buona notte

Isacco della Stella (? – circa 1171), monaco cistercense
Omelie, 11
« Chi può rimettere i peccati se non Dio solo ? » (Mc 2,7)
Due cose spettano a Dio solo: l’onore di ricevere la confessione e il potere di perdonare. Dobbiamo fargli la nostra confessione e aspettarci da lui il perdono. A Dio solo infatti spetta perdonare i peccati; quindi a lui solo conviene confessarli. Ma l’Onnipotente, l’Altissimo, avendo preso una sposa debole e povera, ha fatto di questa serva una regina. Lei rimaneva indietro, e Lui l’ha posta accanto a sé; infatti dal suo costato lei è uscita, e in questo modo egli l’ha unita a sé (Gen 2,22; Gv 19,34). E come tutte le cose del Padre sono del Figlio e tutte le cose del Figlio sono del Padre, per la loro unità di natura (Gv 17,10), così lo Sposo ha dato tutti i suoi beni alla sposa e si è assunto tutto ciò che appartiene alla sposa che ha unita a sé e a suo Padre…
Per questo lo Sposo, che è una cosa sola con il Padre e una cosa sola con la sposa, ha tolto da lei quanto ha trovato in lei di straniero, fissandolo alla croce dove ha portato i suoi peccati sul legno e li ha distrutti per mezzo del legno. Ciò che è naturale e proprio alla sposa, egli l’ha assunto e rivestito; ciò che gli è proprio e divino, l’ha dato alla sposa… Condivide così la debolezza della sposa insieme al suo gemito, e tutto è comune allo Sposo e alla sposa. L’onore di ricevere la confessione e il potere di perdonare. Per questo ha detto: « Va’, presentati al sacerdote » (Mc 1,44).
Io vado spesso in questa Basilica, non è lontana da casa e, quindi da San Giovanni in Laterano, è molto bella e lì si respira veramente una divina atmosfera di calma, di preghiera e di sapienza e si incontra Sant’Agostino, dal sito:
http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=10973
GLI EBREI NASCOSTI NEI MONASTERI
Il Santo Padre ordina…
Pubblichiamo il memoriale inedito del monastero dei Santi Quattro Coronati, relativo agli anni dell’occupazione nazista di Roma: l’ordine di Pio XII di aprire il monastero ai perseguitati, i nomi degli ebrei nascosti, la vita nel convento durante quegli anni terribili
di Pina Baglioni
«La nostra vuole essere solo una piccola testimonianza su papa Pio XII. Senza nessuna pretesa, per carità. Certo, la mole di scritti sulla presunta indifferenza del Pontefice e sui suoi “silenzi” nei confronti degli ebrei negli anni del nazifascismo, ci addolorano profondamente. E allora c’è sembrato utile far conoscere quanto accadde qui da noi oltre sessant’anni fa».
“Qui da noi” è il monastero di clausura delle agostiniane annesso alla millenaria Basilica dei Santi Quattro Coronati, sulle pendici del Celio a Roma. A prendere la parola è suor Rita Mancini, la madre superiora alla guida della comunità monastica agostiniana dal 1977.
Sollecitate e incoraggiate dal convegno internazionale “Pio XII. Testimonianze, studi e nuove acquisizioni”, organizzato da 30Giorni il 27 aprile scorso presso
la Pontificia Università Lateranense, le claustrali dei Santi Quattro si sono messe in contatto col nostro giornale per offrire il loro contributo: alcune preziosissime pagine del Memoriale delle religiose agostiniane del venerabile monastero dei Santi Quattro Coronati. Vale a dire una parte del diario ufficiale della comunità che raccoglie dal 1548 – anno in cui le agostiniane si insediarono ai Santi Quattro – le cronache della vita monastica.
Grazie alle agostiniane dei Santi Quattro c’è la possibilità di aprire una finestra su quel microcosmo separato dal mondo e improvvisamente chiamato da papa Pio XII ad aprire le porte, alzare le grate e lasciarsi coinvolgere, rischiando gravi conseguenze, dai destini di tanta gente in pericolo di vita.
«Quando arrivai qui, nel 1977, conobbi suor Emilia Umeblo» racconta la madre superiora dei Santi Quattro. «Ai tempi dell’occupazione lei era la suora “esterna”, cioè la persona autorizzata, per motivi pratici, a uscire dalla clausura. Mi parlò a lungo di quei mesi e degli aspetti logistico-organizzativi per facilitare l’ospitalità ai rifugiati ebrei e a molti altri antifascisti. Tra l’altro suor Emilia era in contatto costante con Antonello Trombadori, dirigente del Partito comunista e capo dei Gruppi armati partigiani di Roma, e con tanti altri oppositori al nazifascismo. Ho pregato suor Emilia più volte di scrivere tutto quello che mi andava raccontando. Purtroppo non l’ha mai voluto fare. Non c’è più e i suoi ricordi se li è portati via con sé».
Per fortuna restano le pagine che suor Rita Mancini ha messo a disposizione di 30Giorni. Esse riguardano un lasso di tempo che va dalla fine del 1942 al 6 giugno 1944 e che comprende quindi il periodo dell’occupazione nazista a Roma fino alla liberazione della città avvenuta il 4 giugno del ’44.
«Arrivate in questo mese di novembre dobbiamo essere pronte a rendere servigi di carità in maniera del tutto inaspettata» scrive l’anonima cronista alla fine del 1943. «Il Santo Padre vuol salvare i suoi figli, anche gli ebrei, e ordina che nei monasteri si dia ospitalità a questi perseguitati, e anche le clausure debbono aderire al desiderio del Sommo Pontefice». Scorrono i nomi degli ospiti segnalati dall’elenco del memoriale: Viterbo, Sermoneta, Ravenna, De Benedetti, Caracciolo, Talarico… «A tutte le persone su elencate, oltre l’alloggio, si dava anche il vitto facendo miracoli per il momento che si traversava»; leggiamo che «tutto era tesserato.
La Provvidenza è sempre intervenuta… Per
la Quaresima anche gli ebrei venivano ad ascoltare le prediche, e il signor Alberto Sermoneta aiutava in Chiesa. La madre priora gli faceva fare tante cose all’altare del Santissimo preparato per il Giovedì Santo».
E nel bel mezzo della tempesta, mentre il chiostro del XIII secolo si riempie di paglia e fieno dove far riposare tutta quella povera gente, nulla si interrompe: lavoro e celebrazioni liturgiche procedono, sotto la paterna vigilanza di monsignor Carlo Respighi, l’allora rettore della Basilica dei Santi Quattro e prefetto delle cerimonie apostoliche, morto nel 1957. In un grande locale adiacente all’orto le monache nascondono nientemeno che undici automobili, compresa quella del maresciallo Pietro Badoglio, il capo del governo militare italiano, scappato da Roma all’indomani dell’8 settembre. E poi sette cavalle, quattro mucche…
Ma da quel che veniamo a sapere dal memoriale, anche dopo la liberazione ai Santi Quattro l’ospitalità proseguì: «Dalla Segreteria di Stato ci è ordinato di ospitare con la più scrupolosa precauzione il generale Carloni che era cercato per essere condannato a morte». Si trattava di Mario Carloni, generale dei bersaglieri che era stato a capo della IV divisione alpina Monte Rosa della Repubblica di Salò.
