Archive pour le 4 juin, 2007

Le Madonnelle di Roma

Le Madonnelle di Roma dans immagini sacre rm_787

Madonnelle di Roma

Nome:  Madonna col Bambino, Rione Parione, Secolo Anno 1756, Autore Antonio Bicchierai, Tecnica Affresco, Cornice Tommaso Righi – stucco 320×126 cm Altezza da terra metri 2,8 Ubicazione Piazza dell’Orologio, angolo via del Governo Vecchio – Convento dei Filippini

Publié dans:immagini sacre |on 4 juin, 2007 |Pas de commentaires »

Papa: Ragheed, “prezioso sacrificio”, perché l’Iraq assista all’alba della riconciliazione

 dal sito:

http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=9452&size=A

 » 04/06/2007 15:14
IRAQ – VATICANO


Papa: Ragheed, “prezioso sacrificio”, perché l’Iraq assista all’alba della riconciliazione


Benedetto XVI esprime il suo dolore e le sue “più sentite” condoglianze per la morte del sacerdote caldeo e dei tre suddiaconi. AsiaNews ricorda la figura di un amico, morto credendo fino in all’ultimo nelle possibilità di pace per il suo Paese. P. Ragheed è un martire dell’Iraq libero, testimone di una fede incrollabile, che bombe e minacce non sono riuscite a far vacillare.

Città del Vaticano (AsiaNews) - “Profondamente addolorato” per “l’insensata uccisione di p. Ragheed e dei suoi tre suddiaconi” avvenuta ieri a Mosul, il Papa esprime in un telegramma le sue “condoglianze più sentite” al vescovo, mons. Rahho e a tutti i familiari dei defunti. Nel messaggio, pubblicato oggi, Benedetto XVI “si unisce alla comunità cristiana di Mosul nell’affidare le loro anime all’infinita Misericordia di Dio Padre e nel ringraziamento per la loro altruistica testimonianza del Vangelo ». Il Pontefice assicura poi le sue preghiere “perché il loro prezioso sacrificio ispiri nei cuori e nelle menti di tutti gli uomini e le donne di buona volontà una rinnovata risolutezza a respingere le vie dell’odio e della violenza…per collaborare nell’accelerare l’alba di riconciliazione, giustizia e pace in Iraq”.  

AsiaNews si unisce alle condoglianze espresse dal Papa e di seguito riporta un suo ricordo di p. Ragheed.  

“Senza domenica, senza l’Eucaristia i cristiani in Iraq non possono vivere”: p. Ragheed raccontava così la speranza della sua comunità abituata ogni giorno a vedere in faccia la morte, quella stessa morte che ieri pomeriggio ha affrontato lui, di ritorno dalla messa. Dopo aver nutrito i suoi fedeli con il Corpo e il Sangue di Cristo, ha donato anche il proprio sangue, la sua vita per l’unità dell’Iraq e per il futuro della sua Chiesa. Con piena consapevolezza questo giovane sacerdote aveva scelto di rimanere a fianco dei suoi fedeli, nella sua parrocchia dedicata allo Spirito Santo, a Mosul, giudicata la città più pericolosa dell’Iraq, dopo Baghdad. Il motivo è semplice: senza di lui, senza il pastore, il gregge si sarebbe smarrito. Nella barbarie dei kamikaze e delle bombe almeno una cosa era certa e dava la forza di resistere: “Cristo – diceva Ragheed – con il suo amore senza fine sfida il male, ci tiene uniti, e attraverso l’Eucaristia ci ridona la vita che i terroristi ora cercano di toglierci”. 

È morto ieri, massacrato da una violenza cieca. Ucciso di ritorno dalla chiesa, dove la gente, anche se sempre meno, sempre più disperata e impaurita, continuava però a venire come poteva: “I giovani – ci raccontava Ragheed alcuni giorni fa – organizzano la sorveglianza dopo i diversi attentati già subiti dalla parrocchia, i rapimenti e le minacce ininterrotte ai religiosi; i sacerdoti dicono messa tra le rovine causate dalle bombe; le mamme, preoccupate, vedono i figli sfidare i pericoli e andare al catechismo con entusiasmo; i vecchi vengono ad affidare a Dio le famiglie in fuga dal Paese, il Paese che loro invece non vogliono lasciare, saldamente radicati nelle case costruite con il sudore di anni. Impensabile abbandonarle”.Ragheed era come loro, come un padre forte che vuole proteggere i suoi figli: “Quello di non disperare è un nostro dovere: Dio ascolterà le nostre suppliche per la pace in Iraq”. 

Nel 2003 dopo gli studi a Roma decide di tornare al suo Paese, “perché lì è il mio posto”. Torna anche per partecipare alla ricostruzione della sua patria, alla ricostruzione di una “società libera”. Parlava dell’Iraq pieno di speranze, con il suo sorriso accattivante: “È caduto Saddam, abbiamo eletto un governo, abbiamo votato una Costituzione!”. Organizzava corsi di teologia per i laici a Mosul; lavorava con i giovani; consolava le famiglie disagiate; in questo ultimo mese stava tentando di far operare a Roma un bambino con gravi problemi alla vista. 

La sua è la testimonianza di una fede vissuta con entusiasmo. Obiettivo di ripetute minacce e attentati fin dal 2004, ha visto soffrire parenti e scomparire amici, eppure ha continuato fino all’ultimo a ricordare che anche quel dolore, quella carneficina, quell’anarchia della violenza, aveva un senso: andava offerta. Dopo un attacco alla sua parrocchia, la scorsa Domenica delle Palme, 1° aprile, diceva: “Ci siamo sentiti simili a Gesù quando entra a Gerusalemme, sapendo che la conseguenza del Suo amore per gli uomini sarà
la Croce. Così noi mentre i proiettili trafiggevano i vetri della chiesa, abbiamo offerto la nostra sofferenza come segno d’amore a Gesù”. “Attendiamo ogni giorno l’attacco decisivo – raccontava poche settimane fa – ma non smetteremo di celebrare messa; lo faremo sotto terra, dove siamo più al sicuro. In questa decisione sono incoraggiato dalla forza dei miei parrocchiani. Si tratta di guerra, guerra vera, ma speriamo di portare questa Croce fino alla fine con l’aiuto della Grazia divina”. E tra le difficoltà quotidiane lui stesso si stupiva di riuscire così a comprendere in modo più profondo “il grande valore della domenica, giorno dell’incontro con Gesù Risorto, giorno dell’unità e dell’amore fra di noi, del sostegno e dell’aiuto”.  

