. – Eccellenza, che valore hanno questi « responsa »?
R. – Hanno una nota teologica autorevole. Autoritativa. Sono una esplicitazione, formulata dalla nostra Congregazione ed approvata espressamente dal Papa, del dato conciliare.
D. – Questi testi vengono pubblicati pochi giorni dopo il « motu proprio » che liberalizza la messa cosiddetta di san Pio V. Qualcuno potrebbe pensare che non si tratti di una coincidenza, ma di una precisa strategia…
R. – Nessuna strategia ecclesiastica o mediatica. I nostri documenti vengono pubblicati quando sono pronti. E basta. Altrimenti, se dovessimo stare attenti a questo tipo di problematiche che non ci appartengono rischieremmo, per un motivo o per un altro, di non riuscire mai a pubblicare quei testi che vescovi e molti fedeli attendono.
D. – Comunque questi due fatti sono stati interpretati – da alcuni – come una offensiva rivolta contro il Concilio Vaticano II.
R. – Non è così. Si tratta in entrambi i casi di uno sviluppo autorevole e ortodosso, in senso cattolico ovviamente, del Concilio. Il Santo Padre, e la nostra congregazione con lui, non usa l’ermeneutica della rottura, della contrapposizione, tra realtà pre e post-conciliare. Per il Papa e per noi vale invece l’ermeneutica della continuità e dello sviluppo nella tradizione. Si dovrebbe finire di considerare il secondo millennio della vita della Chiesa cattolica come una parentesi sfortunata che il Concilio Vaticano II, o meglio il suo spirito, ha cancellato d’un colpo…
D. – Eppure permangono i timori che questi atti siano dannosi al dialogo ecumenico.
R. – Quello che si afferma in questi « responsa » è stato già detto dal Concilio stesso, ed è stato ribadito da più documenti post-conciliari e dalla dichiarazione « Dominus Iesus » in particolare. In pratica non si fa che ribadire quale è l’identità cattolica per poter poi affrontare serenamente e più efficacemente il dialogo ecumenico. Quando il tuo interlocutore conosce la tua identità è portato a dialogare in modo più sincero e senza creare ulteriori confusioni.
D. – Eccellenza, c’è chi accusa il motu proprio « Summorum Pontificum » di essere anticonciliare perché offre piena cittadinanza a un messale in cui si prega per la conversione degli ebrei. È davvero contrario alla lettera e allo spirito del Concilio formulare questa preghiera?
R. – Certamente no. Nella messa noi cattolici preghiamo sempre, e per primo, per la nostra conversione. E ci battiamo il petto per i nostri peccati. E poi preghiamo per la conversione di tutti i cristiani e di tutti i non cristiani. Il Vangelo è per tutti ».
D. – Però si obietta che la preghiera per la conversione degli ebrei è stata superata definitivamente da quella in cui si invoca il Signore affinché li aiuti a progredire nella fedeltà alla sua alleanza.
R. – Lo stesso Gesù nel Vangelo di san Marco afferma: « Convertitevi e credete al Vangelo », e i suoi primi interlocutori erano i suoi confratelli ebrei. Noi cristiani non possiamo fare altro che riproporre quello che Gesù ci ha insegnato. Nella libertà e senza imposizioni, ovviamente, ma anche senza autocensure.
D. – Tempo fa lei aveva annunciato la pubblicazione di una istruzione aggiornata, una seconda « Donum Vitae », sui più scottanti temi legati alla bioetica e alle biotecnologie. A che punto è?
R. – Si tratta di un documento molto delicato, che richiede molta cura. Credo che ci vorrà ancora parecchio lavoro prima di licenziarlo.
D. – E l’altro documento annunciato, sulla legge naturale?
R. – Stiamo ancora raccogliendo i materiali prodotti da vari convegni internazionali su questo tema che, su nostra proposta, si sono svolti in varie università pontificie e istituzioni cattoliche del mondo.
D. – Quindi rimarremo per un bel po’ senza nuovi documenti della vostra congregazione?
R. – Non è così. Ci saranno tra poco due testi. Il primo su una specifica questione attinente la bioetica. L’altro riguardante un problema di indole missionaria. Ma è prematuro dire di più.
3. La medicina di papa Benedetto di Pietro De Marco
Nella sua lettera « Summorum Pontificum » Benedetto XVI ha fermamente indicato nel « Missale romanum », promulgato da Pio V e proposto in edizione riveduta da Giovanni XXIII nel 1962, una espressione della « lex orandi » – la regola della preghiera – e quindi della « lex credendi » – la regola della fede – di validità piena e attuale. Accanto al Messale promulgato da Paolo VI nel 1970, esso rappresenta un distinto uso dell’unico rito della Chiesa latina. Pur emarginato, infatti, in conseguenza dell’adozione nella liturgia delle lingue moderne, il Messale del 1962 non era mai stato “superato”, né avrebbe potuto esserlo, tantomeno “abrogato”. È rimasto in vigore, anch’esso “espressione vivente della Chiesa”.
