buona notte

Concilio Vaticano II
Constituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes), § 12-13
La libertà umana : « Lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio »
Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo però, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di lui. Pur avendo conosciuto Dio, gli uomini « non gli hanno reso l’onore dovuto… ma si è ottenebrato il loro cuore insipiente »… e preferirono servire la creatura piuttosto che il Creatore (Rm 1,21-25). Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza. Infatti l’uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono. Spesso, rifiutando di riconoscere Dio quale suo principio, l’uomo ha infranto il debito ordine in rapporto al suo fine ultimo, e al tempo stesso tutta l’armonia, sia in rapporto a se stesso, sia in rapporto agli altri uomini e a tutta la creazione.
Così l’uomo si trova diviso in se stesso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Anzi l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato. Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo e scacciando fuori « il principe di questo mondo » (Gv12,31), che lo teneva schiavo del peccato. Il peccato è, del resto, una diminuzione per l’uomo stesso, in quanto gli impedisce di conseguire la propria pienezza.
Nella luce di questa Rivelazione trovano insieme la loro ragione ultima sia la sublime vocazione, sia la profonda miseria, di cui gli uomini fanno l’esperienza.
Venice, Italy, 1994
Photograph by Sam Abell
Members of the Querini boat club row alla veneta, or gondola-style, through the waters of Venice Lagoon during the city’s 20th annual Vogalonga, a spirited rowing marathon that covers an 18-mile (30-kilometer) loop from Venice to Burano and back.
A group of oarsmen started the race in 1974 to revive traditional Venetian lagoon rowing. Today, the competition attracts some 5,200 rowers in more than 1,400 boats.
(Photo shot on assignment for, but not published in, « Venice: More Than a Dream, » February 1995, National Geographic magazine)
dal sito:
http://www.zenit.org/article-9289?l=italian
“
La Chiesa preferisce che l’altare sia fisso”
Intervista a padre Félix María Arocena, docente di Teologia liturgica
PAMPLONA, giovedì, 3 maggio 2007 (ZENIT.org).- L’altare cristiano ha un alto valore simbolico, tanto che
la Chiesa preferisce che non sia un oggetto mobile ma fisso.
È questa una delle idee raccolte dal padre Félix María ArocenaSolano nel suo libro “El altar cristiano”, edito dalla “Biblioteca Litúrgica” del Centro de Pastoral Liturgica (Barcellona), che, in questa intervista concessa a ZENIT, spiega anche cosa significhi per il cristiano essere “altare” di Dio.
Il professor Arocena (San Sebastián, 1954) è presbitero della Prelatura dell’Opus Dei sin dal 1981 ed è laureato in Teologia e in Diritto canonico. Attualmente è professore di Teologia liturgica presso
la Facoltà di Teologia di Navarra.
Padre Arocena Solano collabora inoltre con il Segretariato nazionale di liturgia della Conferenza episcopale spagnola.
A suo avviso, Benedetto XVI dedica una attenzione particolare all’altare rispetto ai suoi predecessori?
P. Arocena: Vi è una sostanziale univocità tra i Padri, per quanto riguarda la concezione dell’altare, nella liturgia cristiana, come segno di Cristo. “L’altare è Cristo”, affermano.
Tutti i Vescovi di Roma sono stati sensibili a questa teologia. Tanto Benedetto XVI, quanto i suoi predecessori, hanno fatto “parlare” l’altare per mezzo della loro ars celebrandi.
L’altare cristiano può essere mobile?
P. Arocena: I secoli XVIII e XIX sono, da un certo punto di vista, i secoli delle missioni e delle esigenze pratiche dei missionari, che durante i loro viaggi si vedevano costretti a celebrare il santo Sacrificio su piccoli altari portatili.
L’altare cristiano può essere mobile; in questo caso, l’altare non è dedicato, è benedetto. La supplica della benedizione dell’altare mobile è particolarmente bella, con una teologia di fondo di grande densità dottrinale.
Tuttavia, considerata la sua enorme carica emblematica,
la Chiesa preferisce che l’altare sia fisso.
Bisogna mettere in evidenza che l’intera vita liturgica della Chiesa ruota intorno al mistero dell’altare. L’altare cristiano è un mistero. Il poeta cristiano di origini spagnole Aurelius Prudentius Clemens diceva che l’altare è il tavolo che ci dona il sacramento (mensa donatrix sacramenti).
Cristo è il centro dell’azione della Chiesa; l’altare, segno di Cristo, è il centro dell’edificio della chiesa.
La centralità dell’altare nell’insieme dello spazio liturgico non è teologicamente un punto di arrivo, ma il punto di partenza.
La centralità dell’altare, rispetto all’edificio del culto, riflette la centralità di Cristo rispetto all’assemblea liturgica, al mondo e alla storia.
Nelle cattedrali, questo carattere centrale dell’altare si apprezzava nella sua localizzazione: è stato tradizionalmente collocato nel presbiterio, all’incrocio tra il transetto e la navata.
Come deve essere coordinato l’altare con l’ambone e la sede?