Poi le autobombe si sono moltiplicate; i rapimenti di sacerdoti a Baghdad e Mosul si sono fatti sempre più frequenti; i sunniti hanno iniziato a chiedere una tassa ai cristiani che vogliono rimanere nelle loro case, pena la loro confisca da parte dei miliziani. Continua a mancare elettricità, acqua, la comunicazione telefonica è difficile. Ragheed comincia ad essere stanco, il suo entusiasmo si indebolisce. Fino a che, nella sua ultima mail ad AsiaNews, il 28 maggio scorso, ammette: “Stiamo per crollare”. E racconta dell’ultima bomba caduta nella chiesa del Santo Spirito, proprio dopo le celebrazioni del giorno di Pentecoste, il 27 maggio; della “guerra” scoppiata una settimana prima, con 7 autobombe e 10 ordigni in poche ore, del coprifuoco che per tre giorni, “ci ha tenuti imprigionati nelle nostre case”, senza poter celebrare la festa dell’Ascensione (20 maggio). 

Si chiedeva quale sentiero avesse imboccato il suo Paese: “In un Iraq settario e confessionale, che posto sarà assegnato ai cristiani? Non abbiamo sostegno, nessun gruppo che si batta per la nostra causa, siamo soli in questo disastro. L’Iraq è già diviso e non sarà mai più lo stesso. Qual è il futuro della nostra Chiesa?  Oggi sembra molto vago da tracciare”. 

E poi a confermare la forza della sua fede, provata ma salda, rassicura: “Posso sbagliarmi, ma una cosa, una sola cosa, ho la certezza che sia vera, sempre: che lo Spirito Santo continuerà ad illuminare alcune persone perché lavorino per il bene dell’umanità, in questo mondo così pieno di male”. 

Caro Ragheed, con il cuore che grida di dolore, tu ci lasci questa tua speranza e certezza. Colpendo te hanno voluto annientare la speranza di tutti i cristiani in Iraq. Invece, con il tuo martirio, tu nutri e doni nuova vita alla tua comunità, alla Chiesa irachena e a quella universale. Grazie Ragheed. (MA) 

  

Per una rinnovata lettura del Corano: la lezione di un grande islamologo

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/dettaglio.jsp?id=145581

Per una rinnovata lettura del Corano: la lezione di un grande islamologo


Michel Cuypers applica al libro sacro dell’islam i metodi già applicati alla Bibbia. I risultati sono stupefacenti. Ad esempio, i versetti più bellicosi del Corano non « abrogano » affatto quelli più tolleranti e pacifici, come invece pretendono i fautori della guerra santa

di Sandro Magister

ROMA, 4 giugno 2007 – I 38 autorevoli musulmani che lo scorso ottobre firmarono la « Lettera aperta a Sua Santità papa Benedetto XVI » a commento della sua lezione del 12 settembre a Ratisbona, sono saliti a 100.

I loro nomi e le loro qualifiche sono riportate in calce alla « Lettera », in un grande rilancio che ne ha fatto « Islamica Magazine », il trimestrale edito negli Stati Uniti e stampato in Giordania che ne ha curato per primo la pubblicazione.

I 100 appartengono a decine di nazioni e alle diverse correnti del pensiero islamico, sunniti e sciiti: evento rarissimo. Tra essi c’è Aref Ali Nayed, del quale www.chiesa ha già pubblicato in anteprima due saggi a commento della lezione di Ratisbona, e che di nuovo interviene nel dossier dedicato da « Islamica Magazine » alle tesi su fede, ragione e violenza esposte da Benedetto XVI a Ratisbona.

Lo scorso 11 maggio Nayed ha tenuto una « lectio » a Roma, al Pontificio Istituto di Studi Arabi e di Islamistica, sul tema della « compassione » come primo attributo di Dio nella teologia islamica. In passato, Nayed – che ha un incarico all’università di Cambridge ed è musulmano osservante « di scuola Asharita in teologia, Malikita in giurisprudenza e Shadhilita-Rifai nell’orientamento spirituale” – è stato anche docente del PISAI, per due anni.

Ad ascoltare la sua lezione, tra il pubblico, c’erano rappresentanti delle ambasciate degli Stati Uniti, della Russia e di altri paesi. E c’era il direttore di « Islamica Magazine », Sohail Nakhooda, giordano.

L’indomani, 12 maggio, accompagnato da padre Miguel Angel Ayuso Guixot, preside del PISAI, Nayed ha avuto colloqui in segreteria di stato vaticana.

Uno dei punti critici che rendono difficile la comprensione tra cristiani e musulmani è l’interpretazione del Corano. La « Lettera dei 100″ non affronta direttamente la questione, pur avendola sullo sfondo.

A nuove interpretazioni del Corano si dedicano invece da tempo alcuni validi studiosi sia musulmani che cristiani.

In campo musulmano la ricerca avviene sotto traccia e sinora con incidenza minima sulle letture dominanti.

In campo cristiano gli studi sono più alla luce del sole. Ma esigerebbero molta più attenzione di quella che ottengono.

Un’importante intervista su questo tema è apparsa sul n. 4 del 2007 della rivista « Il Regno », edita a Bologna dai religiosi dehoniani.

L’intervistato è Michel Cuypers, 56 anni, belga, piccolo fratello di Gesù, la comunità religiosa fondata nel secolo XX da Charles de Foucauld.

Cuypers ha trascorso dodici anni in Iran, dapprima in un lebbrosario a Tabriz, poi studiando la lingua e la letteratura persiana a Teheran. Ha conseguito il dottorato in letteratura persiana all’Università di Teheran nel 1983. Poi ha studiato l’arabo in Siria e in Egitto e nel 1989 si è trasferito al Cairo, dove risiede.

È ricercatore presso l’Istituto Domenicano per gli Studi Orientali, fondato al Cairo mezzo secolo fa dai domenicani islamologi Georges Anawati, Jacques Jomier e Serge Beaurecueil.

