Nascere oggi: la disabilità non è nemica della dignità umana

dal sito:

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Nascere oggi:
la disabilità non è nemica della dignità umana

 ROMA, domenica, 15 luglio 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento di Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario « Le Scotte » di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita. 

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E’ appena uscito il terzo numero dei “quaderni di Scienza e Vita”, curati da Lucetta Scaraffia, che fanno il punto in campo scientifico e danno un giudizio etico sui fenomeni di particolare attualità medica.

Il numero attuale (http://www.scienzaevita.org/quaderni_registrazione.php?quaderno=3) si intitola “Nascere oggi”, e proviamo a dare una semplice linea di lettura.

Cosa c’è di tragico nel modo attuale di concepire l’alba della vita umana? Che si tratta di un processo percorso da un fenomeno nuovo, non rilevabile nei secoli scorsi: la paura. Certo, anche tanti anni fa c’erano rischi per la salute materna e infantile, ma più che di paura, si trattava di ansia. E, pur essendo entrambi fenomeni dolorosi, c’è una bella differenza tra le due, perché l’ansia è una incertezza che attende – nel bene o nel male – qualcosa. La paura, semplicemente non attende nulla: è solo incertezza e dunque solitudine. Infatti oggi:

- non si accetta un figlio se non si è programmato, se prima non si è messo in ordine “tecnicamente” il proprio status: questo non vuol dire essere irresponsabili, ma nemmeno vedere i figli come un investimento da fare freddamente a tavolino. Oggi la gravidanza di una giovane è una rarità, cosa che invece non era cinquant’anni fa: siamo sicuri che sia stato un progresso, dato che è proprio dai vent’anni e per pochi anni che il corpo della donna è al massimo fecondo e forte?

- non si accetta il figlio se non è “perfetto” e per questo ci si affida alla selezione prenatale o, in certe realtà internazionali, anche neonatali. Non a caso il quaderno riporta, illustrato dalla Professoressa Assuntina Morresi, il caso di un aborto eseguito per una malattia, l’atresia esofagea, che, come spiega in un chiarissimo saggio Lucio Romano (pg 13), è curabile nella stragrande maggioranza dei casi… e per di più il caso si è svolto tragicamente perché la diagnosi era sbagliata; e perché il bambino non è morto se non dopo una lunga agonia dopo la nascita.

- Insomma, l’unica compagnia che si finisce con l’avere in gravidanza è quella “medica”, spesso fatta solo di percentuali di rischio o di tests.

L’alba della vita è segnata da una solitudine che chiamiamo autodeterminazione; a questo proposito scrive nell’Introduzione
la Professoressa Lucetta Scaraffia: “La nascita di un bambino ha così perso completamente il suo carattere originario di esperienza naturale e collettiva, cioè la sua funzione di garante della continuità nel tempo di un gruppo umano, e nelle nostre società la procreazione è diventata un fatto squisitamente privato, frutto di una scelta individuale della madre, per cui il figlio è l’esaudimento di un desiderio, non un fatto di rilevanza sociale”.

Il moltiplicarsi degli esami prenatali, molti dei quali pletorici e ridondanti, spesso inutili a fini terapeutici, è il primo segno di paura. Scrive a pg 17 Barbara Duden Docente presso l’Università di Hannover, specializzata in Storia delle Donne: “Si deplora il fatto che in Germania, malgrado i frequenti esami, negli ultimi anni la maggior parte delle malformazioni fetali sia passata inosservata; c’è poi chi sostiene che non solo le «rilevazioni», in percentuale, lasciano a desiderare, ma che anche il numero dei referti «falso-positivi» sia esageratamente alto. È probabile che la frequenza degli errori diagnostici abbia un effetto depressivo sulle donne incinte. Infine, non è da escludere che conseguenze di poco conto, come l’irrequietezza del nascituro, o supposti effetti collaterali, come l’attorcigliamento del cordone ombelicale, o un peso insufficiente alla nascita siano da attribuire a ecografie troppo frequenti”.

Ma anche dopo la nascita la situazione di paura (e solitudine) verso ciò che non sappiamo controllare continua… e dalla paura si può solo fuggire: da più parti si chiede di legiferare per sanzionare come accanimento terapeutico la rianimazione di neonati estremamente prematuri o malati, che hanno un alto rischio di morte o di infermità permanente. Nel capitolo che io ho curato (pg 65), spiego che sicuramente nessuno ha il diritto di selezionare la vita del neonato sulla base di una presunta o reale disabilità, o del rischio che essa sopravvenga. In primo perché in questo caso il paziente non può esprimersi; in secondo caso perché sui neonati nessuno può avere la “diagnosi o la prognosi certa alla nascita”; e terzo perché dobbiamo aver ben chiaro che la disabilità non è nemica della dignità umana e non è certo la morte la risposta a chi soffre. Recentemente è stato pubblicato un ampio studio sulla rivista Lancet dove si dimostra che i nati con paralisi cerebrale hanno una qualità di vita sovrapponibile a quella dei nati sani… dimostrazione che non sono le malattie che danno o tolgono la felicità (di quanti suicidi di persone in ottima salute abbiamo notizia tramite i media!). Su questo filone ritroviamo la storia dell’eutanasia neonatale brillantemente narrata da Laura Guerrini (pg 93) e le commoventi vicende narrate da Giuseppe Noia (pg 51) sui genitori e bambini terminali, nel caso in cui venga prevista prima della nascita una morte sicura… ma che non si vuole eliminare come fossero degli intrusi indesiderati.

Vincere la paura, dunque, è l’imperativo che nasce da questo quaderno, ricco di letteratura, di esempi e chiaro nei giudizi. Ma ciò che ci può far vincere la paura non è uno sforzo perché, per una volta dando ragione a don Abbondio, “il coraggio nessuno se lo può dare!” perché il coraggio è una grazia, un dono che si raccoglie talora per natura, ma spesso, molto spesso, dal cuore di una compagnia umana, di una famiglia unita, di un’amicizia che apre al destino, di un rapporto di preghiera che non resta introspezione psicologica. Diceva CS Lewis, immaginando il carteggio tra un diavolo esperto nel dannare le anime e un giovane demonio: “come preliminare allo staccare l’uomo dal Nemico (cioè da Cristo) devi staccarlo da sé stesso”, cioè staccarlo dalle cose che la sua natura di uomo riconosce vere: famiglia, accoglienza dei figli, amicizia, fede. Si capisce allora che per far precipitare un uomo nella paura (staccarlo cioè dal senso delle cose) bisogna staccarlo dalle cose belle con cui il Significato si mostra. Solo una violenza forte e crudele può riuscire in questo; a noi sta di aderire al “bello”, cioè al “vero”, al Significato.

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