La conferma della legittimità del « Missale romanum » decretata dalla « Summorum Pontificum » riconduce la vita cattolica alla sua essenziale natura di « complexio ». La storia cattolica precedente il Concilio Vaticano II viene proposta dal papa come vivente orizzonte dello “spirito” del Concilio stesso e della sua realizzazione: una realizzazione che molti estremismi hanno vissuto invece come incompatibile col passato.
Così, l’obiettivo della “riconciliazione interna nel seno della Chiesa” diviene parte di un più ampio intervento medicinale per
la Chiesa universale, anche indipendentemente da locali tensioni con le minoranze scismatiche.
Le stesse rare, ma virulente, reazioni negative al « motu proprio » confermano senza volerlo l’urgenza di questa azione medicinale di papa Benedetto.
Esse hanno sollevato contro la « Summorum Pontificum » due gravi accuse.
Da un lato essa avrebbe attentato all’autorità episcopale, poiché la decisione romana sottrarrebbe a colui che costituisce per essenza il liturgo della sua chiesa, il vescovo, l’autorità di disciplinare da sé gli stili e gli intenti liturgici dei sacerdoti che celebrano per sua delega.
Dall’altro lato, il « motu proprio » introdurrebbe una paradossale forma di relativismo liturgico, una liturgia “su ordinazione”, secondo le preferenze soggettive dei fedeli.
La seconda obiezione è decisamente fuori luogo. Se qualcosa ha offerto, da decenni, uno spettacolo di stili liturgici pericolosamente « à la carte », questo è l’abuso dilagante (e precoce, già nell’immediato postconcilio) della “interpretazione” o “inculturazione” del rito della messa. Chi non ricorda le arbitrarie soppressioni di preghiere e di gesti e l’introduzione illegittima di nuovi testi, attori e luoghi liturgici? Da ciò la migrazione del popolo credente alla ricerca degli stili di celebrazione più conformi al gusto, conservatore o progressista. Problema noto da tempo: il recente atto di governo di Benedetto XVI è stato preceduto da molti avvertimenti – soprattutto dalla istruzione « Redemptionis Sacramentum » dell’aprile 2004 – che sanzionavano le troppe “deformazioni arbitrarie”.
Il recupero del rito antico in latino potrà, al contrario di quanto si obietta, agire come paradigma stabilizzatore delle fluttuanti liturgie in lingua corrente. Come ha notato il cardinale Karl Lehmann, presidente dei vescovi della Germania, il « motu proprio » è un buon motivo per promuovere con nuova attenzione una degna celebrazione “ordinaria” dell’eucaristia e degli altri riti.
Quanto alla prima obiezione, l’autorità del vescovo è oggetto della lettera di accompagnamento di Benedetto XVI ai “cari fratelli nell’episcopato”. In essa si ricorda che il rito antico non è un altro rito, che la sua presenza nel popolo cristiano è memoria costruttiva, e che la sua celebrazione è legittima e opportuna.
La ricchezza storico-tradizionale del culto cristiano è, dunque, il dato primario cui attingere; e l’autorità esercitata dal vescovo-liturgo deve intendersi di conseguenza. Il vescovo non genera autonomamente, tanto meno ad arbitrio, né il fatto del rito, che ha il suo centro in Cristo, né la sua forma, che appartiene anzitutto alla Chiesa una e universale. Peraltro – fa capire il papa nella lettera all’episcopato – proprio i responsabili dell’unità nella Chiesa hanno mancato più volte, anche in un passato recente, al compito primario di evitare o sanare le divisioni.
In quale prospettiva va dunque letto l’atto di governo di Benedetto XVI?
Anzitutto, la nuova libertà della celebrazione della messa detta impropriamente « pre-conciliare » opererà da correttivo, se non da risarcimento, di un’indebita frattura pratica e ideologica consumata nel Novecento « iper-conciliare ». È una frattura con la tradizione della Chiesa moderna, dal XVI al XX secolo, e, quanto alla lingua, pressoché con l’intera tradizione.
Questa frattura non è stata voluta dalla costituzione sulla liturgia promulgata dal Concilio Vaticano II. Essa consiste nella cancellazione di fatto dello spirito della liturgia precedente la riforma, quasi intendendo o lasciando intendere ch’essa fosse in sé inadeguata.
L’iniziativa di papa Benedetto si conferma, dunque, rivolta contro la lettura ideologica e sostanzialmente “rivoluzionaria” che è stata data al Concilio da élite teologiche e pastoralistiche cattoliche, e che è lentamente penetrata nel clero e nelle parrocchie.
Vi è di più. La rinnovata legittimità di un’eucaristia celebrata in lingua latina e secondo il Messale romano del 1962 sembra destinata a riequilibrare non solo gli attuali eccessi rituali, linguistici, architettonici, ma anche i frequenti slittamenti verso uno svuotamento della sacramentalità delle celebrazioni. Slittamenti che hanno una preoccupante rilevanza sul piano della fede.