P. Arocena: Il Catechismo della Chiesa cattolica contiene una bella teologia simbolica e mistica che invita ad una maggiore comprensione di ciascuno dei poli della celebrazione: altare, sede, ambone.
Ciascuno di questi luoghi rappresenta un’icona dello spazio, immagine viva di Cristo che si esprime attraverso il linguaggio dello spazio e delle relazioni simboliche che tali spazi occupano.
Nella celebrazione, Cristo è re nella sede, sacerdote nell’altare e profeta nell’ambone.
Sono le tre funzioni di Cristo (tria Christi munera) che postulano un progetto iconografico comune, coerente con questa teologia e che ad essa si ispiri.
A causa del suo profondo simbolismo cristologico, sarebbe scarsamente espressivo un altare, ad esempio, fatto di legno, un ambone di metallo e una sede di marmo.
Cosa significa per il cristiano essere “altare” di Dio?
P. Arocena: Il conoscitore del pensiero simbolico-sacramentale dell’antichità cristiana non rimarrà sorpreso nel sapere che la visione luminosa del cristiano come altare di Dio rappresenta una realtà che fonda le sue radici nella migliore letteratura patristica.
Vi è una predica di Pietro Crisologo in cui dice: “Fa’ del tuo cuore un altare (altare cor tuum pone)”. La liturgia non si esaurisce infatti con le celebrazioni. L’apertura esistenziale della liturgia si estende a una prospettiva ampia del culto esistenziale.
Così come Cristo, il capo, si fa altare del proprio sacrificio, così i battezzati, sue membra, si fanno altari viventi del suo sacrificio esistenziale. Ogni cristiano è, con parole di san Josemaría Escrivá, sacerdote della sua propria esistenza.
L’altare della chiesa e l’altare del cuore sono tra loro strettamente relazionati. Il primo è il cuore del santuario; il secondo è la realtà più profonda della persona, il santuario interiore.
L’altare della chiesa e l’altare del cuore si completano reciprocamente e, in un modo misterioso, formano un’unica cosa.
L’altare vero e perfetto dove si offre il sacrificio di Cristo è l’unità vivente di entrambi, perché la vita cristiana è una sorta di sistole celebrativa e diastole esistenziale che ingloba l’intera vita del battezzato.
Su questo altare vivo, rappresentato dal cuore, il cristiano offre “sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo”. Offre il suo corpo “come ostia viva, santa e gradita a Dio”.
È il culto spirituale dei cristiani che, concludendo la celebrazione eucaristica, sentono dire al celebrante che a loro si rivolge: “Glorificate Dio con la vostra vita. Andate in pace”. Dopo il sacrificio eucaristico, il sacrificio spirituale. Dopo la liturgia, la latreia.
Inizia per i cristiani – se così si può dire – “l’altra liturgia”, la dimensione cultuale propria della vita di coloro che appartengono a Cristo: una vita espressa sempre in termini di liturgia del sacrificio, di alleanza, di mediazione, di espiazione…
Franz Michel Willam, il teologo che il papa ha tirato fuori dall’oblio
Autore nel 1932 di una celebre vita di Cristo, era stato da tutti dimenticato. Benedetto XVI lo cita in « Gesù di Nazaret » e uno studioso austriaco spiega perché. Sulla base di un carteggio inedito tra i due
di Sandro Magister
ROMA, 3 luglio 2007 – Nella prime righe della prefazione a « Gesù di Nazaret », Benedetto XVI ricorda che al tempo della sua giovinezza, negli anni Trenta e Quaranta, « vennero pubblicati una serie di libri entusiasmanti su Gesù« .
E fa i nomi di alcuni autori: Romano Guardini, Karl Adam, Daniel Rops, Giovanni Papini, Franz Michel Willam.
I primi quattro, e ancor più i primi due, sono tuttora abbastanza noti e letti. Ma l’ultimo no. Franz Michel Willam (1894-1981) è oggi un nome ai più sconosciuto. Caduto nell’oblio.
E allora perché Joseph Ratzinger lo cita?
Nel « lungo cammino interiore » che ha portato Ratzinger a scrivere « Gesù di Nazaret » Willam non sembrerebbe essere un autore di riferimento. Lo sono molto di più Guardini, Henri De Lubac, Rudolf Schnackenburg e il rabbino ebreo Jacob Neusner.
Del filosofo e teologo italo-tedesco Guardini si ritrova nell’attuale papa l’idea della centralità della Chiesa per avvicinarsi realmente a Gesù, in ogni tempo e in ogni luogo, attraverso l’eucaristia e gli altri sacramenti.
Dal teologo francese De Lubac Ratzinger ha attinto la profonda conoscenza del pensiero dei Padri e l’intuizione dell’unione tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
Col grande esegeta tedesco Schnackenburg il papa ha in comune la convinzione che il metodo storico-critico da solo non basta per comprendere la piena identità di Gesù.
Tra il rabbino Neusner e Ratzinger il dialogo è addirittura proseguito nelle pagine di « Gesù di Nazaret » e anche dopo, come ha riferito www.chiesa in un servizio dello scorso 11 giugno.
Willam, invece, nel libro è citato una sola volta, all’inizio. E poi sembra che di lui non vi sia più traccia. Ma è davvero così?