Dal 1994 Cuypers ha interamente concentrato i suoi studi sulla composizione del testo del Corano, adottando il metodo dell’analisi retorica. I suoi articoli e saggi vengono sempre più apprezzati anche da studiosi musulmani. È uscito da pochi giorni, in Francia, un suo libro dedicato all’analisi di un capitolo del Corano: « Il banchetto. Una lettura della sura al-Ma’ida », con prefazione dell’eminente studioso musulmano Mohamed-Ali Amir-Moezzi.

L’intervista pubblicata da « Il Regno », originalmente in francese, ha per autore Francesco Strazzari. Eccola:

La Bibbia, il Corano e Gesù: come arrivare al cuore del credo musulmano

Intervista con Michel Cuypers

D. – Fratel Michel Cuypers, ci parli della sua ricerca e del suo nuovo libro: « Il banchetto. Una lettura della sura al-Ma’ida ».

R. – Da una dozzina d’anni porto avanti una ricerca sulla composizione del testo del Corano con il metodo chiamato “analisi retorica”, già sperimentato negli studi biblici. Questa ricerca beneficia di due secoli e mezzo di studi sulla Bibbia e da una ventina d’anni è stata sistematizzata in modo eccellente da Roland Meynet, gesuita, professore di teologia biblica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.

Si tratta della riscoperta delle tecniche di scrittura e di composizione che gli scribi del mondo semitico antico utilizzavano per redigere i loro testi. La parola “retorica” si deve quindi in questo caso prendere nel senso preciso di “arte della composizione del testo” (che corrisponde a una parte soltanto di ciò che Aristotele intendeva con « dispositio », la retorica).

La retorica biblica e, più ampiamente, semitica differisce completamente da quella greca, che ha segnato tutta la nostra cultura occidentale e anche la cultura araba, dopo che essa si è aperta all’eredità di quella greca.

Essa è fondata su un principio semplice, la simmetria, che può prendere la forma di parallelismi sinonimici, antitetici o complementari (ossia i tre tipi di parallelismi che l’esegesi biblica, con Robert Lowth e le sue « Lezioni sulla poesia sacra degli ebrei », apparse nel 1753, ha messo in evidenza nei Salmi), o ancora la forma del chiasmo o “parallelismo inverso” (AB/B’A’), e infine il “concentrismo”, quando appare un elemento centrale fra due versanti simmetrici del testo (AB/x/B’A’).

Tali corrispondenze si presentano a diversi livelli testuali: membri, gruppi di membri ecc., fino a sette, otto livelli per testi importanti. L’individuazione di queste simmetrie permette di dividere il testo in unità semantiche e di evidenziarne la struttura, che ne orienta a sua volta l’interpretazione. Infatti lo scopo finale di questa tecnica d’analisi, come per tutte le esegesi, è comprendere il senso del testo. La mia ricerca è dunque assolutamente interdisciplinare, poiché applico al Corano un sistema d’analisi che proviene dagli studi biblici.

All’inizio non era che un’ipotesi di ricerca: si voleva verificare se effettivamente l’analisi retorica biblica fosse applicabile al Corano. Ho cominciato analizzando alcune delle sure brevi e presto è risultato evidente che questo sistema si adattava perfettamente all’analisi del testo coranico: a livello di teoria non cambiava nulla, tutti i principi si verificavano esattamente nel testo del Corano.

Dopo lo studio di una trentina di sure brevi, che sono attribuite all’inizio della profezia maomettana, ho voluto iniziare l’analisi di una sura lunga. Ho scelto la sura 5 (chiamata normalmente “La tavola imbandita”, in arabo al-Ma’ida), perché essa secondo la tradizione sarebbe l’ultima in ordine di tempo: in questo modo il metodo si sarebbe applicato sia per i testi dell’inizio cronologico del Corano sia per quelli della fine. Questo avrebbe permesso di trarre deduzioni ponderate e affermare che verosimilmente la totalità del Corano è costruita secondo questi stessi principi di composizione.

D. – Perché usare la retorica come analisi della struttura del Corano? In precedenza lei aveva praticato una lettura « atomistica », frammentaria, per piccole unità semantiche.

R. – Quella di restare sconcertato e presto scoraggiato dall’apparente disordine del testo coranico è un’esperienza assolutamente comune a qualsiasi lettore, specie a un lettore non musulmano che non sia cresciuto con questo testo sin dall’infanzia. Il Corano non si dipana in maniera lineare, come sviluppo progressivo di uno o più temi, come ci ha insegnato la retorica greca. I soggetti nel Corano si mescolano: un tema appena accennato è presto interrotto, per riapparire casomai in seguito; e alcuni incisi introducono talvolta un argomento completamente estraneo al contesto. Il lettore ha presto l’impressione di un’incoerenza totale e viene trascinato suo malgrado in una lettura atomistica, discontinua, di frammenti indipendenti gli uni dagli altri.

È bene notare che non siamo solo noi, occidentali moderni, ad avere quest’impressione. Già nel Corano alcuni neofiti convertiti all’islam fanno notare la cosa al Profeta (Corano 25, 32), e nelle prime generazioni musulmane certuni criticarono questo aspetto del Corano, che porterà poi alla produzione di tutta una serie di opere nel tentativo di giustificare la coerenza (nazm) del Libro, ma i cui argomenti non sono convincenti e trattano soltanto alcuni dettagli, di modo che il problema comunque resta.

Gli islamologi occidentali moderni per molto tempo hanno semplicemente preso atto, come fatto evidente, di questa incoerenza del testo. E poiché tutti praticavano il metodo storico-critico, trovavano nelle incoerenze del testo argomenti per individuare degli strati redazionali, delle inserzioni tardive o dei rifacimenti, a cui talvolta non esitavano dare un ordine più “logico”, spostando certi versetti.

La ricerca di un ordine nel testo appariva dunque come una vera sfida. Negli anni Ottanta del XX secolo qualche islamologo isolato ha cercato di comprendere la composizione delle brevi sure dell’epoca della Mecca (la prima della rivelazione coranica), con risultati molto parziali, dichiarando altresì che era ormai impossibile trovare un qualunque ordine nelle lunghe sure composte nell’epoca di Medina (che si collocano all’inizio del testo del Corano ma che cronologicamente sono considerate le ultime). Poiché le mie analisi sulle sure brevi avevano dato risultati assolutamente positivi, occorreva tentare sulle lunghe sure medinesi. Da qui è nato « Il banchetto ».