Che il monastero romano facesse parte del fitto reticolato degli istituti cattolici che ospitarono ebrei e perseguitati politici durante l’occupazione fascista, era cosa nota: è inserito nell’Elenco delle case religiose in Roma che ospitarono ebrei pubblicato nella sezione dei documenti della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice, uscita in prima edizione nel 1961 (Einaudi, Torino 21993, pp. 628-632), dove si legge che le «suore agostiniane dei Santi Quattro Incoronati» avevano ospitato 17 ebrei. L’elenco, che riprende un articolo della Civiltà Cattolica del 1961 firmato da padre Robert Leiber, rimane ancora oggi uno dei documenti-chiave per tutte le indagini successive. Fino alle più recenti. Come quella, avviata nel 2003 dal Coordinamento storici religiosi, sugli ebrei ospitati presso le strutture cattoliche a Roma tra l’autunno del 1943 e il 4 giugno del 1944. Suor Grazia Loparco, docente di Storia della Chiesa presso
la Pontificia Facoltà Auxilium e membro del Coordinamento, nel gennaio del 2005 ha reso noti all’agenzia internazionale Zenit i primi risultati dell’indagine: gli ebrei salvati a Roma all’interno degli istituti religiosi furono, secondo una stima per difetto, almeno 4.300.
Altre testimonianze inedite fornite da persone salvate grazie all’accoglienza negli istituti religiosi sono state rese note nei volumi di Antonio Gaspari, Nascosti in convento (Ancora, Milano 1999), e di Alessia Falifigli, Salvàti dai conventi. L’aiuto della Chiesa agli ebrei di Roma durante l’occupazione nazista (San Paolo, Cinisello Balsamo 2005). Sia in questi ultimi studi che in tutti quelli che da almeno quarant’anni indagano sul ruolo giocato dai cattolici nella salvezza degli ebrei dalle persecuzioni nazifasciste, è presente l’interrogativo se quell’accoglienza ebbe solo carattere spontaneo, o ci furono ordini provenienti dai vertici della Chiesa. La risposta è stata sempre sostanzialmente la stessa. E cioè che la natura dell’ospitalità data dalla Chiesa romana ai perseguitati, soprattutto ebrei, è stata spontanea, non decisa preventivamente dai vertici della Chiesa, ma da essa assecondata e sostenuta moralmente e materialmente. E nella presentazione al volume della Falifigli, Andrea Riccardi, storico del cristianesimo presso
la Terza Università di Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, chiarisce: «Per superare i divieti della clausura, quella stretta dei monasteri ma anche quella più blanda dei conventi, ci voleva una direttiva superiore». E aggiunge: «Ma tutti, unanimemente, hanno sorriso all’idea che potesse esserci un qualche documento vaticano in proposito. Chi avrebbe fabbricato una prova contro sé stesso per un’attività proibita e clandestina? Eppure tutti i responsabili erano convinti che fosse la volontà del Papa, quella di aprire le porte delle loro case agli ebrei e ai perseguitati». Giudizio già espresso dallo scrittore e giornalista di origine ebrea Enzo Forcella in un volume del 1999: «L’assenso all’asilo era stato dato solo verbalmente, s’intende. Per tutta la durata dell’occupazione le autorità religiose si atterranno alla loro antica regola: è sempre meglio far capire che dire, se qualcosa deve essere detta è bene evitare di lasciarne traccia scritta e, in ogni caso, alle eventuali contestazioni bisognerà rispondere che si era trattato di iniziative personali dei singoli sacerdoti prese all’insaputa delle autorità superiori» (
La Resistenza in convento, Einaudi, Torino 1999, p. 61).
Cosa aggiungono allora le pagine del memoriale agostiniano che 30Giorni pubblica? «Basta leggerle, non c’è molto altro da dire: le nostre consorelle non ricevettero un vago invito della Santa Sede ad aprire il convento a chi ne avesse bisogno. Ma un ordine» ribadisce suor Rita Mancini. «L’ordine perentorio del Pontefice di ospitare ebrei e chiunque altro stesse rischiando la vita a causa delle persecuzioni dei nazifascisti. Condividendo con loro tutto, facendoli sentire a casa propria. Con gioia, nonostante il pericolo. Se questa è indifferenza…».
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Il memoriale è redatto in uno stile asciutto, sobrio, eppure emozionante, capace di restituire il clima di quei mesi vissuti pericolosamente all’interno delle sacre e invalicabili mura del monastero, dove giunge l’eco di una Roma terrorizzata e sofferente. Che in rapida successione aveva dovuto subire: il bombardamento dal quartiere San Lorenzo il 19 luglio del ’43, con 1.400 morti, 7.000 mila feriti e la distruzione dell’antica Basilica di San Lorenzo; sei giorni dopo, l’arresto di Mussolini per ordine di Vittorio Emanuele III di Savoia e la nomina del maresciallo Pietro Badoglio a capo del governo militare; un secondo bombardamento degli Alleati «ancora più disastroso del primo», scrissero i giornali romani, il 13 agosto: ad essere presi di mira furono allora i quartieri Tiburtino, Appio e Tuscolano; la successiva acquisizione dello status di “città aperta”, cioè zona smilitarizzata; poi l’armistizio dell’8 settembre tra il governo italiano e le Forze alleate; la fuga di Badoglio e dei Savoia verso Brindisi; il disorientamento dei soldati italiani lasciati allo sbaraglio; l’attesa degli angloamericani, sbarcati in Sicilia già dal 10 luglio, e l’arrivo invece dei carri armati tedeschi, che occuparono il cuore della città, dopo aver sopraffatto, presso Porta San Paolo, l’ultima postazione di civili e soldati italiani a difesa di Roma. E poi c’era stato quel sabato del 16 ottobre al Ghetto, quando, alle 5 di mattina, i nazisti avevano strappato 1.023 ebrei dalle loro case con destinazione il campo di sterminio di Auschwitz.