Sull’ultimo numero di « Vita e Pensiero », la rivista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è uscito un articolo che scioglie l’enigma.
Ne è autore il giovane teologo Philipp Reisinger, austriaco come Willam.
Egli cita un carteggio degli anni Sessanta tra Ratzinger e Willam e mette in luce come i due avessero in comune la convinzione che il segreto della grande teologia cristiana – quella che sa parlare non solo ai dotti – è « la semplicità« , è « lo sguardo chiaro sull’essenziale ».
Semplicità ed essenzialità che Ratzinger ha voluto imprimere in ogni pagina del suo « Gesù di Nazaret ».
Ecco l’articolo apparso su « VIta e Pensiero » n. 3, 2007:
Ratzinger e il « cappellano » teologo. Un carteggio inedito
di Philipp Reisinger
L’austriaco Franz Michel Willam è oggi certamente la personalità meno conosciuta tra gli autori citati da Benedetto XVI nella prefazione del suo libro “Gesù di Nazaret”.
Chi era? E perché il papa lo ricorda? Solo a pochi è noto il carteggio, conservato nel convento di Thalbach a Bregenz, in Austria, tra l’allora professore universitario Joseph Ratzinger e Franz Michel Willam, di lui più vecchio di 33 anni.
I due furono in stretto contatto in particolare negli anni 1967 e 1968. Uno dei motivi era il libro di Willam “Vom jungen Roncalli zum Papst Johannes XXIII. [Dal giovane Roncalli a papa Giovanni XXIII]”, edito nel 1967, e l’articolo di Ratzinger “Was heißt Erneuerung der Kirche? [Cosa significa il rinnovamento nella Chiesa?]” apparso un anno prima sulla rivista “Diakonia”.
In quest’ultimo testo si trova scritto: “La vera riforma è quella che si occupa di ciò che è autenticamente cristiano, che si lascia provocare e formare da esso”. La vera riforma, il vero rinnovamento richiede semplicità. “Rinnovamento è semplificazione”: così Ratzinger sintetizzava efficacemente la sua tesi.
Willam, che aveva scoperto e fatto emergere la semplicità come idea dominante in papa Giovanni XXIII, riportava così – in una lettera al vescovo Paulus Rusch – quello che per lui era il passaggio centrale dell’articolo di Ratzinger:
“La teoria della semplicità trova in Joseph Ratzinger la seguente versione: esiste la semplicità della comodità, che è la semplicità dell’imprecisione, una mancanza di ricchezza, di vita e di pienezza. Ed esiste la semplicità dell’origine, che è la vera ricchezza. Rinnovamento è semplicità, non nel senso di una selezione o riduzione, bensì una semplificazione nel senso di un diventar-semplice, del muoversi verso quella vera semplicità che è il mistero dell’esistente”.
Il 22 maggio 1967 Willam scrive a Ratzinger:
“Ho svolto una ricerca sulle concordanze nei cinque volumi contenenti i discorsi e i documenti del pontificato. Le parole ‘semplice’ e ‘semplicità’ sono le parole-chiave più ricorrenti in assoluto. Giovanni XXIII le intende certamente nello stesso modo in cui le intende lei: studiare la cosa in maniera precisa e porsi la domanda: come lo devo esprimere, in modo che la gente capisca il risultato?”.
“In questi giorni ho ricevuto il suo libro su papa Giovanni XXIII. L’ho già letto qua e là e lo trovo davvero emozionante”, è la risposta del professor Ratzinger dopo aver ricevuto il volume.
Ratzinger, in quanto nuovo decano della Facoltà teologica di Tubinga, scrisse una lunga e particolarmente benevola recensione del libro di Willam su “Theologische Quartalschrift”, 6, 1968:
“Senza dubbio questo libro può essere definito come la pubblicazione sin qui di gran lunga più importante per illuminare la figura di Giovanni XXIII. Allo stesso tempo è di fondamentale importanza per la comprensione del Concilio Vaticano II. Il libro si staglia ampiamente al di sopra della moltitudine di ciò che è stato scritto in questi contesti, e ciò attraverso la completezza delle sue informazioni e l’evidenza dei collegamenti. [...] L’autore, quindi, merita un ringraziamento senza riserve per il suo paziente lavoro, e non ultimo anche perché ha saputo dire molte cose in spazi contenuti”.
Willam fu davvero felice di questa recensione, e la citò in quasi tutte le lettere che scrisse nelle settimane dopo la sua pubblicazione. A un amico scrisse: “Si ha l’impressione che nel suo argomentare Ratzinger abbia in mente diversi dialoghi avvenuti durante il Concilio Vaticano II, anche con non cattolici come Oscar Cullmann”.
Willam nutrì una grande ammirazione per il professor Ratzinger e gli chiese consiglio in molti frangenti, lasciandosi correggere e consigliare da lui con semplicità, malgrado la rilevante differenza d’età. Nella già citata lettera, del 22 maggio 1967, tra le altre cose egli chiedeva al professore aiuto per una pubblicazione riguardante John Henry Newman, e concludeva la missiva con un complimento commosso:
“Poiché non conosco alcun teologo che nel pensare sia vicino a Giovanni XXIII quanto lei – la comune parola-chiave ‘semplicità’ lo testimonia oggettivamente – rivolgo questa richiesta proprio a lei”.