D. – In che cosa differisce la sua lettura dalle altre?

R. – Essenzialmente nel fatto che l’analisi retorica del testo permette una lettura contestuale. La frammentazione del testo è stata senza dubbio la ragione principale per la quale tutti gli studiosi classici commentano il Corano versetto per versetto, al di fuori di qualsiasi considerazione del contesto letterario in cui è inserito. È la ragione per la quale spiegano i versetti con elementi esterni al testo, ciò che tecnicamente chiamano le “occasioni della rivelazione”: ricorrendo ad aneddoti o fatti della vita del Profeta, attinti dalle tradizioni (hadîth) attribuite al Profeta o ai suoi compagni, esprimono la ragione storica per la quale questo o quel versetto è stato rivelato, attribuendogli così un determinato senso.

Ora, quando un versetto è ricollocato nel suo contesto e delimitato dalla struttura testuale di cui fa parte, il suo vero senso appare spesso senza che ci sia bisogno di ricorrere a queste “occasioni della rivelazione”, che molto spesso si può ipotizzare siano state costruite « post eventum » per spiegare le ombre del testo.

Faccio un esempio. Il versetto 106 della sura 2 riporta queste parole di Dio: « Non abroghiamo un versetto né te lo facciamo dimenticare senza dartene uno migliore o uguale ». Questo versetto è stato presentato dai giuristi, i fuqahâ’, come il fondamento coranico della loro teoria dell’abrogazione, secondo la quale certi versetti del Corano ne abrogano altri. Questa teoria ha permesso di risolvere apparenti contraddizioni fra versetti, soprattutto quelli normativi. Si considera dunque che i versetti più recenti abroghino i più antichi, e per determinare quali sono i più recenti si è deciso a priori che i versetti più duri e più restrittivi debbano essere i più recenti e che questi abroghino quelli precedenti, più miti o tolleranti.

Tornando al versetto citato, se lo si ricolloca nel suo contesto si vede che il senso è assolutamente diverso: è una risposta ad alcuni ebrei che protestavano contro Maometto perché aveva incluso, nella sua proclamazione del Corano, dei versetti della Torah, modificandoli. A questa accusa di “falsificazione” Dio risponde che egli è libero d’abrogare una rivelazione precedente sostituendola con una nuova, migliore. Si tratta dunque dell’abrogazione della Torah da parte del Corano e non del Corano al suo interno.

Malgrado parecchi studiosi musulmani, nel corso del XX secolo, e ancora recentemente l’islamologa francese Geneviève Gobillot, abbiano denunciato con forza questo errore d’interpretazione, esso continua ad avere largamente corso. È una questione di grande attualità, poiché gli estremisti islamici si servono di questo argomento per affermare che specialmente i versetti più duri della sura 9 (29 e 73), che incitano i musulmani a combattere gli infedeli, abrogano circa 130 versetti più tolleranti, che invece aprono la strada a una coesistenza pacifica fra i musulmani e le altre comunità.

Fedeli alla logica dell’abrogazione così come essi la comprendono, gli estremisti (come già fecero antichi commentatori) considerano la sura 9 come l’ultima rivelata, che abroga specialmente i versetti più “aperti” e tolleranti della sura 5, mentre invece ogni cosa in quest’ultima mostra che si tratta di un testo-testamento che conclude la rivelazione.

D. – Che cosa permette di affermarlo?

R. – La sola analisi retorica non permette di giungere a questa conclusione: ciò è possibile attraverso una contestualizzazione della sura, nel quadro di un approccio intertestuale. Essa contiene in effetti diverse citazioni assolutamente chiare della Bibbia o di testi para-biblici: la ribellione dei figli di Israele, che rifiutano di entrare nella Terra promessa (ripresa dal libro dei Numeri), l’assassinio di Abele da parte di Caino, la legge del taglione, una sentenza della Mishna (ripresa testualmente), scene apocrife dell’infanzia di Gesù, come pure un’evocazione assai misteriosa dell’ultima cena (da cui il titolo della sura).

Queste cose sono note da lungo tempo. Ma una lettura attenta del testo rivela diverse altre reminiscenze bibliche, meno evidenti ma non meno reali, che messe insieme non lasciano alcun dubbio sul retroterra deuteronomico della sura: la mescolanza di leggi e di racconti, il tema centrale dell’alleanza, l’ingresso in una terra santa, il lessico (la ripetizione dell’“oggi” di Dio, le ingiunzioni a obbedire ai precetti ecc.).

Il Deuteronomio si presenta come il testamento profetico di Mosè che chiude il Pentateuco,
la Torah: infatti egli muore alla fine del libro. Secondo la tradizione, la sura 5 sarebbe stata rivelata al momento del solenne pellegrinaggio di addio del Profeta, morto poco dopo. La somiglianza delle situazioni è impressionante, eccetto per il fatto che Mosè non entra nella terra promessa, mentre Maometto si trova con la sua comunità trionfante nella terra santa del santuario della Mecca.

Il racconto della rivolta dei figli d’Israele, se figura dapprima nel libro dei Numeri, è poi ripreso nel Deuteronomio. Questo racconto è la chiave di comprensione di tutta la sura 5: illustra il rifiuto della gente del Libro, ebrei e cristiani, di entrare nell’alleanza islamica, al contrario invece dei musulmani. Alla fine della sura l’evocazione della cena è ancora legata alla tematica dell’alleanza, in un contesto in cui si colgono tracce del discorso d’addio di Gesù nel Vangelo di Giovanni, altro discorso-testamento. Infine occorre rilevare che la sura si conclude con il giudizio di Gesù, che nega formalmente davanti al Signore di aver affermato di essere il Figlio di Dio e, al contrario, proclama solennemente il più puro monoteismo (5, 116-117).

Questa è l’ultima parola, cronologicamente parlando, della rivelazione coranica e corrisponde esattamente alla fine del testo del Libro, poiché la sura 112 proclama lo stesso monoteismo intransigente, negando qualsiasi filiazione in Dio (le sure 113 e 114, due preghiere che non figurano in certi codici primitivi, devono essere considerate come un inquadramento liturgico del Corano insieme alla sura 1: la sura 112 è dunque la conclusione reale del Libro).