Ma «anche durante il periodo dell’occupazione tedesca,
la Chiesa splende su Roma», dirà un grande laico, lo storico Federico Chabod, agli studenti della Sorbona. Splende, continua Chabod, «in modo non molto diverso da come era accaduto nel V secolo. La città si trova, da un giorno all’altro, senza governo; la monarchia è fuggita, il governo pure, e la popolazione volge il suo sguardo a San Pietro. Viene meno un’autorità ma a Roma – città unica sotto questo aspetto – ne esiste un’altra: e quale autorità! Ciò significa che, benché a Roma vi sia il comitato e l’organizzazione militare del Cln, per la popolazione è di gran lunga più importante e acquista un rilievo ogni giorno maggiore l’azione del papato» (Federico Chabod, L’Italia contemporanea 1918-1948, Einaudi, Torino 1993, pp. 125-126).
Pubblichiamo qui di seguito il memoriale relativo al periodo dell’occupazione nazifascista a Roma. Esso comprende anche un brano di un articolo apparso sull’Osservatore Romano.
dal sito:
http://www.jesuschrist.it/recensioni.asp?sez=9&arg=108#
di Joseph Sievers
È stato notato tempo fa che giudaismo e cristianesimo hanno in comune una grande riluttanza: accettare pienamente e apertamente il fatto che Gesù era un ebreo. Noi cristiani spesso ci siamo creati un’immagine di un Cristo sradicato dalla sua terra, dal suo tempo, e dal suo popolo. Per gli ebrei invece, per molti secoli, Gesù è stato colui nel cui nome essi sono stati perseguitati e quindi era difficile considerarlo uno di loro.
Ciò non vuol dire che non ci sia stata tutta una letteratura, di carattere a volte polemico, spesso apologetico, su Gesù visto da ebrei. Bisogna anche affermare subito che non tutti gli autori ebrei che si sono interessati dell’argomento lo hanno voluto fare specificamente da ebrei, e che nessun autore può parlare a nome de « gli ebrei ». Infatti, in genere ogni autore esprime solo delle opinioni sue personali, basate sulle sue ricerche e sul suo punto di vista personale, che può essere condiviso da un numero più o meno grande di altre persone. Delle vedute ebraiche su Gesù si sono interessati alcuni libri e molti articoli. (1)
Rinviamo a questi studi per un esame più dettagliato di vari aspetti dello sviluppo delle vedute di ebrei su Gesù. Qui ci limitiamo ad un cenno ad alcuni libri che sono stati influenti nella prima metà del nostro secolo e a una selezione più ampia, seppur per niente completa, degli ultimi decenni (2). Quindi non consideriamo tutte le opere che non trattano principalmente di questo argomento, benché negli scritti filosofico-religiosi di Rosenzweig e Buber, in varie pitture di Chagall, e in tante opere della letteratura ebraica si trovino delle espressioni molto interessanti su Gesù.
Claude Montefiore, un esponente del giudaismo liberale in Inghilterra, fu uno dei primi a scrivere un commento ai Vangeli da un punto di vista ebraico, ma simpatetico al cristianesimo (3). La sua opera non presenta tanto delle idee originali quanto dà una propria sintesi degli studi fatti sui Vangeli, in quell’epoca, da studiosi cristiani. Il Montefiore parlava con tono tanto irenico che a volte venne accusato di essersi avvicinato troppo al cristianesimo, anche se egli stesso rimase sempre fedele al giudaismo.
Più conosciuta dell’opera di Montefiore è quella del Klausner, il quale, più che rifarsi agli studi neotestamentari di autori cristiani, ha cercato di capire e presentare Gesù nel suo contesto storico (4). L’originalità del suo libro non sta però nelle singole affermazioni, ma nel presentare uno studio su Gesù a un pubblico ebraico in lingua ebraica.
Klausner sottolinea l’ambiente ebraico in cui Gesù è vissuto e nel quale si situa il suo insegnamento. Afferma: «Gesù di Nazareth… era esclusivamente un prodotto della Palestina, un prodotto del giudaismo puro, senza alcuna aggiunta estranea. C’erano molti Gentili in Galilea, ma Gesù non era affatto influenzato da loro… Senza eccezione il suo insegnamento è interamente spiegabile attraverso il giudaismo biblico e farisaico del suo tempo» (5). Mentre vede l’origine di tutti gli insegnamenti di Gesù nel giudaismo, Klausner giudica duramente la – secondo lui – eccessiva e pericolosa radicalità dell’etica di Gesù.
Secondo Klausner ciò avrebbe portato a una deleteria scissione tra ideale religioso e prassi quotidiana (6). Anche se non seguiamo Klausner nelle sue polemiche, che hanno più a che fare con una millenaria storia di antisemitismo da parte cristiana che con la figura di Gesù, forse può essere utile vedere Gesù collocato interamente, « fino all’ultimo respiro », nel giudaismo del suo tempo.
Per più di una generazione l’opera di Klausner è rimasta il libro più influente di questo tipo, anche se è stata criticata per il suo approccio « dilettantistico » alle fonti rabbiniche e cristiane. Durante il periodo più buio della storia di questo secolo, tra il 1943 e il 1946, Jules Isaac scrisse il suo libro « Jésus et Israël » (7). In esso cerca di evidenziare l’ebraicità di Gesù e dei suoi primi discepoli. Si sofferma sulla inesattezza dell’accusa di deicidio fatta per secoli agli ebrei. Il libro si articola in una serie di proposizioni per combattere l’antisemitismo nelle sue radici cristiane. Questo libro programmatico ha avuto ampia risonanza, non tanto nel campo dello studio del Gesù storico quanto per un ripensamento dei rapporti fra ebrei e cristiani.
Negli anni Sessanta vediamo il riapparire di tutta una serie di libri su Gesù, scritti da ebrei. Il primo da notare è « We Jews and Jesus » (« Noi ebrei e Gesù ») di Samuel Sandmel (8). Fino alla sua morte nel 1979 il rabbino Sandmel è stato professore di Sacra Scrittura e letteratura ellenistica al famoso Hebrew Union College di Cincinnati negli Stati Uniti. Il suo è un lavoro molto sobrio, indirizzato primariamente a ebrei, ma evidentemente è stato ricevuto molto favorevolmente anche da altri. L’autore traccia lo sviluppo storico della comprensione di Gesù da parte di cristiani ed ebrei. La sua intenzione è di informare e di aiutare per una migliore comprensione reciproca tra ebrei e cristiani. L’interesse principale non è tanto rivolto al Gesù storico quanto alla situazione di ebrei e cristiani oggi.