La semplicità, così profondamente decisiva per Willam, si esprimeva anche nel fatto che egli non si sentì mai chiamato a formulare una propria particolare teologia. Piuttosto desiderò cogliere i segni dei tempi ed essere testimone dell’eterno nel contesto di tutti i cambiamenti che avvenivano nell’arco della sua vita.
Anche qui è visibile una comunanza con Ratzinger, il quale affermò una volta:
“Non ho mai cercato di fondare un particolare sistema, una teologia speciale. Intendo semplicemente pensare insieme alla fede della Chiesa, e ciò significa anzitutto pensare insieme ai grandi pensatori della fede. Non si tratta di una teologia isolata e proveniente da me stesso, bensì di una teologia che si apre nella maniera più allargata possibile al comune cammino di pensiero della fede”.
Franz Michel Willam nacque il 14 giugno 1894 a Schoppernau nel Vorarlberg, figlio di un calzolaio e barcaiolo, dunque in un contesto semplice. Col nonno materno, il poeta patriottico Franz Michel Felder, condivideva non solo il nome, ma anche l’amore per la propria patria e il proprio popolo, lo slancio per la scrittura e la ricerca, nonché una miopia tendente quasi alla cecità.
Nel 1917 Willam venne ordinato sacerdote a Bressanone, e nel 1921 divenne dottore in teologia. Dopo alcune esperienze pastorali, gli venne attribuito il ruolo di cappellano ad Andelsbuch, dove fu attivo come pastore e come studioso sino alla morte, il 18 gennaio 1981.
Ricercato e stimato da molti, lo scrittore, scienziato e antropologo volle sempre essere chiamato “cappellano”, poiché questo nome esprimeva ciò che egli era e volle sempre essere: un sacerdote e pastore.
La vita di Willam fu modesta e tra la gente, nonché profondamente radicata nella tradizione cattolica. Nonostante vivesse nel solitario bosco di Bregenz, egli rimase in continuo contatto col mondo scientifico della teologia, in particolare con molti studiosi newmaniani. Era capace allo stesso modo di discutere di agricoltura montana con le persone che incontrava nelle sue molte passeggiate, così come, nel suo studio pieno di montagne di libri, di leggere senza problemi autori inglesi, francesi, spagnoli, italiani, latini e greci senza l’ausilio di un dizionario. Gli erano familiari moderni scienziati della natura come Heisenberg al pari dei filosofi greci Platone e Aristotele.
Tra le altre cose, Willam riuscì a dimostrare che la gnoseologia di Newman aveva derivazione aristotelica molto più che platonica. Questa teoria – all’inizio fortemente osteggiata nella cerchia degli esperti – venne più tardi universalmente accettata, e il semplice cappellano divenne così uno specialista newmaniano di riconosciuto successo.
L’opera di Willam comprende 33 libri e 372 scritti – poesie, racconti, saggi, recensioni – pubblicati in 79 differenti riviste.
Il volume del 1932 “Das Leben Jesu im Lande und Volke Israels [La vita di Gesù nel territorio e nel popolo d’Israele]”, pubblicato in dieci edizioni e tradotto in dodici lingue, è il suo capolavoro, un vero e proprio bestseller del suo tempo, che rese Willam celebre internazionalmente.
Per la scrittura di questo libro Willam studiò a fondo la storia giudaica e osservò da antropologo per molti mesi gli usi e i costumi in Palestina.
La sua “Vita di Gesù”, scritta prima dell’affermarsi dell’esegesi storico-critica della Bibbia, non si occupa della questione della storicità dei Vangeli e delle varie fonti linguistiche e idiomatiche della Sacra Scrittura. Il suo scopo consiste puramente e semplicemente nel presentare al lettore la vita e dunque la persona di Gesù partendo dai Vangeli, il cui contenuto egli riempiva di vivacità attraverso le conoscenze derivanti dai suoi studi antropologici.
Quando Willam parla di Gesù, allo stesso tempo egli ci sta dando una lezione “di sguardo” nel vero senso della parola: ci fa vedere, sentire e percepire come il Signore ha vissuto e operato.
Willam non è un mero teorico che elabora il suo pensiero indipendentemente dagli accadimenti concreti e dunque allontanandosi progressivamente dalla realtà. Non scrive solo per una cerchia di specialisti. La sua urgenza è la formazione religiosa del popolo. Questa urgenza deriva dal suo particolare amore e dalla sua particolare vicinanza all’uomo semplice; gli riuscì di unire uno spirito lucido a un linguaggio lineare e comprensibile.
Un biografo di papa Benedetto XVI ha scritto: “La semplicità gli appartiene. Un distacco altezzoso non è mai stata la sua caratteristica, per quanto fossero complesse le problematiche teologiche affrontate”.
Il frutto della semplicità è lo sguardo chiaro sull’essenziale. E proprio questo Willam condivideva con Ratzinger, il quale citandolo nella prefazione a “Gesù di Nazaret” lo preserva giustamente dall’oblio.