D. – Considera importante che in questo momento si affronti il Corano con una metodologia scientifica quali l’ermeneutica e l’esegesi biblica?

R. – In effetti lo considero di fondamentale importanza. L’esegesi tradizionale islamica, dopo aver dato tutto ciò che poteva, da lungo tempo ha finito le sue risorse: per molti decenni non ha fatto che ripetere i commenti dei primi tre o quattro secoli dell’Egira. I grandi commentari classici restano testi di riferimento e occorre consultarli, specialmente per le questioni di grammatica o di filologia, ma non possono affatto dare risposta ai problemi dell’uomo moderno, che vive in tutt’altro mondo.

È proprio per questo che sono apparsi nel XX secolo importanti commenti ideologici, fra i quali i più conosciuti sono quelli dell’indo-pachistano Mawdûdî e dell’egiziano Sayyid Qutb, ideologo dei Fratelli Musulmani: sono interpretazioni del Corano in funzione delle istanze sociali e politiche attuali. Le correnti islamiche contemporanee vi fanno direttamente riferimento; il loro slogan è quello del ritorno al Corano, al di là di tutte le deviazioni e decadenze della storia della comunità musulmana. Ma è proprio questa la domanda: come “ritornare al Corano”?

La via più rapida e più facile è proiettare su di esso le proprie personali aspirazioni, manipolando il testo a proprio piacimento. Un crescente numero di intellettuali musulmani denuncia con forza questo modo di procedere e auspica uno studio scientifico del testo, come i cristiani hanno fatto per
la Bibbia. Il cammino è evidentemente molto lungo e laborioso e i risultati sono imprevedibili: da qui forse il timore che suscita. Da parte musulmana la ricerca in questo senso non è che ai primi passi, a parte qualche eccezione, mentre gli orientalisti occidentali già da un secolo e mezzo hanno fornito una quantità enorme di dati (che si possono trovare specialmente nell’ »Enciclopedia dell’islam » e nella recentissima « Encyclopaedia of the Qur’ân »). I grandi centri della teologia musulmana, come l’università al-Azhar del Cairo, sono finora molto diffidenti nei confronti di queste metodologie moderne.

D. – Come arrivare al cuore del Corano, senza lasciarsi prendere dalle diverse tradizioni interpretative che possono causare deviazioni?

R. – Il “metodo”, se così si può dire, non è differente da quello necessario per qualunque altra ricerca scientifica, ed è la capacità critica. Essa richiede un’ascesi dello spirito: saper prendere le distanze dall’oggetto di studio, essere pronti a rimettere in questione le idee ricevute e a scoprire l’inaspettato (non è vero che si trova solo ciò che si cerca!), non affermare nulla senza averlo dimostrato, piegarsi nello studio del testo alla disciplina delle scienze umane moderne (linguistica, storia, critica letteraria soprattutto).

Il pensatore francese d’origine algerina Muhammad Arkoun ha affermato con ragione e un po’ d’umorismo che il modo più efficace di lottare contro la violenza e il terrorismo degli estremisti islamici sarebbe quello d’imporre, nell’educazione dei giovani, la lettura dell’ »Enciclopedia del Corano », frutto di questo tipo d’approccio scientifico e critico al Libro. La grande difficoltà è che in Medio Oriente l’educazione si fonda essenzialmente sulla tradizione e la memorizzazione e non sulla riflessione e lo spirito critico. È un fenomeno culturale, che rende problematico il progresso scientifico in generale e l’evoluzione dell’esegesi in particolare.

D. – Questo approccio al testo coranico, a suo parere, può dare l’impressione di attaccare l’islam o, viceversa, di arrivare alla purezza della fede coranica?

R. – L’islam non si è costruito solo a partire dal Corano. Gli hadîth, attribuiti al profeta e che formano
la Sunna (o le tradizioni che risalgono agli imam per gli sciiti), e in seguito l’elaborazione del diritto musulmano (il fiqh) e della legge (shari’a) hanno giocato un ruolo altrettanto importante, se non maggiore. Il commento (tafsîr) del Corano fa parte della tradizione islamica. Per spiegare il testo, i commentari classici ricorrono principalmente alle “circostanze della rivelazione”, di cui ho parlato sopra, cioè a un principio esterno al testo.

L’analisi retorica, invece, prende in esame solamente il testo così com’è, nella sua versione canonica. Metodologicamente astrae dalla tradizione (almeno in un primo momento) e, poiché affronta il testo in modo completamente diverso, giunge spesso a interpretazioni che non concordano con essa. Tuttavia non attacca assolutamente il cuore della fede musulmana, al contrario la pone ancora più in luce, liberandola da aggiunte che l’hanno appesantita lungo la storia.

L’esempio che ho fatto sopra ne è una prova: il termine cronologico della rivelazione maomettana (fine della sura 5) e la conclusione del Libro (la sura 112) hanno un contenuto identico, sottolineando il fatto che il monoteismo islamico rifiuta rigorosamente l’idea della filiazione divina di Gesù: si è al cuore del credo musulmano. Si potrebbe fare ancora l’esempio dell’evocazione della cena nei versetti 112-115: i commentari tradizionali sono estremamente ingannevoli, poiché trattano il testo come un racconto meraviglioso, che descrive con compiacenza le ricche vivande del pasto che Dio fa scendere dal cielo.

Una lettura attenta del testo vi trova invece molte reminiscenze del discorso sul pane di vita, nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, cosa che dà immediatamente tutta un’altra dimensione al testo, quella dell’allusione alla nuova alleanza portata da Gesù e alla scelta che s’impone agli apostoli (e ai cristiani dopo di loro) di entrare in questa alleanza oppure di oltrepassarla, abbracciando quella portata da Maometto. La lettura contestuale e intertestuale permette di uscire dall’aneddotica per raggiungere dimensioni teologiche ignorate dai commentari antichi e tuttavia assolutamente conformi alla fede islamica.

D. – I teologi musulmani comprenderanno che l’analisi retorica del testo apre a un’interpretazione di esso che dovrebbe permettere un rinnovamento dell’esegesi coranica come ha fatto per l’esegesi biblica?