Anche Schalom Ben-Chorin ha la stessa ansia di promuovere una migliore comprensione fra ebrei e cristiani. Nato e cresciuto in Germania, dal 1935 vive a Gerusalemme. Ha scritto ormai più di venti libri (in tedesco, alcuni tradotti anche in altre lingue), in cui il rapporto tra ebrei e cristiani è la nota fondamentale. Soprattutto vuole far capire ai cristiani le loro radici nel giudaismo. Qui ci interessa particolarmente uno dei suoi primi libri, sulla figura di Gesù di Nazareth (9). L’autore parte dal presupposto che Gesù era un ebreo del suo tempo, da capire – e da riscoprire – soltanto nel suo contesto ebraico, anche se era una persona eccezionale. Ben-Chorin fa sue le parole ormai famose di Martin Buber:
«Sin dalla mia giovinezza ho avvertito la figura di Gesù come quella di un mio grande fratello. Che la cristianità lo abbia considerato e lo consideri come Dio e Redentore, mi è sempre sembrato un fatto della massima serietà, che io devo cercare di comprendere per amore suo e per amore mio… Il mio rapporto fraternamente aperto con lui si è fatto sempre più forte e più puro, e oggi io vedo la sua figura con uno sguardo più forte e più puro che mai. È per me più certo che mai che a lui spetta un posto importante nella storia della fede di Israele e che questo posto non può essere circoscritto con nessuna delle usuali categorie di pensiero» (10).
Nel tentativo di collocare Gesù più esattamente nel suo contesto, Ben-Chorin afferma: «In questo senso, crediamo di non sbagliare nel far rientrare Gesù stesso tra i farisei, naturalmente all’interno di un sottogruppo di opposizione. Gesù stesso insegnava come un rabbino fariseo, per quanto con un’autorità maggiore, la cui eccessiva sottolineatura va tuttavia senz’altro considerata come tradizione kerigmatica» (11).
Tale tesi, che Gesù faceva parte del gruppo dei farisei, viene proposta ormai da vari studiosi, e non solo ebrei (12). Gesù fariseo: forse è un’idea scioccante per molti lettori. Infatti, non può essere comprovata da nessuna delle nostre fonti, neotestamentarie o altre. Però indica una verità spesso trascurata: che molti degli insegnamenti di Gesù non sono lontani da quelli di certi farisei o di rabbini, loro successori più o meno diretti. Infatti, seppur Gesù ha avuto polemiche con dei farisei, in nessun modo il suo insegnamento di per se stesso lo mette al di fuori del giudaismo.
La tesi fondamentale di Ben-Chorin è «che sotto la veste greca dei Vangeli si nasconde per così dire una tradizione originaria ebraica, in quanto Gesù e i suoi discepoli erano ebrei, prettamente e unicamente ebrei» (13). Seguendo l’esempio di Klausner ed altri, è ormai un fatto abbastanza acquisito tra gli esegeti sia cattolici che protestanti, fare attenzione allo sfondo ebraico dei vangeli. Però non è così facile, come lascerebbe intendere Ben-Chorin, essere sicuri dell’entità dell’influenza di tale sfondo. Naturalmente per un cristiano è impossibile affermare che Gesù era unicamente ebreo.
Spesso Ben-Chorin va troppo lontano nelle sue affermazioni su Gesù, come quando, per esempio, desume che Gesù era sposato dal fatto che non è mai accusato di non esserlo (14). Nonostante ciò, fra le opere di carattere popolare è forse ancora la migliore sul mercato italiano.
Un autore che ha avuto molto successo tra il pubblico, specialmente nei Paesi di lingua tedesca, ma ormai anche altrove, è Pinchas Lapide. Sono in commercio oltre venti libretti suoi in tedesco, di cui alcuni tradotti anche in italiano. Molti di essi sono nati da conferenze o programmi alla radio o alla televisione, a volte in dialogo con dei teologi famosi come Rahner, Moltmann e Küng. Il libro più provocatorio è intitolato « La resurrezione: un’esperienza di fede ebraica » (15).
In esso sostiene che l’idea della resurrezione individuale era presente nel giudaismo del tempo di Gesù e che quindi Gesù potrebbe essere stato risuscitato (per poi morire di nuovo), come egli stesso aveva risuscitato Lazzaro. Purtroppo qui si tratta di una interpretazione tendenziosa delle fonti giudaiche che porta a una apparente vicinanza a posizioni cristiane. Sembra che tale affermazione non serva né alla conoscenza migliore del Gesù storico, né all’approfondimento del dialogo fra ebrei e cristiani.
Anche se Lapide ha fatto e continua a fare molto per sensibilizzare un vasto pubblico cristiano al rapporto essenziale tra cristianesimo e giudaismo, bisogna distinguere tra affermazioni sue basate su una buona conoscenza delle fonti e intese a contribuire a una migliore comprensione di esse e altre affermazioni fatte piuttosto per il loro possibile effetto pubblicitario. Fra le sue altre pubblicazioni, Lapide dedica un volume assai utile a una rassegna di vedute ebraiche su Gesù. Di particolare interesse un capitolo dedicato al trattamento di Gesù nei testi scolastici israeliani (16).
Molto diversa si presenta invece l’opera di David Flusser, professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme, famoso per i suoi lavori sui Manoscritti del Mar Morto e su altri testi giudaici, oltre che sul Nuovo Testamento. Il suo primo libro su Gesù fu un grande successo editoriale, con traduzione in varie lingue (17). In esso Flusser tentò di far capire meglio la figura di Gesù, che egli vede come rappresentante di un giudaismo genuino, vicino al fariseismo ma critico di esso.
Flusser combatte su due fronti: da un lato vuole liberare i cristiani da quello che considera uno scetticismo troppo spietato degli esegeti, specialmente causato dall’influenza di Bultmann; dall’altro lato, tra le righe, nel fare sue certe critiche di Gesù ai farisei, vuole anche criticare alcune correnti del giudaismo moderno. Quindi vede Gesù come un personaggio importante non solo per il suo, ma anche per il nostro tempo.
Queste vedute Flusser le ha ampliate e in certi aspetti modificate in una sua opera più recente sulle parabole di Gesù (18). In uno studio che si estende per oltre 300 pagine fitte, cerca di analizzare quale sia l’essenza delle parabole di Gesù e quale sia il loro rapporto con le parabole rabbiniche. Afferma che «capiamo le parabole di Gesù in modo corretto soltanto quando le consideriamo appartenenti al genere letterario delle parabole rabbiniche» (p. 279).
L’autore insiste poi giustamente sul fatto che molti esegeti del Nuovo Testamento, anche quando sono consci di paralleli rabbinici a testi neotestamentari, spesso non ne conoscono abbastanza il contesto letterario e storico. Quindi Flusser cerca con tutti i mezzi, inclusa una polemica a volte dura, di far notare la necessità di leggere l’insegnamento di Gesù nel suo contesto giudaico.
Tra gli esegeti del Nuovo Testamento è stata elaborata una serie di criteri per stabilire con più sicurezza quali detti nei Vangeli si possono attribuire a Gesù stesso. Non c’è unanimità su quali possano essere questi criteri, ma uno che appare praticamente in ogni elenco è il cosiddetto « criterio di dissomiglianza », vale a dire: se un detto è « dissimile » dagli interessi sia delle primitive comunità cristiane sia del giudaismo del tempo, è da considerare autenticamente di Gesù.