Franz Michel Willam, il teologo che il papa ha tirato fuori dall’oblio
Autore nel 1932 di una celebre vita di Cristo, era stato da tutti dimenticato. Benedetto XVI lo cita in « Gesù di Nazaret » e uno studioso austriaco spiega perché. Sulla base di un carteggio inedito tra i due
di Sandro Magister
ROMA, 3 luglio 2007 – Nella prime righe della prefazione a « Gesù di Nazaret », Benedetto XVI ricorda che al tempo della sua giovinezza, negli anni Trenta e Quaranta, « vennero pubblicati una serie di libri entusiasmanti su Gesù« .
E fa i nomi di alcuni autori: Romano Guardini, Karl Adam, Daniel Rops, Giovanni Papini, Franz Michel Willam.
I primi quattro, e ancor più i primi due, sono tuttora abbastanza noti e letti. Ma l’ultimo no. Franz Michel Willam (1894-1981) è oggi un nome ai più sconosciuto. Caduto nell’oblio.
E allora perché Joseph Ratzinger lo cita?
Nel « lungo cammino interiore » che ha portato Ratzinger a scrivere « Gesù di Nazaret » Willam non sembrerebbe essere un autore di riferimento. Lo sono molto di più Guardini, Henri De Lubac, Rudolf Schnackenburg e il rabbino ebreo Jacob Neusner.
Del filosofo e teologo italo-tedesco Guardini si ritrova nell’attuale papa l’idea della centralità della Chiesa per avvicinarsi realmente a Gesù, in ogni tempo e in ogni luogo, attraverso l’eucaristia e gli altri sacramenti.
Dal teologo francese De Lubac Ratzinger ha attinto la profonda conoscenza del pensiero dei Padri e l’intuizione dell’unione tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
Col grande esegeta tedesco Schnackenburg il papa ha in comune la convinzione che il metodo storico-critico da solo non basta per comprendere la piena identità di Gesù.
Tra il rabbino Neusner e Ratzinger il dialogo è addirittura proseguito nelle pagine di « Gesù di Nazaret » e anche dopo, come ha riferito www.chiesa in un servizio dello scorso 11 giugno.
Willam, invece, nel libro è citato una sola volta, all’inizio. E poi sembra che di lui non vi sia più traccia. Ma è davvero così?
Sull’ultimo numero di « Vita e Pensiero », la rivista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è uscito un articolo che scioglie l’enigma.
Ne è autore il giovane teologo Philipp Reisinger, austriaco come Willam.
Egli cita un carteggio degli anni Sessanta tra Ratzinger e Willam e mette in luce come i due avessero in comune la convinzione che il segreto della grande teologia cristiana – quella che sa parlare non solo ai dotti – è « la semplicità« , è « lo sguardo chiaro sull’essenziale ».
Semplicità ed essenzialità che Ratzinger ha voluto imprimere in ogni pagina del suo « Gesù di Nazaret ».
Ecco l’articolo apparso su « VIta e Pensiero » n. 3, 2007:
Ratzinger e il « cappellano » teologo. Un carteggio inedito
di Philipp Reisinger
L’austriaco Franz Michel Willam è oggi certamente la personalità meno conosciuta tra gli autori citati da Benedetto XVI nella prefazione del suo libro “Gesù di Nazaret”.
Chi era? E perché il papa lo ricorda? Solo a pochi è noto il carteggio, conservato nel convento di Thalbach a Bregenz, in Austria, tra l’allora professore universitario Joseph Ratzinger e Franz Michel Willam, di lui più vecchio di 33 anni.
I due furono in stretto contatto in particolare negli anni 1967 e 1968. Uno dei motivi era il libro di Willam “Vom jungen Roncalli zum Papst Johannes XXIII. [Dal giovane Roncalli a papa Giovanni XXIII]”, edito nel 1967, e l’articolo di Ratzinger “Was heißt Erneuerung der Kirche? [Cosa significa il rinnovamento nella Chiesa?]” apparso un anno prima sulla rivista “Diakonia”.
In quest’ultimo testo si trova scritto: “La vera riforma è quella che si occupa di ciò che è autenticamente cristiano, che si lascia provocare e formare da esso”. La vera riforma, il vero rinnovamento richiede semplicità. “Rinnovamento è semplificazione”: così Ratzinger sintetizzava efficacemente la sua tesi.
Willam, che aveva scoperto e fatto emergere la semplicità come idea dominante in papa Giovanni XXIII, riportava così – in una lettera al vescovo Paulus Rusch – quello che per lui era il passaggio centrale dell’articolo di Ratzinger:
“La teoria della semplicità trova in Joseph Ratzinger la seguente versione: esiste la semplicità della comodità, che è la semplicità dell’imprecisione, una mancanza di ricchezza, di vita e di pienezza. Ed esiste la semplicità dell’origine, che è la vera ricchezza. Rinnovamento è semplicità, non nel senso di una selezione o riduzione, bensì una semplificazione nel senso di un diventar-semplice, del muoversi verso quella vera semplicità che è il mistero dell’esistente”.