R. – Sono cose che richiedono tempo. Ricordiamoci delle difficoltà incontrate agli inizi dall’esegesi moderna nella Chiesa cattolica. Esistono poi varie scuole di pensiero: l’analisi retorica biblica ha dovuto imporsi non contro ma a fianco dell’approccio storico-critico della Bibbia, che è stata la sola scuola riconosciuta per lungo tempo.

Visto il peso enorme della tradizione nell’islam, si può prevedere che le cose avanzeranno più lentamente (“a velocità geologica”, come scherzava un grande conoscitore dell’islam). Sarà senza dubbio il compito gravoso e difficile degli intellettuali musulmani – che avranno perfettamente assimilato lo spirito scientifico moderno –, quello di tessere il legame fra le teologie tradizionali e i nuovi approcci al testo coranico. Questi intellettuali sono perfettamente consapevoli della posta in gioco, ed è la ragione per cui non ho esitato a sollecitare la prefazione al mio libro a un eminente ricercatore musulmano, il professor Mohamed-Ali Amir-Moezzi.

D. – L’analisi retorica colloca il Corano nel contesto della letteratura semitica antica. Ciò cosa comporta? Quali sono le conseguenze?

R. – Ciò presuppone innanzitutto che si consideri il Corano un testo letterario. Già negli anni trenta del secolo XX il grande pensatore e scrittore egiziano Taha Husein reclamava il diritto di leggere il Corano come opera letteraria, a fianco di Omero o Shakespeare. Il fatto di analizzare il Corano sotto il profilo della retorica semitica colloca in effetti questo testo nel quadro della letteratura della tarda antichità.

Si conoscono le resistenze dell’islam tradizionale a un simile approccio, perché il Corano è considerato parola divina discesa dal cielo, dove esso viene custodito su un tavolo celeste. Questa parola è di conseguenza considerata senza alcun legame d’origine con qualsiasi realtà terrena. Tale posizione teorica, nella pratica evidentemente non tiene: il Corano è stato scritto in “lingua araba chiara”, come afferma esso stesso, una lingua che ha fatto nascere, fin dalle origini dell’esegesi coranica, analisi grammaticali e lessicologiche in relazione alla lingua araba esistente, a un luogo e a un’epoca ben definiti.

Dunque non si vede perché il considerare la composizione del testo dal punto di vista della sua similitudine con la composizione degli altri testi semitici dell’antichità possa porre un vero problema teologico. La retorica, così come la definiamo, non è altro che una grammatica del testo, a un livello superiore di quella delle parole e della frase.

Al di là di questa possibile difficoltà, i musulmani dovrebbero rallegrarsi di scoprire che questo testo, tanto criticato da certuni per la sua incoerenza, è in realtà ben costruito, con molta finezza, talvolta addirittura fino a una sofisticata raffinatezza. A condizione, ovviamente, di accettare che vi possano essere in esso un’altra logica e un’altra retorica, diverse da quelle della tradizione greca. Certi musulmani potrebbero persino vedervi un po’ affrettatamente una prova del carattere miracoloso del Corano.

D. – Una domanda molto frequente: il Corano deve essere preso interamente alla lettera, o qualcosa può essere lasciato al passato?

R. – La domanda si pone anche per
la Bibbia e la risposta che si può dare è la stessa. Compito principale dell’esegesi è dire la lettera del testo, il più fedelmente possibile. Ma questa lettera è complessa e piena di contraddizioni apparentemente impossibili da conciliare. Da qui la necessità di un’interpretazione che tenga conto non solo del dettaglio del testo, ma anche dell’insieme del Libro.

E se si ritiene che questi testi fondamentali siano testi vivi, che abbiano ancora oggi qualcosa da dirci, non si può non tenere conto, nella loro lettura, dell’evoluzione morale e spirituale dell’umanità. Già il grande pensatore riformista egiziano, lo sceicco Muhammad Abduh (morto nel 1905), affermava che non si possono mettere tutti i versetti del Corano sullo stesso piano: molti sono circostanziali, valgono per una data situazione, quella della fondazione della comunità musulmana, ormai da tempo superata.

Accanto a questi versetti ve ne sono altri che riflettono una saggezza universale, valida per tutti i tempi, ed è su questi che occorre fondare la fede e la pratica religiose. Questo è ciò che fanno i 38 e poi 100 intellettuali musulmani che hanno firmato la « Lettera aperta a sua santità Benedetto XVI », fra i quali un gran numero di gran muftì di diversi paesi: in quel documento mettono in evidenza dei versetti che permettono una pacifica convivenza dei musulmani con le altre comunità umane.

Ciò può significare che essi considerano implicitamente i versetti bellicosi, che si trovano soprattutto nella sura 9 già citata, come caduchi nella loro applicazione. Ma occorrerebbe che questo fosse dichiarato ufficialmente e con chiarezza, considerato come definitivo e irrevocabile. Qui però ci si scontra con un’altra difficoltà, quella dell’assenza di un magistero nell’islam, che possa compiere autorevolmente un tale passo.

D. – Ancora una domanda: con l’islam il dialogo dev’essere culturale o religioso?

R. – Senza entrare qui nell’opportunità o meno dei rimpasti strutturali della curia pontificia, mi sembra evidente che il dialogo con i musulmani, così come con le altre religioni, non possa essere che entrambe le cose.

Se si crede alle dichiarazioni del Concilio Vaticano II, in particolare alla « Nostra aetate », è chiaro che l’islam rappresenta una delle maggiori religioni del nostro tempo, più vicina al cristianesimo, per le sue radici storiche, della maggior parte delle altre religioni. Essa ha certo uno statuto differente dall’ebraismo, albero sul quale si è innestato il cristianesimo, ma possiede tratti comuni essenziali con la nostra fede, così come sono segnalati dal testo conciliare.

La Lettera agli Ebrei non dice anche che “chi s’accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano” (Eb 11,6)? E di rimando il Corano dichiara due volte che “coloro che credono [i musulmani], i giudei, i sabei o i nazareni e chiunque crede in Allah e nell’ultimo giorno e compia il bene, non avranno da temere [dell’inferno] e non saranno afflitti” (5, 69; cf. anche 2, 62).

Ma è vero che l’islam non è soltanto una religione, ma è anche una cultura, vasta e molteplice proprio come il cristianesimo, e questo aspetto deve ugualmente fare parte del dialogo. Padre Georges Anawati, fondatore dell’Istituto domenicano per gli studi orientali del Cairo, amava ripetere: “Né cultura senza religione, né religione senza cultura”. 