Flusser va proprio nella direzione opposta: considera autentici di Gesù quei testi che più riflettono un pensiero consono a quello dei rabbini e dei farisei del tempo. Con questo mette il dito su un problema che molti esegeti hanno già superato, ma che si trova ancora in molti testi di teologia, anche recenti: spesso si mette l’accento soltanto sul fatto che Gesù era diverso da tutti gli altri, e non sul fatto che il Verbo si è fatto carne come ebreo ed è vissuto, ha insegnato ed è morto come un figlio del suo popolo, del suo tempo e della sua terra.
Molto diverso dall’approccio di Flusser è quello del Vermes. Anch’egli ha una conoscenza profonda sia del Nuovo Testamento che della letteratura ebraica del periodo. Il Vermes ha scritto un libro dal titolo semplice ma provocatorio: « Gesù l’ebreo » (19). In esso cerca di analizzare prima il contesto della vita e dell’insegnamento di Gesù e poi i vari titoli dati a Gesù. La sua intenzione non è di esporre un punto di vista specificamente ebraico. Infatti il sottotitolo dell’edizione originale era « Lettura dei Vangeli da parte di uno storico ».
Tuttavia suggerisce, citando Martin Buber, che «noi ebrei conosciamo Gesù negli impulsi e nelle emozioni della sua essenza giudaica, in una maniera che rimane inaccessibile ai gentili a Lui sottomessi» (20). Il Vermes cerca di evitare, in quanto gli è possibile, i preconcetti ideologici o teologici. Afferma che «ai Vangeli ci si avvicina per lo più con idee preconcette. I cristiani li leggono alla luce della loro fede, gli ebrei mossi da vecchi sospetti, gli agnostici pronti a scandalizzarsi e gli studiosi del Nuovo Testamento con i paraocchi del loro mestiere» (21). Tali generalizzazioni naturalmente dicono al massimo una parte della verità, ma può risultare utile l’essere coscienti della varietà dei punti di vista.
Tra i suggerimenti più interessanti del Vermes è quello di vedere Gesù in legame particolarmente stretto con l’ambiente della Galilea e con un tipo di giudaismo carismatico di cui conosciamo alcuni esponenti galilei (22). Anche se il Vermes non esaurisce l’argomento, ci induce a prendere più sul serio la domanda: in che tipo di ambiente giudaico Gesù è cresciuto?
La seconda parte del libro di Vermes è dedicata ad alcuni titoli cristologici di Gesù (profeta, signore, Messia, figlio dell’uomo, figlio di Dio). In contrasto con molti esegeti che attribuiscono la maggior parte di questi titoli alla comunità cristiana postpasquale, egli accetta tutti come storicamente attendibili, soltanto che Gesù non avrebbe mai usato o accettato il titolo di Messia quando altri glielo attribuivano. Il Vermes adopera un metodo di per sé molto valido, cioè l’analisi di che cosa significavano questi termini per un ebreo del primo secolo. Afferma che profeta, signore, figlio di Dio erano termini applicati a una varietà di persone, e ne cita esempi soprattutto dalla letteratura rabbinica. La controversia più grande si è accesa attorno all’interpretazione del termine « figlio dell’uomo » data da Vermes (in questo libro e in altri suoi studi sin dal 1965).
Egli ritiene che « l’espressione figlio dell’uomo seguendo un uso armonico serve alla persona che parla per alludere velatamente a se stessa per motivi di timore, modestia o umiltà »; in altre parole, nella bocca di Gesù essa sarebbe stata semplicemente una circonlocuzione per il pronome personale « io » (23). Qui non è il luogo per discutere questa affermazione controversa, ma notiamo solo che anche se è attestato l’uso di essa in senso di circonlocuzione, ciò non toglie l’importanza, nella stessa epoca, della figura escatologica del « figlio dell’uomo », conosciuto dal libro di Daniele (7, 13) e dalla seconda parte del libro di Enoch (cc. 37-71).
Evidentemente, per comprendere pienamente le problematiche toccate dal Vermes ci vuole una base di conoscenza del Nuovo Testamento e del giudaismo contemporaneo ad esso, ma l’autore scrive sia per lo specialista (con ampia documentazione nelle note a piè di pagina) sia per un pubblico più vasto. Certamente la sua non è l’ultima parola sull’argomento: anche il Vermes stesso vede il suo libro come l’inizio di una serie di tre volumi (24). Ma forse finora il suo è il tentativo più riuscito per collocare Gesù nel giudaismo del suo tempo.
Negli ultimi anni, specialmente in Nord America, dove sempre di più gli ebrei sono una minoranza accanto a altre minoranze, di cui varie di stampo cristiano, il dialogo fra ebrei e cristiani ha fatto dei progressi notevoli anche se rimane sempre molta strada da fare. Le persone coinvolte in questo dialogo a vari livelli sono sempre una piccola minoranza nella minoranza, sia da parte ebraica sia da parte cristiana. Un frutto di questo clima è anche tutta una serie di libri sul nostro argomento.
Uno è quello di Harvey Falk, dal titolo « Gesù il fariseo » (25). L’autore è un rabbino ortodosso, con una conoscenza delle fonti ebraiche molto vasta, seppur tradizionale piuttosto che scientifica. Falk prende spunto dalla affermazione di un suo famoso antenato, il rabbino Jacob Emden (1697-1776), che Gesù sarebbe venuto a fondareuna religione nuova per i Gentili, basata sui cosiddetti sette comandamenti dati a Noè (26).
Seppure l’atteggiamento molto positivo di Emden verso Gesù, Paolo e il cristianesimo in generale vada visto nel contesto della sua polemica durissima con altri gruppi di ebrei (specialmente i seguaci di un falso Messia, Sabbatai Zevi), i suoi scritti sul rapporto fra cristianesimo e giudaismo rimangono dei documenti importanti, adesso più facilmente accessibili grazie al lavoro del Falk.
Abbiamo già notato che il tentativo di collocare del tutto Gesù all’interno del fariseismo è destinato a fallire; ma nonostante ciò il lavoro del Falk, che usa le fonti secondo metodi tradizionali e non in modo storico-critico, è molto interessante. Cerca di dimostrare come in molti casi Gesù si trovasse in accordo sostanziale con la scuola farisaica di Hillel, che allora rappresentava una minoranza ma diventò più tardi la forza determinante. Al di là dei dettagli, è davvero segno di un clima nuovo se una tale opera può essere scritta da un rabbino ortodosso e pubblicata da una casa editrice cattolica.
Se un clima di dialogo, nato dopo la tragedia indescrivibile dell’era nazista, ha dato la possibilità a ebrei di avvicinare Gesù più serenamente, va anche detto che in molti autori ebrei ancora l’ansia di prevenire un possibile antisemitismo cristiano è un elemento importante nel trattare l’argomento.