Si oppone che il Messale promulgato il 26 marzo 1970, ben radicato nella tradizione e frutto di una matura scienza liturgistica, sarebbe bastato a ottenere questi effetti. Nessuno ignora l’enorme lavoro della congregazione per il culto divino nei decenni, né la passione di Giovanni Paolo II per la vita liturgica della Chiesa: basterà rileggere la sua lettera « Dominicae Cenae » del febbraio 1980. Ma che ne è stato di questa ricchezza nelle pratiche ordinarie? Quale la loro capacità di orientamento e, ad un tempo, di contenimento del « rinnovamento liturgico » perseguito da quotidiani dilettantismi, spesso estranei all’idea stessa di sacralità dell’eucaristia e del sacrificio? E’ necessario riflettere sulla questa provata impossibilità di fondare opere grandi sulla sabbia delle retoriche postconciliari.
Da cosa invece può derivare la potenzialità riequilibratrice del rito « tridentino »? Almeno da tre fatti.
1. La lingua latina favorisce la percezione di una antichità del rito, di una originarietà su cui il presente non spadroneggia o prevarica ma profondamente e necessariamente si impianta, secondo continuità. Anche una partecipazione occasionale, ma non più “trasgressiva”, al rito antico in latino aiuta a capire che tradizione e innovazione hanno tra loro un rapporto necessario e una reciproca forza moderatrice. Lo sanno i rari credenti che hanno frequentato in questi decenni le liturgie celebrate in latino nei monasteri, ancora più che quelle “tradizionalistiche”.
2. La forma e la disciplina rituale della messa antica insegnano a credere proprio per come insegnano a pregare. Specialmente l’essere “rivolti al Signore” del celebrante – che non è un “dare le spalle” al popolo come insensatamente molti ripetono – e dell’assemblea tutta, così come la posizione eccentrica dell’altare rispetto agli astanti, conducono a riflettere di nuovo su spazio e tempo sacro, sul loro senso e fondamento. Di nuovo ma non in maniera « nuova »: piuttosto nel solco della tradizione cattolica, latina e orientale.
Né la comunità radunata, né i suoi sentimenti, né la sua socialità o compagnia sono, infatti, il perno del « sacrificium missae ». Non è il comportamento dell’assemblea che conta: quella della « liturgia attiva » è una tentazione pragmatistica di cui liturgisti, pastoralisti e progettisti di edifici sacri sembrano non essere consapevoli. Al contrario, l’azione della comunità orante è sotto la norma del sacrificio sacramentale e da lì deve trarre il proprio profilo; l’agire è al servizio dei « divina mysteria ». Il divino Sacerdote sacrifica se stesso al Padre e il celebrante e l’assemblea sono tratti in questo abisso, nella sua direzione e senso. il canone della messa è a questo che dà la massima rilevanza.
Simbolicamente, però, tutto risulta più chiaro al fedele quando gli sia consentito di guardare oltre il celebrante e l’altare, verso il Signore. L’essere rivolti al Signore si oppone alla tentazione, anche dei liturgisti, di concepire l’altare come « spectaculum » al centro dell’assemblea. L’offerta al Padre dell’unico Sacerdote si manifesta adeguatamente nell’attuale colloquio frontale tra celebrante e popolo? Oggi l’assemblea appare prevalentemente rivolta verso il celebrante, e il celebrante verso di essa, con un rischioso effetto di immanenza, se non di protagonismo. La tentazione di considerare sacramento l’assemblea, a scapito del trinitario « mistero della fede » che agisce nell’azione liturgica, è evidente ogni domenica.
3. Una liturgia che per tradizione antica e costante « ha al centro il Santissimo Sacramento che brilla di viva luce” (come si esprimeva il grande liturgista Josef A. Jungmann) implica una catechesi e una predicazione della presenza reale di Gesù nel pane e nel vino, del “Dio con noi” caro a Joseph Ratzinger teologo. Insomma, si imporrà una rinnovata attenzione ai sacramenti secondo un annuncio di realtà, oltre i livelli – e i valori innegabili ma secondari – della “partecipazione” comunionale e affettiva dell’assemblea.
Questa è la speranza che sembra di cogliere nella decisione di papa Benedetto: la speranza che fare oggi la prova della essenziale presenza della tradizione tra noi sia di medicina al disorientamento di tanti fedeli cristiani. L’auspicio di un « christifidelis laicus » quale sono io e è che, con l’assenso del vescovo, i parroci rendano possibile la celebrazione di almeno una messa settimanale, meglio se festiva, secondo il « Missale romanum » di Giovanni XXIII, aiutando tutti a ricuperare il significato profondo dell’antica tradizione liturgica e riappacificando nella Chiesa culture, generazioni e spiritualità.
Andrà comunque evitato che la richiesta della messa antica in latino diventi rivendicazione di minoranze che si percepiscono escluse e avversate. Si deve chiedere ai vescovi, ai pastoralisti e ai liturgisti di sperimentare presto soluzioni all’altezza delle situazioni delle singole diocesi. E da Roma – anzitutto dalla commissione vaticana “Ecclesia Dei” – ci si aspetta una solida guida sulle modalità di attuazione del « motu proprio », oltre che sulle ragioni teologiche e spirituali che lo innervano.