Data pubblicazione: 2007-06-04

dal sito: 

http://www.zenit.org/italian/

Data pubblicazione: 2007-06-04  Cardinal Bertone:
la Chiesa vuole essere vicina agli indios e ai loro problemi 
Il Segretario di Stato compie un bilancio del viaggio del Papa in Brasile 

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 4 giugno 2007 (ZENIT.org).- In un’intervista al quotidiano “Avvenire”, il Cardinale Tarcisio Bertone ha compiuto un bilancio del viaggio di Papa Benedetto XVI in Brasile e ha spiegato alcune incomprensioni da parte dei mezzi di comunicazione.

Il 31 maggio si è chiusa ad Aparecida (Brasile)
la V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi. I Vescovi hanno diffuso un documento finale che verrà reso noto solo dopo che Benedetto XVI avrà approvato la sua pubblicazione.

Il Cardinale Segretario di Stato, il salesiano Tarcisio Bertone, afferma che il viaggio del Papa in Brasile è stato un successo, anche in termini di partecipazione di persone.

“Mi hanno riferito che anche quando Giovanni Paolo II si recò in Brasile nel 1991 non mancarono coloro che si misero a contare i fedeli, nell’occasione meno numerosi di quelli lo avevano accolto nel 1980, quando per la prima volta un Pontefice atterrò in quel meraviglioso Paese. Niente di nuovo sotto il sole, quindi”, ha sottolineato.

Il viaggio è iniziato con una conferenza stampa che ha suscitato alcune polemiche, soprattutto dopo la pubblicazione di una trascrizione che in alcuni punti non rifletteva alla lettera quanto effettivamente pronunciato dal Papa.

Cardinal Bertone: Non c’è niente di scandaloso in questo. Anche i testi delle udienze del mercoledì talvolta sono stati pubblicati dopo un’accurata revisione. Anche il Catechismo della Chiesa cattolica nella sua edizione definitiva, l’editio typica del 1997, in più punti si differenzia dalla prima edizione stampata nel 1992. Chi legge poi il recente documento della Commissione teologica internazionale sul limbo può verificare che l’editio typica di una enciclica – nella fattispecie
la Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II – presenta in un punto una formulazione diversa e più precisa rispetto alla versione che era stata in un primo tempo resa pubblica.

Nello specifico che cosa ci può dire riguardo alla scomunica per i legislatori che approvano norme abortiste?

Cardinal Bertone: Mi sembra chiaro che il Papa ha ricordato che spetta ai singoli vescovi stabilire se e quando irrogare la scomunica, che è una pena prevista dal Codice di diritto canonico, quindi in questo caso «ferendae sententiae» (scomunica non automatica, ndr).

E riguardo alla causa di beatificazione dell’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero? Perché nel testo trascritto non si fa più cenno al fatto che il Papa ha detto di non avere dubbi che monsignor Romero meriti la beatificazione?

Cardinal Bertone: È evidente che il Papa vuole essere molto rispettoso del lavoro della Congregazione delle cause dei santi, il cui prefetto, tra l’altro, era presente nel volo papale.

Dopo questa esperienza ritiene che ci saranno altre conferenze stampa del Papa?

Cardinal Bertone: Sarà il Papa a decidere. Ma è a tutti noto che il cardinale Ratzinger non ha mai avuto paura della stampa e ai cronisti che lo fermavano anche per strada ha sempre gentilmente offerto delle risposte.

Il Papa ha incontrato anche il presidente Lula. Come sono globalmente i rapporti tra Stato e Chiesa in Brasile?

Cardinal Bertone: I rapporti tra
la Chiesa e il grande Stato brasiliano sono sostanzialmente positivi. Si sta elaborando anche una sorta di accordo globale e fondamentale per poter orientare Chiesa e Stato, Chiesa e comunità politica, in quella che il Concilio definisce «una sana collaborazione» per il bene di ogni persona ed anche per la risoluzione dei problemi che possono essere ancora sul tappeto.

Lei ha dichiarato alla Radio Vaticana di sperare che gli accordi vengano siglati entro l’anno. Ma alcune affermazioni attribuite all’ambasciatore brasiliano presso
la Santa Sede sono state interpretate in modo meno ottimista…

Cardinal Bertone: Io ho parlato con il nunzio apostolico a Brasilia, l’arcivescovo Lorenzo Baldisseri, e sono ottimista. Speriamo che sia un ottimismo ben fondato.

Il Papa ha ricevuto in udienza anche l’anziano arcivescovo emerito di São Paulo, il cardinale Paulo Evaristo Arns. Il teologo Jon Sobrino nel criticare
la Notificazione della Congregazione per la dottrina della fede nei suoi riguardi ha scritto che le sue opere sono state giudicate positivamente anche dallo stesso cardinale Arns. Si è parlato anche di questo nel corso dell’udienza?

Cardinal Bertone: Si è trattato di una udienza doverosa, anche se breve. Non sono a conoscenza del fatto che si sia parlato del caso Sobrino.

I discorsi del Papa ai vescovi brasiliani e anche alcuni punti dell’omelia in occasione della canonizzazione di fra Galvão sono stati assai enfatizzati dalla stampa che li ha giudicati particolarmente duri.

Cardinal Bertone: Il Papa non vuole imporre fardelli inutili a nessuno, né ai vescovi, né ai fedeli. Non può però dimenticare le parole esigenti di Gesù che pure si trovano nel Vangelo. Che poi la stampa enfatizzi questi aspetti dei discorsi pontifici a discapito di altri, più positivi, mi sembra quasi ineluttabile. Le notizie in negativo sembrano sempre prevalere su quelle in positivo.

Il Papa nei suoi discorsi ha parlato chiaramente a favore della difesa della vita e della famiglia. E allo stesso tempo ha ricordato che «l’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà»…

Cardinal Bertone: E qui è scattato uno dei 19 applausi che hanno costellato il discorso inaugurale della Conferenza del Celam. Una volta al catechismo si insegnava che sono quattro i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio: l’omicidio volontario; il peccato impuro contro natura; l’oppressione dei poveri; la frode nel salario agli operai. Come si vede sono peccati, ahimé, di grande attualità. Nell’America Latina di oggi infatti – ma non solo lì – vi sono questi tentativi di legalizzare l’aborto o forme di unione che non possono denominarsi famiglia; i poveri sono ancora schiacciati da sistemi economici iniqui; e la manodopera è ancora sfruttata a volte in maniera selvaggia.
La Chiesa quindi non può mancare d i far sentire la propria voce contro questi peccati particolarmente odiosi. Tutti e quattro.