Se soprattutto nelle opere di Flusser e Vermes vediamo un dibattito a volte acceso con posizioni di esegeti cristiani, il Borowitz va un passo più in là. In un clima influenzato da qualche decennio di dialogo fruttuoso fra studiosi ebrei e cristiani, egli ha deciso di studiare come alcuni teologi cristiani di oggi vedono Gesù. Non cerca tanto di arrivare al Gesù storico, ma di fare una valutazione di vari studi di cristologia. Dice:
«Sentivo che una investigazione dettagliata di un’area teologica in cui cristianesimo e giudaismo hanno delle vedute radicalmente diverse offrirebbe molti esempi interessanti per la logica della discussione interreligiosa… Se colloqui fra ebrei e cristiani devono avere un significato, si dovranno affrontare senza ambiguità le questioni inerenti nella dottrina cristiana del Cristo» (27).
Aiutato nella selezione dei testi da alcuni teologi cattolici e protestanti, cerca di vedere quanto queste cristologie diano un’immagine adeguata del contesto giudaico di Gesù e soprattutto che atteggiamento esprimono verso gli ebrei e il giudaismo. Le sue conclusioni sono che anche se nei testi scelti non trova antisemitismo, spesso ancora il giudaismo in generale o il fariseismo in particolare servono come sfondo negativo per la novità del Vangelo e l’unicità di Gesù.
Alcuni autori sono sensibili al fatto di Gesù, ebreo del suo tempo, ma anche nelle loro opere questo elemento sembra dimenticato poi in altri contesti. Troppo spesso ancora vale il titolo di una recente opera del noto esegeta cattolico Norbert Lohfink: « La dimensione ebraica nel cristianesimo: dimensione perduta » (28).
Si è parlato molto della differenza tra il Gesù storico e il Cristo della fede cristiana. Spesso autori cristiani vedono solo « il Cristo », o perché danno meno importanza al fatto storico o perché, come Bultmann, ritengono pressoché impossibile giungere al Gesù storico attraverso il doppio filtro degli autori del Nuovo Testamento e della comunità cristiana del primo secolo.
Autori ebrei invece riconoscono con più facilità un Gesù « storico » e riconoscono in esso dei lineamenti molto familiari dalla letteratura rabbinica e da altri scritti di origine ebraica. L’esegesi neotestamentaria, nel desiderio di trovare il Gesù autentico, ha troppo spesso sottolineato solo ciò che è unico nel suo insegnamento e quindi tendenzialmente lo ha separato sia dal giudaismo del suo tempo che dalla Chiesa primitiva. Anche se questa operazione è metodologicamente necessaria in certi momenti, non ci dà il Gesù autentico, ma o un genio di creatività o una persona eccentrica (a seconda del proprio punto di vista), comunque un personaggio staccato dal suo ambiente.
Dall’altro lato, molti autori, e non solo ebrei, cercano di vedere Gesù esclusivamente nel suo contesto ebraico e attribuiscono quasi ogni conflitto con esso agli evangelisti o allo sviluppo della Chiesa primitiva. Tendenzialmente quindi in questa visione si vede Gesù solo come un ebreo pio, fondamentalmente leale e osservante, con forse qualche idea eccezionale (29).
Da un punto di vista storico non sembra che ci sia una soluzione facile a questo dilemma di un Gesù o totalmente separato o totalmente inglobato nel suo ambiente. Per questo anche da un punto di vista soltanto storico, è importante il dialogo costante fra queste due tendenze.
Questo poi ha effetti non solo per lo studio di Gesù, ma anche per lo studio del giudaismo. Infatti, forse ancora timidamente, si sta facendo strada l’idea, espressa per esempio da Alan Segal, che né cristianesimo né giudaismo «possono essere compresi pienamente in isolamento l’uno dall’altro. La testimonianza dell’uno è necessaria per dimostrare la verità dell’altro e viceversa» (30).
L’interesse nel Gesù storico in questi ultimi anni sembra in continua crescita, sia fra cattolici e protestanti sia fra persone di altre fedi o convinzioni. Nel catalogo della Library of Congress dal 1975 in poi si riscontrano 66 titoli sotto la sola voce « Jesus Christ-Jewish Interpretations ». Quindi è impossibile tentare qui un quadro anche approssimativamente completo.
Ma vorrei concludere questa rassegna con riferimento almeno a due volumi. Jacob Neusner, prendendo spunto da vari testi matteani, si propone di rispondere a Gesù, con rispetto, esprimendo il proprio dissenso (31). Per lui, il dialogo deve iniziare dal riconoscimento esplicito della alterità dell’altro. Non ha paura di mettere sul tavolo subito le differenze fra l’insegnamento di Gesù e quello dei rabbini, come egli le percepisce. A parte possibili critiche a punti particolari di questo libro divulgativo, può essere rinfrescante per il dialogo sottolineare non soltanto ciò che accomuna Gesù ad altri ebrei del suo e del nostro tempo ma anche ciò che lo differenzia da essi.
Un progetto che sarebbe stato considerato impossibile ancora pochi anni fa ha trovato espressione in un piccolo ma sostanzioso volume intitolato « Ebrei e cristiani parlano di Gesù » (32). Esso contiene i contributi di otto studiosi, ebrei e cristiani, a una serie di colloqui su questo tema, colloqui a cui secondo la prefazione hanno partecipato ogni volta circa mille persone. Quindi, almeno in alcuni ambienti, oggi è possibile parlare insieme di Gesù, senza remore o forzature, e senza falsi irenismi.
Forse oggi possiamo riaffermare con convinzione che Gesù di Nazareth appartiene a ebrei e cristiani. La valutazione teologica su chi egli sia rimane naturalmente un fatto che ci divide. Però possiamo insieme riconoscere in lui un maestro e la vittima di un’oppressione. C’è una lunga tradizione ebraica, attualizzata in modo speciale durante
la Shoah (la persecuzione nazista), che riconosce in Gesù un ebreo perseguitato: a volte dai cristiani stessi (33). Se in qualche modo possiamo fare nostra questa nozione, non solo riportiamo Gesù nel suo contesto ebraico ma la sofferenza che in passato troppo spesso ha diviso ebrei e cristiani, forse può diventare sempre più profondamente un elemento di solidarietà e un nuovo punto di partenza (34).
NOTE
(*) Questa è una versione aggiornata di un articolo apparso su Nuova Umanità 64/65 (luglio-ottobre 1989) 125-136 e successivamente, in forma abbreviata, su Unità e Carismi 6 (novembre/dicembre 1996) 33-38. Esso è stato pubblicato anche su TERTIUM MILLENNIUM 1,5 (Novembre 1997) pagg. 48-53.