Il 22 maggio 1967 Willam scrive a Ratzinger:
“Ho svolto una ricerca sulle concordanze nei cinque volumi contenenti i discorsi e i documenti del pontificato. Le parole ‘semplice’ e ‘semplicità’ sono le parole-chiave più ricorrenti in assoluto. Giovanni XXIII le intende certamente nello stesso modo in cui le intende lei: studiare la cosa in maniera precisa e porsi la domanda: come lo devo esprimere, in modo che la gente capisca il risultato?”.
“In questi giorni ho ricevuto il suo libro su papa Giovanni XXIII. L’ho già letto qua e là e lo trovo davvero emozionante”, è la risposta del professor Ratzinger dopo aver ricevuto il volume.
Ratzinger, in quanto nuovo decano della Facoltà teologica di Tubinga, scrisse una lunga e particolarmente benevola recensione del libro di Willam su “Theologische Quartalschrift”, 6, 1968:
“Senza dubbio questo libro può essere definito come la pubblicazione sin qui di gran lunga più importante per illuminare la figura di Giovanni XXIII. Allo stesso tempo è di fondamentale importanza per la comprensione del Concilio Vaticano II. Il libro si staglia ampiamente al di sopra della moltitudine di ciò che è stato scritto in questi contesti, e ciò attraverso la completezza delle sue informazioni e l’evidenza dei collegamenti. [...] L’autore, quindi, merita un ringraziamento senza riserve per il suo paziente lavoro, e non ultimo anche perché ha saputo dire molte cose in spazi contenuti”.
Willam fu davvero felice di questa recensione, e la citò in quasi tutte le lettere che scrisse nelle settimane dopo la sua pubblicazione. A un amico scrisse: “Si ha l’impressione che nel suo argomentare Ratzinger abbia in mente diversi dialoghi avvenuti durante il Concilio Vaticano II, anche con non cattolici come Oscar Cullmann”.
Willam nutrì una grande ammirazione per il professor Ratzinger e gli chiese consiglio in molti frangenti, lasciandosi correggere e consigliare da lui con semplicità, malgrado la rilevante differenza d’età. Nella già citata lettera, del 22 maggio 1967, tra le altre cose egli chiedeva al professore aiuto per una pubblicazione riguardante John Henry Newman, e concludeva la missiva con un complimento commosso:
“Poiché non conosco alcun teologo che nel pensare sia vicino a Giovanni XXIII quanto lei – la comune parola-chiave ‘semplicità’ lo testimonia oggettivamente – rivolgo questa richiesta proprio a lei”.
La semplicità, così profondamente decisiva per Willam, si esprimeva anche nel fatto che egli non si sentì mai chiamato a formulare una propria particolare teologia. Piuttosto desiderò cogliere i segni dei tempi ed essere testimone dell’eterno nel contesto di tutti i cambiamenti che avvenivano nell’arco della sua vita.
Anche qui è visibile una comunanza con Ratzinger, il quale affermò una volta:
“Non ho mai cercato di fondare un particolare sistema, una teologia speciale. Intendo semplicemente pensare insieme alla fede della Chiesa, e ciò significa anzitutto pensare insieme ai grandi pensatori della fede. Non si tratta di una teologia isolata e proveniente da me stesso, bensì di una teologia che si apre nella maniera più allargata possibile al comune cammino di pensiero della fede”.
Franz Michel Willam nacque il 14 giugno 1894 a Schoppernau nel Vorarlberg, figlio di un calzolaio e barcaiolo, dunque in un contesto semplice. Col nonno materno, il poeta patriottico Franz Michel Felder, condivideva non solo il nome, ma anche l’amore per la propria patria e il proprio popolo, lo slancio per la scrittura e la ricerca, nonché una miopia tendente quasi alla cecità.
Nel 1917 Willam venne ordinato sacerdote a Bressanone, e nel 1921 divenne dottore in teologia. Dopo alcune esperienze pastorali, gli venne attribuito il ruolo di cappellano ad Andelsbuch, dove fu attivo come pastore e come studioso sino alla morte, il 18 gennaio 1981.
Ricercato e stimato da molti, lo scrittore, scienziato e antropologo volle sempre essere chiamato “cappellano”, poiché questo nome esprimeva ciò che egli era e volle sempre essere: un sacerdote e pastore.
La vita di Willam fu modesta e tra la gente, nonché profondamente radicata nella tradizione cattolica. Nonostante vivesse nel solitario bosco di Bregenz, egli rimase in continuo contatto col mondo scientifico della teologia, in particolare con molti studiosi newmaniani. Era capace allo stesso modo di discutere di agricoltura montana con le persone che incontrava nelle sue molte passeggiate, così come, nel suo studio pieno di montagne di libri, di leggere senza problemi autori inglesi, francesi, spagnoli, italiani, latini e greci senza l’ausilio di un dizionario. Gli erano familiari moderni scienziati della natura come Heisenberg al pari dei filosofi greci Platone e Aristotele.
Tra le altre cose, Willam riuscì a dimostrare che la gnoseologia di Newman aveva derivazione aristotelica molto più che platonica. Questa teoria – all’inizio fortemente osteggiata nella cerchia degli esperti – venne più tardi universalmente accettata, e il semplice cappellano divenne così uno specialista newmaniano di riconosciuto successo.