Nel discorso di apertura ad Aparecida ha usato parole forti sia contro il marxismo, sia contro il capitalismo. Per
la Chiesa quindi c’è un giudizio ugualmente negativo nei confronti di questi due sistemi?

Cardinal Bertone:
La Chiesa non guarda al nome dei sistemi ma agli effetti che essi producono sulle persone concrete. E
la Chiesa ha sperimentato, e continua a sperimentare, che sia i sistemi marxisti sia quelli capitalisti non sono adeguati per il benessere di tutta la popolazione. L’America Latina li ha sperimentati, e li sperimenta, entrambi. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Dove c’è solo una parvenza di uguaglianza sociale, non c’è libertà. Dove si dichiara solo di lavorare per una maggiore uguaglianza sociale, la libertà si restringe. E dove invece sembra esserci tanta libertà, le diseguaglianze sociali raggiungono un livello sempre più intollerabile. Il Papa non poteva mancare di sottolineare questi punti.

Il viaggio ha avuto uno strascico che riguarda la questione « india ». Il presidente del Venezuela, Hugo Chavez, ha pubblicamente dichiarato di pretendere le scuse di Benedetto XVI perché egli non avrebbe denunciato l’«olocausto» che i conquistadores europei avrebbero causato tra gli indios. Il Papa lo scorso 24 maggio ha ricordato anche le ombre che hanno caratterizzato quel periodo storico…

Cardinal Bertone: Come ha saggiamente detto il cardinale di Caracas, è probabile che il presidente del Venezuela non abbia letto bene il discorso del Papa. D’altra parte, si sa che quando i politici sono presi dalla foga oratoria, qualche giudizio può andare aldilà di quello che si pensa effettivamente. Sta di fatto che, a quanto mi risulta, alle dichiarazioni verbali non sono seguiti atti formali dal punto di vista diplomatico. Oltre a quanto detto dal Papa l’altro mercoledì, vorrei poi sottolineare come proprio nei giorni in cui sono scoppiate queste polemiche
la Santa Sede ha fatto sentire la sua voce al Palazzo di Vetro dell’Onu per denunciare il proprio disappunto per il rinvio sine die dell’adozione di una attesa Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni.
La Santa Sede infatti è e vuole essere vicina agli indios e ai loro problemi concreti, ma non ha interesse ad associarsi a quei movimenti ideologici che si riempiono la bocca con parole di solidarietà agli indios, propagandando a volte teorie anche un po’ strampalate, ma che poi alla prova dei fatti non sono affatto di aiuto reale alla causa sacrosanta delle popolazioni indigene.

Eminenza il 9 giugno il Papa incontrerà il presidente Usa George Bush. Si parlerà anche di America Latina?

Cardinal Bertone: Certamente, ma non solo. Anche di Medio Oriente e delle grandi questioni etiche e sociali che riguardano le popolazioni del mondo. Gli Stati Uniti sono un grande Paese e l’attuale presidente si è particolarmente distinto per alcune iniziative positive a favore della difesa della vita fin dal suo concepimento. Rimangono però alcuni problemi, già manifestati da quel grande profeta che è stato il servo di Dio Giovanni Paolo II, ad esempio sulla guerra in Iraq e anche sulla drammatica situazione dei cristiani iracheni, che è sempre più degradata.

Eminenza, permetta altre due domande extra. È pronta l’annunciata lettera del Papa ai fedeli cattolici cinesi?

Cardinal Bertone: Il testo della lettera è stato approvato definitivamente dal Santo Padre e ora si sta procedendo alle varie traduzioni e agli aspetti tecnici della sua pubblicazione.

E l’altrettanto atteso motu proprio che liberalizzerebbe l’uso del Messale cosiddetto di san Pio V a che punto è?

Cardinal Bertone: Credo non si dovrà aspettare molto per vederlo pubblicato. Il Papa è personalmente interessato affinché questo avvenga. Lo spiegherà in una sua lettera di accompagnamento, sperando in una serena recezione. 

buona notte

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La Vergine Maria

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dal sito:

http://www.emarrakech.info/Une-icone-bizantine-de-la-vierge-Marie-retrouvee-par-la-police_a9739.html 

Publié dans:immagini sacre |on 4 juin, 2007 |Pas de commentaires »

Diventare una vite che porta frutto

Giovanni Taulero (circa 1300-1361), domenicano a Strasburgo
Omelie, 7

Diventare una vite che porta frutto

I ceppi di vite, li si lega, li si impala, si piegano i tralci dall’alto in basso, li si attacca a pali solidi per sostenerli. In questo possiamo vedere la vita mite e santa e la passione del Nostro Signore Gesù Cristo, la quale deve essere in tutto il sostegno dell’uomo che cerca il bene. L’uomo deve essere piegato, ciò che in lui è alto deve essere abbassato, ed egli deve immergersi, con tutta la sua anima, in una vera e umile sottomissione. Tutte le nostre facoltà, interiori o esteriori, quelle della sensibilità e dell’avidità, come pure le nostre facoltà razionali, devono essere legate, ognuna al suo posto, in una vera sottomissione alla volontà di Dio.

Poi si rivolta la terra attorno ai ceppi e si sarchiano le erbacce. Così anche l’uomo deve sarchiare se stesso, profondamente attento a ciò che ci potrebbe essere ancora da sradicare nel fondo del suo essere, perché il divino sole possa avvicinarsi più direttamente e brillarvi. Se lascerai allora la forza dall’alto fare in questo modo la sua opera, il sole aspirerà l’umidità del suolo nella forza vitale nascosta nel legno, e i grappoli cresceranno magnifici. Poi il sole, con il suo calore agisce sui grappoli e fa sbocciare i fiori. E questi fiori hanno un profumo nobile e benevolo… Allora il frutto diviene indicibilmente dolce. Questo sia dato a noi tutti.

Publié dans:Non classé |on 4 juin, 2007 |Pas de commentaires »

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