1) Gösta Lindeskog, Die Jesusfrage im neuzeitlichen Judentum, Uppsala 1938; 2a ed. Darmstadt 1973. Pinchas Lapide,Ist das nicht Josephs Sohn?- Jesus im heutigen Judentum, Kösel, München 1976. Donald A. Hagner,The Jewish Reclamation of Jesus: An Analysis and Critique of the Modern Jewish Study of Jesus, Zondervan, Grand Rapids 1984 (purtroppo quest’ultimo autore mantiene un atteggiamento polemico, perché non riesce ad accettare il giudaismo contemporaneo come realtà religiosa positiva). Werner Vogler,Jüdische Jesusinterpretationen in christlicher Sicht, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1988. Emilio Fermi, Che cosa pensano di Gesù i non cristiani: Il punto di vista di ebrei, islamici, induisti , in Dialogo, Milano 1995 (include stralci da libri di Klausner, Ben-Chorin, Flusser e Lapide). Tra gli articoli più significativi citiamo: Johann Maier, Gewundene Wege der Rezeption: Zur neueren jüdischen Jesusforschung, « Herder-Korrespondenz », 30 (1976), pp. 313-319; Clemens Thoma, Jüdische Zugänge zu Jesus Christus, « Theologische Berichte », vol. 7, Benziger, Zürich 1979, pp. 149-176; Lea Sestieri, Gli ebrei di fronte a Gesù, in Gesù Ebreo. Provocazione e Mistero (IV Colloquio ebraico-cristiano), « Vita Monastica », n. 158, Luglio/Settembre 1984, pp. 40-63.
2) Per un complesso di tradizioni ebraiche medioevali, da capire in un contesto molto diverso dal nostro, si veda Riccardo Di Segni, Il Vangelo del Ghetto: Le « Storie di Gesù »: leggende e documenti della tradizione medioevale ebraica, Newton Compton, Roma 1985.
3) Claude G. Montefiore, The Synoptic Gospels, 1909, 2a ed. 1927, ristampa KTAV,
New York 1968. Dello stesso autore si veda anche Gesù di Nazareth nel pensiero ebraico contemporaneo, Formiggini, Genova 1913.
4) Joseph Klausner, Gesù di Nazareth, 1922 (originale ebraico, tradotto in inglese, francese, tedesco).
5) Edizione inglese, p. 363.
6) Ibid., pp. 393-397.
7) Originariamente pubblicato nel 1948, 2a ed. ampliata Fasquelle Editeurs, Paris 1959; traduzione italiana: Gesù e Israele, Nardini, Firenze 1976.
8) Oxford University Press, New York 1965; 2a ed. 1973.
9) Schalom Ben-Chorin, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Morcelliana, Brescia 1985 (1a ed. tedesca 1967).
10) Fratello Gesù, cit., p. 27, citando Martin Buber, Zwei Glaubensweisen, Wer-ke, vol. 1, p. 657.
11) Fratello Gesù, cit., p. 41.
12) P. es., Harvey Falk, Jesus the Pharisee. A New Look at the Jewishness of Jesus, Paulist Press,
New York 1985. William E. Phipps,Jesus, the Prophetic Pharisee, « Journal of Ecumenical Studies », 14 (1977), pp. 17-31.
13) Fratello Gesù, cit., p. 305.
14) Ibid., p. 173.
15) Pinchas Lapide, Auferstehung – Ein jüdisches Glaubenserlebnis, Kösel, München 1977, 5a ed, 1986.
16) Pinchas Lapide, Ist das nicht Josephs Sohn? Jesus im heutigen Judentum, Calwer Verlag, Stuttgart/Kösel Verlag, München 1976.
17) David Flusser, Jesus. In Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Rowohlt, Hamburg 1968. Purtroppo l’edizione italiana (Lanterna, Genova 1976) è esauritada alcuni anni.
18) David Flusser, Die rabbinischen Gleichnisse und der Gleichnisserzähler Jesus. 1. Teil: Das Wesen der Gleichnisse, Peter Lang, Bern 1981. Dello stesso autore esiste anche una collezione di articoli, pubblicati precedentemente in varie riviste, sulla figura di Gesù e la tradizione dei suoi insegnamenti: Entdeckungen im Neuen Testament. Vol I. Jesusworte und ihre Uberlieferung, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1987. In italiano è stata pubblicata recentemente una collezione di articoli di Flusser, Il Giudaismo e le origini del Cristianesimo, Marietti 1995.
19) Geza Vermes, Gesù l’ebreo, Edizione italiana a cura di V. Grossi e E. Peretto, Borla, Roma 1983 (1a ed. inglese, 1973).
20) Ibid., p. VI.
21)
22) Ibid., pp. 48-95, specialmente pp. 91-93.
23) Ibid., pp. 187-223, cito p. 217. Si veda anche Paolo Sacchi, Gesù l’ebreo « Henoch » 6 (1984) pp. 361-367 (una recensione molto dettagliata del libro di Vermes); Geza Vermes, Jesus and the World of Judaism, SCM, London 1983, pp. 89-99 (capitolo intitolato « Lo stato attuale del dibattito sul Figlio dell’Uomo »).
24) Vermes ha portato avanti il suo progetto in tre conferenze, intitolate »Il Vangelo di Gesù l’ebreo » e pubblicate come cap. 2-4 nel suo volume Jesus and the World of Judaism, cit. Si veda anche il contributo del Vermes, La religione di Gesù l’ebreo, in Il « Gesù storico ». Problema della modernità, a cura di Giuseppe Pirola SJ e Francesco Coppellotti, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1988, pp. 19-35, id. The religion of Jesus the Jew, Fortress Press, Minneapolis 1993.
25) Harvey Falk, Jesus the Pharisee. A New Look at the Jewishness of Jesus, Paulist Press,
New York 1985.
26) Citato da Falk, ibid., p. 19.
27) Eugene Borowitz, Contemporary Christologies – A Jewish Response, Paulist Press,
New York 1980.
28) Norbert Lohfink, Das Jüdische am Christentum. Die verlorene Dimension, Herder,
Freiburg 1987, specialmente pp. 48-70.
29) Un esempio abbastanza recente di questo modo di vedere è Irving M. Zeitlin, Jesus and the Judaism of His Time, Polity Press,
Cambridge 1988. Un’immagine di Gesù zelota invece, difficilmente riconciliabile con la totalità delle fonti, viene offerta fra gli altri da Riccardo Calimani,Gesù ebreo, Rusconi, Milano 1990, 1995. Cf. Daniel J. Harrington, SJ, The Jewishness of Jesus: Facing Some Problems, « Catholic Biblical Quarterly » 49 (1987), p. 10.
30) Alan F. Segal, Rebecca’s Children Judaism and Christianity in the Roman World, Harvard Univ. Press, Cambridge, MA/London 1986, p. 179.
31) Jacob Neusner, A Rabbi Talks with Jesus: An Intermillennial Interfaith Exchange,
Doubleday, New York 1993.