L’opera di Willam comprende 33 libri e 372 scritti – poesie, racconti, saggi, recensioni – pubblicati in 79 differenti riviste.
Il volume del 1932 “Das Leben Jesu im Lande und Volke Israels [La vita di Gesù nel territorio e nel popolo d’Israele]”, pubblicato in dieci edizioni e tradotto in dodici lingue, è il suo capolavoro, un vero e proprio bestseller del suo tempo, che rese Willam celebre internazionalmente.
Per la scrittura di questo libro Willam studiò a fondo la storia giudaica e osservò da antropologo per molti mesi gli usi e i costumi in Palestina.
La sua “Vita di Gesù”, scritta prima dell’affermarsi dell’esegesi storico-critica della Bibbia, non si occupa della questione della storicità dei Vangeli e delle varie fonti linguistiche e idiomatiche della Sacra Scrittura. Il suo scopo consiste puramente e semplicemente nel presentare al lettore la vita e dunque la persona di Gesù partendo dai Vangeli, il cui contenuto egli riempiva di vivacità attraverso le conoscenze derivanti dai suoi studi antropologici.
Quando Willam parla di Gesù, allo stesso tempo egli ci sta dando una lezione “di sguardo” nel vero senso della parola: ci fa vedere, sentire e percepire come il Signore ha vissuto e operato.
Willam non è un mero teorico che elabora il suo pensiero indipendentemente dagli accadimenti concreti e dunque allontanandosi progressivamente dalla realtà. Non scrive solo per una cerchia di specialisti. La sua urgenza è la formazione religiosa del popolo. Questa urgenza deriva dal suo particolare amore e dalla sua particolare vicinanza all’uomo semplice; gli riuscì di unire uno spirito lucido a un linguaggio lineare e comprensibile.
Un biografo di papa Benedetto XVI ha scritto: “La semplicità gli appartiene. Un distacco altezzoso non è mai stata la sua caratteristica, per quanto fossero complesse le problematiche teologiche affrontate”.
Il frutto della semplicità è lo sguardo chiaro sull’essenziale. E proprio questo Willam condivideva con Ratzinger, il quale citandolo nella prefazione a “Gesù di Nazaret” lo preserva giustamente dall’oblio.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-11317?l=italian
Padre Johann Georg Hagen, una vita tra astronomia e fede
Intervista con l’Assistente del Direttore della Specola Vaticana
ROMA, lunedì, 2 luglio 2007 (ZENIT.org).- Padre Sabino Maffeo, S.I., attuale Assistente del Direttore della Specola Vaticana a Castel Gandolfo, ha pubblicato un volume dal titolo “J.G. Hagen S.I. Astronomo e Direttore spirituale della Beata E. Hesselblad” (Edizioni AdP, pagg. 112, € 10,00).
Il libro, uscito lo scorso anno in occasione del centenario della nomina del padre Hagen come Direttore della Specola Vaticana, contiene la fitta e interessante corrispondenza epistolare fra questo sacerdote gesuita e
la Beata Elisabetta dell’Ordine del SS. Salvatore di S. Brigida.
Padre Sabino Maffeo, oltre agli studi filosofico-teologici svolti presso
la Pontificia Università Gregoriana, si è laureato in Fisica Pura e ha insegnato all’Istituto Massimiliano Massimo di Roma.
E’ stato, successivamente, Direttore Tecnico della “Radio Vaticana” e Vice Direttore Amministrativo della Specola Vaticana. Il suo volume “
La Specola Vaticana. Nove Papi, una Missione” (2001) è considerato un prezioso contributo negli studi di storia della scienza e dei rapporti tra astronomia e fede.
Recentemente è stato pubblicato il suo libro sul gesuita austriaco Johann Georg Hagen. Ci potrebbe brevemente presentare la sua figura umana e sacerdotale?
P. Sabino Maffeo: Il padre Johan Georg Hagen (1847-1930), gesuita austriaco, fu Direttore dell’Osservatorio astronomico del Georgetown College a Washington. Era già ben noto in campo astronomico soprattutto per i suoi importanti lavori sulle stelle variabili, quando nel 1906, fu chiamato da Pio X a dirigere
la Specola Vaticana. Portò avanti con alacrità e competenza il lavoro fotografico della Carta del Cielo e del Catalogo astrografico al quale
la Specola si era impegnata in campo internazionale.
Con l’installazione di un telescopio visuale il padre Hagen poté continuare il suo lavoro sulle stelle variabili. Realizzò due nuove prove sperimentali della rotazione diurna della terra e, negli ulti anni della sua vita, si dedicò all’osservazione di oggetti celesti alquanto discussi, da lui chiamati “nebulose oscure”.
L’attività pastorale del padre Hagen, benché poco visibile, ma tuttavia non meno importante di quella scientifica, consisté essenzialmente nella direzione spirituale di una donna di eccezione: la beata Elisabetta Hesselblad, fondatrice del ramo romano e svedese dell’Ordine del SS. Salvatore di S. Brigida.