32) Jews and Christians Speak of Jesus, a cura di Arthur E. Zannoni, Fortress Press,
Minneapolis 1994.
33) Vedi Clemens Thoma, Jüdische Zugänge zu Jesus Christus, « Theologische Berichte », vol. 7, Benziger, Zürich 1979, pp. 151-154.
34) Su questo punto vedi anche Daniel J. Harrington, op.cit. p.12.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-11327?l=italian
Messaggio al termine del XXII Congresso Mondiale dell’Apostolato del Mare
Testimoni di speranza per un umanesimo cristiano nel mondo marittimo
CITTA’ DEL VATICANO, artedì, 3 luglio 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Messaggio diffuso dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti al termine del XXII Congresso Mondiale dell’Apostolato del Mare, tenutosi a Gdynia (Polonia) dal 24 al 29 giugno 2007, sul tema: In solidarietà con
la Gente del Mare, testimoni di speranza con
la Parola di Dio,
la Liturgia e
la Diaconia.
* * *
Oggi, 29 giugno 2007, festa degli Apostoli Pietro e Paolo, naviganti del Vangelo, noi, membri dell’Apostolato del Mare, riuniti a Gdynia (Polonia) sul Mar Baltico, per il nostro XXII Congresso Mondiale, organizzato dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, ci rivolgiamo a voi, popolo del mare, comunita’ costiere e professionisti del mare, per inviarvi un messaggio di solidarieta’.
Il tema del nostro Congresso e’ stato In solidarieta’ con la gente di Mare, testimoni di speranza attraverso la parola di Dio,
la Liturgia e
la Diaconia.
Noi conosciamo e denunciamo assieme a voi l’esistenza di numerose situazioni disumane che continuano a persistere nel mondo: esseri umani che subiscono ancora grandi ingiustizie, sofferenze indicibili e morti disumane.
Sappiamo anche, pero’, che molti di voi vivono valori autentici di solidarieta’ e coraggio e che, sulle navi, ci sono relazioni amichevoli tra persone di culture e religioni differenti.
Sappiamo anche che le nuove tecnologie vi aiutano a comunicare meglio con le vostre famiglie, tra di voi e con l’opinione pubblica. Siamo riconoscenti alle istituzioni che le mettono a vostra disposizione e vi insegnano ad utilizzarle. Non potervi accedere o non sapersene servire contribuisce ad allargare il fossato che separa coloro che sanno da coloro che non sanno, cioe’ i poveri di sempre. In effetti, talune imprese utilizzano queste tecnologie per sottoporvi a ritmi di lavoro da robot, a detrimento del vostro equilibrio umano, familiare e spirituale.
Per queste ragioni, ed altre ancora, vogliamo essere solidali con voi come testimoni di speranza.
La Chiesa e’ consapevole di essere quella fragile imbarcazione su cui naviga la speranza, che non e’ soltanto una parola, un’idea, o un sogno. Come cristiani noi crediamo, in effetti, che essa e’ quel Qualcuno che ha un nome e un volto, Gesu’ Salvatore, Speranza del mondo.
· Volto umano dell’amore di Dio, Egli fa di noi i messaggeri della sua gioia;
· Figlio di Dio, Egli ci conduce verso il Padre che ci insegna ad amare come nostro Padre e ad adorare come nostro solo Dio;
· Condividendo le nostre pene e le nostre poverta’, Egli ci indirizza verso i piu’ diseredati, come loro servitori, testimoni del suo amore.
Cosi’, in questi tre modi ispirati dal Suo Spirito, Egli ci spinge a promuovere un umanesimo marittimo vivificato dalla Speranza cristiana. Attraverso di essa, non si tratta di raggiungere unicamente un obiettivo, ma di vivere una vita veramente umana, come Dio l’ha voluta per noi che siamo stati creati a sua immagine.
· Attraverso questa Speranza, Egli ci chiede di parlare con parole che siano azioni, come ricorda – sull’esempio di San Giovanni – Papa Benedetto XII nella sua Enciclica Deus Caritas Est. In concreto, cio’ significa che il Signore non ci chiede di essere soltanto la voce di coloro che non hanno voce, attraverso naturalmente le nostre organizzazioni professionali, ma di essere
la Sua Parola, che vive e si ripercuote, attraverso di noi, nel mondo marittimo, il vostro-nostro mondo,
La Parola di Dio e’ messaggero della Sua presenza confortante e testimone del mondo che verra’, il mondo che costruiamo insieme e che sara’ altresi’ un dono di Dio,
la Gerusalemme celeste.
· Mediante
la Speranza cristiana, Cristo ci chiede di rivolgerci a Dio come spesso facciamo di fronte all’immensita’ del mare, alla sua violenza e al suo splendore. Egli ci chiede di adorare il Creatore, di rispettare il creato, di voltare le spalle ai falsi idoli, di celebrare quel Dio che ci ha fatti per Lui e che ha impresso nei nostri cuori il sigillo dell’infinito, quel Dio che ci da’, nell’Eucarestia, la sua presenza reale e, nella Liturgia, segni forti di speranza, gioia e nuovo vigore.
· Infine, attraverso
la Speranza cristiana, Cristo, Sacerdote e Diacono, ci chiede di servire la gente del mare laddove siamo presenti, presso le pubbliche istanze, i diversi responsabili e le comunita’ cristiane, affinche’ non voltino le spalle al mare ma prestino attenzione a coloro che vivono sul mare e del mare.
Di qui la nostra gioia, dopo il Congresso Mondiale di Rio de Janeiro, del 2002, per la creazione del « Comitato Internazionale della Pesca dell’A.M. » e dell’approvazione, il 14 giugno 2007, della nuova Convenzione sulla Pesca a favore dei pescatori.
Richiamiamo la vostra attenzione, in questa occasione, su due pubblicazioni della Chiesa: il Compendio della Dottrina Sociale e il Manuale dell’Apostolato del Mare, grandemente utili per la formazione.
Per concludere, vogliamo ringraziare tutti gli operatori pastorali, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i diaconi, i laici e i volontari che, in una maniera o nell’altra, partecipano alla vitalita’ dell’Apostolato del Mare. Conosciamo i buoni risuoltati, in numerosi luoghi, di una collaborazione ecumenica lealmente vissuta, e di un dialogo interreligioso che nasce, in concreto, sul terreno, a bordo, e nei centri di accoglienza.
Nonostante gli ostacoli, le difficolta’ e i problemi che tutti sperimentiamo, restiamo nell’azione di grazia con Maria Stella Maris, per il nostro Apostolato del Mare che cerca, nonostante venti e maree, di promuovere quell’umanesimo marittimo che, grazie alla Parola di Dio, alla Liturgia e al Sevizio, in special modo per i poveri, fa di noi dei testimoni di speranza, in solidarieta’ con la gente del mare.