La storia della Chiesa è ricca di personalità in cui, insieme all’impegno scientifico, non è mai taciuta una profonda esigenza spirituale. In che modo padre Hagen ha saputo armonizzare questi due aspetti indissolubili nella sua vita di scienziato di fama internazionale e religioso?
P. Sabino Maffeo: Oggi si parla molto del rapporto scienza-fede e non poche volte i gesuiti della Specola Vaticana vengono interpellati da visitatori e giornalisti sul significato del loro lavoro di religiosi astronomi. La risposta più facile e immediata è quella di dire che il fatto stesso che ci siano uomini di Chiesa che sono anche uomini di scienza, dimostra con i fatti, più che con le parole, la piena compatibilità tra scienza e fede. Naturalmente ognuno dei membri della comunità religiosa della Specola realizza a suo modo la sintesi dei due aspetti della sua vita: quello religioso pastorale e quello scientifico.
Il caso del padre Hagen è del tutto particolare ed esemplare data la specificità, sopra accennata, della sua attività pastorale. Per questo, l’anno scorso, in occasione del centenario della nomina del padre Hagen a Direttore della Specola Vaticana, ho pensato di ricordarlo mettendo in evidenza questo aspetto poco noto della sua vita, pubblicando in un volumetto di 100 pagine, le circa 60 lettere che lui scrisse alla sua figlia spirituale. A parte l’effetto sorpresa in tutti quelli che, pur conoscendo il padre Hagen astronomo, non avevano mai saputo nulla di questo altro aspetto della sua vita, il libro è stato accolto con favore negli ambienti cattolici dove è di grande attualità la discussione e lo studio sul rapporto scienza-fede.
Il pregio del suo libro è quello di aver reso pubblico un aspetto non molto noto di padre Hagen. Una copiosa corrispondenza ci mostra il suo impegno pastorale come direttore spirituale della Beata Elisabatta Hesselblad, fondatrice delle Brigidine. Grazie a questo paziente lavoro, il rapporto tra scienza e fede appare vissuto in modo concreto e armonioso. Qual è, a suo avviso, la ricchezza di questa corrispondenza e del suo impegno pastorale?
P. Sabino Maffeo: L’attività pastorale del padre Hagen è particolarmente interessante sia per l’eccezionale vocazione della sua figlia spirituale, sia per l’intenso coinvolgimento con cui egli accompagnò
la Beata Elisabetta per tutte le tappe del suo cammino spirituale: conversione dal luteranesimo alla Chiesa cattolica, discernimento sulla sua vocazione alla vita consacrata, chiamata speciale a riportare le figlie di Santa Brigida nella casa romana di Piazza Farnese e ad operare in modo particolare per il ritorno alla Chiesa cattolica della Svezia, sua patria, e per la promozione dell’ecumenismo in generale.
Dai motivi e dalle raccomandazioni che più frequentemente si ripetono in queste lettere ci si può fare un’idea abbastanza chiara della spiritualità del padre Hagen e del suo modo personale di vivere, in perfetta serenità, il rapporto scienza-fede. Troviamo, in particolare, una forte insistenza sull’umiltà, sull’accettazione delle sofferenze e delle difficoltà, sulla fiducia nella Provvidenza divina, sull’importanza di fare il proprio dovere e di farlo solo per Dio. È importante notare che, per il padre Hagen, questo lavoro pastorale non era meno importante di quello astronomico: egli infatti, pur mettendo al primo posto il lavoro astronomico assegnatogli dall’obbedienza, affermava tuttavia che sarebbe stato il lavoro svolto per Elisabetta a costituire “una gemma nella mia corona eterna”.
Il pensiero contemporaneo di matrice scientista sembra condannare fermamente ogni possibile compatibilità tra scienza e fede. Quest’ultima, infatti, è considerata una esperienza personale o addirittura meramente psicologica e spogliata del suo intimo significato. Quali prospettive si aprono nello studio sul rapporto tra scienza e fede alla luce delle recenti iniziative in tal senso?
P. Sabino Maffeo: Capita ogni tanto anche a me di sentirmi dire: come fa lei, che è sacerdote e scienziato allo stesso tempo, a mettere insieme fede e scienza? E quando chiedo che mi si faccia un esempio di incompatibilità mi sento riproporre il caso Galileo, l’evoluzionismo, la teoria del Big Bang e il racconto della creazione del libro della Genesi. Trovo cioè che, il più delle volte, il problema nasce dal fatto che pochi conoscono i progressi che, da più di qualche secolo, sono stati fatti nella Chiesa circa il modo di interpretare
la Bibbia. Per queste persone è ancora efficace la risposta di Galileo: sia la natura che la rivelazione hanno per autore lo stesso Dio: non è quindi possibile che la verità conosciuta esplorando la natura sia contraddetta da quella rivelata.
Diverso è il problema quando si ha a che fare non con l’ignoranza ma con l’ideologia, come nel caso degli atei e degli scientisti, per i quali la scienza è l’unica fonte di verità e la fede, essendo una sovrastruttura senza alcun fondamento oggettivo, non può che essere di ostacolo alla scienza.
[Di Giovanni Patriarca]